Vito Mancuso, docente di Teologia moderna
e contemporanea all’Università
San Raffaele di Milano ed editorialista di
“Repubblica”, ha scritto un libro che, senza
ironia, è intitolato “La vita autentica”
(Raffaello Cortina, pp.171, euro 13,50). Naturalmente
l’ironia non è sempre obbligatoria.
Ma quando si tratta, quando uno si
mette a trattare di vita autentica, con il
proposito di definirla e di dirci che cos’è
“un vero uomo”, diventa naturale fare dell’ironia
sull’assenza di ironia.
In più, Mancuso è teologo. Essendo io
stato teologo da bambino, perché in catechismo
davo sempre risposte giuste senza
studiare mai, purtroppo ora diffido dei
teologi e della loro autenticità. Mi sembrano
falsi bambini. Solo un bambino intelligente,
innocente e votato al bene (all’ubbidienza)
può infatti credere che sia
possibile e decente, senza ironie, parlare
di Dio e indovinare che cos’è e che cosa
vuole da noi. D’altra parte, chi deciderà in
modo convincente se un discorso teologico
è autentico o no? Forse, come ho detto,
si dovrebbe restare bambini da grandi per
fare i teologi senza ironia. Questo potrebbe
essere un merito. Resta però da stabilire
in quale modo e misura si può essere
autenticamente bambini da grandi al punto
da mettersi a insegnare
non solo che cos’è Dio, ma
che cos’è la vita autentica
di un vero uomo.
Potrei continuare su
questo tono. Ma credo di
aver manifestato a sufficienza
il mio pregiudizio negativo
per la categoria dei
teologi di cui Vito Mancuso
è un esempio. Beninteso,
non è che gli sono ostile. Il
fatto è che non lo trovo autentico
proprio quando
mostra di sapere che cos’è
un vero uomo. Se nessuno può
permettersi, come credo, di definire che
cos’è la vita autentica in generale e come
si fa ad averne una, al di là del giudizio su
casi singoli conosciuti di persona, credo
che il mio vantaggio polemico su Mancuso
consista in questo: che lui parla in generale
e resta nel generico enunciando principi
noti da tempo a chiunque, io invece
parlo di lui e del suo libro assumendomi
la responsabilità non generica di dire che
le sue parole sull’autenticità mi suonano
inautentiche.
Il punto secondo me è questo: che Mancuso
scambia la vita autentica con la vita
proba, con l’intenzione di fare il bene, con
la decisione di essere liberi e giusti, con il
desiderio sincero di essere se stessi e insieme
di superare se stessi aprendosi agli
altri, spogliandosi di ogni legame e di ogni
maschera, dicendo la verità e vivendola,
senza ubbidire a nessun potere mondano
(chiese, partiti, correnti di opinione, gruppi
di interesse). Il programma è vasto. Per
prudenza, comunque, vieterei a chiunque
non appartenga alle schiere angeliche di
decidere se la vita di un altro è autentica
o no e se un uomo è un vero uomo. Posso
giudicare un atto, un gesto, un discorso, un
comportamento, un libro: non un’intera vita.
Quando alla fine del suo saggio Mancuso
sintetizza in una cinquantina di righe
ciò che invano ha cercato di dire nelle 170
pagine precedenti, è probabile che alcuni
lettori si rendano conto che l’autore si mise
nei guai quando decise di trasformare
in un libro il suo intervento sulla vita autentica
all’edizione 2009 di “Torino Spiritualità”:
le ultime pagine, infatti, dicono
meno delle prime.
Mancuso spiega nella prefazione: “Riflettere
su tale tematica ha significato per
me uscire dal mio ambito peculiare, la
teologia, ed entrare nel mare aperto della
riflessione. Ma è solo così, credo, che la
teologia può sperare di tornare a incidere
sulla vita concreta: solo se ha il coraggio di
entrare nel laboratorio sperimentale della
ricerca sulla vita” (pp.17-18). Sancta simplicitas,
inquietante candore. Dunque
Mancuso, teologo credente, considera la
teologia il suo “ambito peculiare”, una
specializzazione nel sistema istituzionale
delle discipline e non (di per sé) un mezzo
sufficiente per avventurarsi nel “mare
aperto della riflessione”. Se Mancuso pensa
questo, vuol dire che per lui, teologo
credente, la teologia è una parzialità subordinata,
è un ramo specialistico della filosofia:
non è un modo di intendere la filosofia
in tutti i suoi rami, dalla gnoseologia,
all’ontologia, all’etica.
Questo rende problematica la cosa. Perché
se fare teologia non coincide più con
la riflessione sulla vita umana, allora si
deve spiegare e giustificare il suo perché
e la natura, i limiti del suo oggetto (Dio), si
deve dire a che serve, di che parla la teologia
e in che cosa crede il teologo credente
Mancuso.
Se si separa il discorso su Dio dal “sapere
umanistico” (Mancuso lo fa) questo
vuol dire prendere atto che la teologia in
occidente è irreversibilmente finita in
quell’“essiccatoio dello spirito” di cui
parlò Musil denunciando “l’uomo addestrato”
alle specializzazioni. Se cioè il teologo
Mancuso per pronunciarsi sulla vita
umana sente il bisogno di uscire dalla sua
specialità accademica e avventurarsi nel
“mare aperto della riflessione”, allora su
cosa riflette la teologia? E che cos’è Dio
per l’uomo? Se all’uomo “in senso
umanistico” il teologo in quanto
tale non potrebbe dire niente di
congruo, che genere di Dio è quello
di cui teologicamente parla?
Sarà forse Dio padre, non
Dio figlio e incarnato, non il
rabbi trentatreenne morto
sulla croce.
Infierisco un po’ sulle formulazioni
di Mancuso perché
credo vera una cosa che
lui stesso dice: “E’ l’esperienza
a dimostrare con pesante
evidenza che ci sono parole autentiche
e parole che non lo sono, sorrisi autentici
e sorrisi che non lo sono…”. Ovviamente
non sto giudicando l’autenticità dell’uomo
Mancuso, di cui non so niente. Giudico
solo l’autenticità delle sue parole nel
saggio intitolato “La vita autentica”.
Come ho detto, il libro dall’inizio alla fine
non fa un passo avanti, anzi peggiora. Il
meglio e il peggio, insomma l’essenziale, si
trova, mi pare, fra pagina 14 e pagina 15.
Purtroppo, con tutte le citazioni colte e nobili
che riesce a fare, Mancuso dimostra di
non avere abbastanza orecchio per sentire
quanto fasulle e sonoramente mafiose
siano, come è ovvio, le parole che Leonardo
Sciascia fa dire nel “Giorno della civetta”
al padrino don Mariano Arena:
“quella che diciamo l’umanità (…) la divido
in cinque categorie: gli uomini, i
mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto
parlando) pigliainculo e i quaquaraquà”.
Questo orripilante aforisma morale viene
offerto dal teologo come esempio analitico
di indagine sull’autenticità umana…
Mancuso aggiunge “Mi chiedo che cosa
faccia di un uomo ‘un vero uomo’”. E’ questo
che intendo con ‘autenticità della vita’,
ed è questo che indago in questo piccolo
saggio. Esso si costituisce intorno a tre tesi:
1. L’uomo autentico è l’uomo libero. 2.
L’uomo autentico è l’uomo libero anzitutto
da se stesso. 3. L’uomo autentico è l’uomo
che vive per la giustizia, il bene, la verità”.
Al di là di questo Mancuso non va. Del
resto, che cosa mai si potrebbe ricavare da
simili enunciati? Sono solo propositi un
po’ inconsulti di buona volontà. Non aggiungono
niente a quello che può pensare
chiunque quando fantastica di se stesso
come uomo di buona volontà.
Io non so che cosa sia essere autentici.
Posso solo intuire che cosa non lo è. Le tesi
di Mancuso mi sembrano inautentiche
soprattutto perché l’autenticità non è un
programma volenteroso. Si può essere ottime
persone, perfino eroi e santi, senza
essere autentici. Il problema su cui riflettere
forse è proprio questo.
Il Foglio 9 gennaio 2010