Roma. “Si restringono ma non per sempre;
così i ghiacciai possono rinascere”.
Forse freudianamente in colpa dopo un
anno vissuto da catastrofista, Repubblica
di domenica dedicava un’intera pagina
(con tanto di richiamo in prima) a una recente
ricerca dell’Eth che spiega come i
ghiacciai alpini negli anni Quaranta si ritirassero
molto più velocemente di oggi e
fossero più piccoli di adesso. Che sia così
più o meno da sempre, che cioè i ghiacciai
crescano e diminuiscano nel tempo seguendo
una sorta di schema a zig zag, è noto
a chi le montagne le conosce da una vita.
Nel suo “Le mie montagne: gli anni della
neve e del fuoco” (Feltrinelli, 2006) Giorgio
Bocca racconta la sua formazione biografica
e militare sui monti delle Alpi, e da
semplice ma acuto osservatore della realtà
annota: “Sopra i tremila niente è cambiato
in questi secoli, la linea dei boschi è rimasta
stabile, i ghiacciai camminano un po’
più in su e un po’ più in giù”. E aggiunge:
“Sotto, invece, un mutamento continuo degli
uomini e degli animali, delle macchine
e delle case”. Raggiunto dal Foglio, lo scrittore
conferma e ricorda come “una volta,
per esempio al colle del Teodulo, dal Plateau
Rosa a Cervinia, passavano le greggi,
e adesso c’è un ghiacciaio. Quindi cambiamenti
enormi sono già avvenuti nel recente
passato: parlo infatti del 1700”.
Prima dello studio dell’Eth abbiamo letto
per anni articoli preoccupati su scioglimenti
da record e montagne che non sarebbero
più state le stesse; a chi sottolineava
che non troppo tempo fa la linea dei
ghiacciai era variata più volte, veniva risposto:
“Però mai a questa velocità”. Invece.
Questo potrebbe essere un altro tassello
buono per completare il puzzle del realismo
scientifico che l’allarmismo climatico
(non ambientale, si badi) degli ultimi
decenni ha cercato a più riprese di scombinare,
sostituendo l’osservazione (troppo
banale?) della realtà con modelli di previsione
fatti al computer che curiosamente
tendono sempre al peggio; si aggiunga poi
che sulla base delle urgenze derivate da
queste previsioni si lanciano proclami politici
(che poi falliscono, come ha insegnato
Copenaghen), piani di investimento economico
e si mettono al bando le flatulenze
delle mucche e i gas di scarico delle auto.
E il sole? Nella vulgata catastrofista, il sole
non c’entra niente. Peccato che a sentire
gli autori della ricerca sui ghiacciai,
Matthias Huss e Martin Funk, la causa del
veloce scioglimento degli anni Quaranta
era proprio la nostra stella: “Settant’anni
fa il livello di radiazioni che giungeva a
terra era dell’8 per cento superiore rispetto
a oggi”, dicono. E per gli amanti dei numeri
aggiungono: “Se si estrapolano i dati
per l’intero decennio dei Quaranta risulta
che la quantità di neve e ghiaccio che si è
sciolta è stata superiore del quattro per
cento rispetto a quella di quest’ultimo decennio”.
Eppure allora nessuno ci diceva
che nel giro di poco tempo le nostre montagne
sarebbero state un ammasso di sassi
polverosi come oggi si affrettano a vaticinare
gli esperti di turno.
Nel frattempo il nord Europa in questi
giorni è di nuovo alle prese con il freddo e
con nevicate molto intense. A questo proposito
è illuminante rileggere una previsione
del Cru, il centro inglese di ricerche
sul clima, tra i più ascoltati al mondo e
protagonista dello scandalo delle e-mail
rubate ai climatologi che il Foglio ha raccontato:
nel 2000 gli scienziati avvertivano
che le nevicate erano “ormai una cosa del
passato” e che la neve era “destinata a
scomparire dalle nostre vite”. Qualcuno lo
vada a spiegare agli inglesi e ai milanesi
in questi giorni.
Piero Vietti
Il Foglio 5 gennaio 2010