DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

LA TRADIZIONE COPTA: ORIGINI E STORIA

LA TRADIZIONE COPTA: ORIGINI E STORIA

Alberto Elli


SIGNIFICATO DELLA PAROLA COPTO


Parlando dei Cristiani d’Egitto, ci si riferisce ad essi generalmente col termine Copti; “copte” sono la loro antica lingua e scrittura e la loro attuale lingua liturgica; “copta” è la loro Chiesa; “copta” la loro arte; “copta” la loro storia.

Non è semplice definire esattamente il significato della parola copto, che non sempre è stata e viene usata con proprietà di significato. Per l’etimologia stessa del termine sono state proposte diverse ipotesi. Secondo la prima di queste, il nome deriverebbe da Caftor, figlio di Misraym e pronipote di Noè. Egli sarebbe stato il primo a stabilirsi nella valle del Nilo e avrebbe dato il suo nome alla città di Coptos (la moderna Qift). Questa città, posta a circa 40 km a nord-est di Luxor, nei pressi di Qena, è ora a maggioranza musulmana, anche se i Copti sono ancora molto numerosi. A differenza di altre località della zona, quali Asyut e Sohag, entrambe più a nord, essa non si è mai distinta particolarmente per le sue attività cristiane. Pertanto le giustificazioni per questa etimologia sembra si riducano alla semplice omonimia.

Una seconda ipotesi farebbe derivare il nome copto dal verbo greco kopto “taglio, recido”: tale nome sarebbe stato applicato ai Cristiani dell’Egitto dopo il concilio di Calcedonia (451), quando essi si separarono dalla comunione cristiana per seguire la cosiddetta “eresia monofisita”.

Una terza etimologia, molto piú accreditata, sostiene invece che corrompendo il termine greco Aigúptios “egiziano”, gli Arabi - nella cui scrittura non vengono trascritti né vocali né dittonghi - chiamarono, dopo la loro conquista dell’Egitto nel 639-642, gli Egiziani nativi Qbt o Qpht (in arabo non esiste la lettera “p”), che divenne poi a sua volta cophto, e quindi copto, nelle lingue occidentali. Questo termine, nato con gli Arabi intorno alla metà del VII secolo, avrebbe avuto, almeno all’inizio, un significato esclusivamente etnico. Ma poiché gli Arabi conquistatori erano musulmani e gli Egiziani conquistati in prevalenza cristiani, “copto” acquistò ben presto, accanto al suo significato etnico originario, anche una connotazione spiccatamente religiosa. Gli studiosi moderni, per motivi di classificazione, lo hanno poi applicato, andando a ritroso nel tempo fino al III secolo d.C., non solo agli indigeni abitanti dell’Egitto - inizialmente per lo piú pagani e poi man mano cristiani -, ma anche a tutte le manifestazioni della loro cultura: la lingua, la scrittura, la letteratura, l’arte, che può essere indifferentemente pagana o cristiana a seconda dei soggetti. È così che “copto” non è solo tutto ciò che caratterizza i Cristiani d’Egitto, ma è pure tutto quanto concerne il contemporaneo culto pagano di origine faraonica. E con “periodo copto” si intende quella fase della storia e civiltà egiziana che dal III secolo, momento in cui appaiono la scrittura e la lingua copte, arriva fino alla conquista araba.

Quando, a partire dal Mille, la maggior parte della popolazione egiziana era diventata musulmana, “copto” finì con l’indicare gli Egiziani rimasti aderenti al Cristianesimo, e nel contempo la loro lingua e la loro religione. Tra i Cristiani, i piú erano “monofisiti”, fieri avversari delle definizioni del Concilio di Calcedonia del 451, gli altri, invece, sostenitori di tali definizioni; a questi ultimi, che godevano del favore dell’imperatore di Bisanzio, venne spregiativamente assegnato dai loro avversari il termine arabo malakī, “imperiali”, “realisti”, donde il nostro melchiti. Questa suddivisione dei Copti perdura tuttora: da una parte vi sono i Copti “Monofisiti”, detti anche Copti Ortodossi, i cui testi liturgici sono ancora scritti nell’antica lingua, e dall’altra i Copti Melchiti (o Greco-Ortodossi), che hanno una liturgia di tipo bizantino ma in lingua araba. Per estensione, poi, il termine è stato utilizzato per designare quei Copti Ortodossi che sono diventati cattolici o protestanti (in prevalenza evangelici); ed è così che si parla anche di Copti Cattolici e di Copti Evangelici.

Nell’introduzione della The Coptic Encyclopedia, l’editore Surial Aziz Atiya asserisce che “I Copti sono i più puri discendenti degli antichi Egiziani”. I Copti guardano a sé stessi come ai “veri figli dei faraoni”, dove “faraone” è usato come metonimia per “autentico egiziano”. Ciò evoca un Egitto autonomo, glorioso, governato da re indigeni e non da stranieri. Questo era l’Egitto che c’era prima dei Tolomei e dei Romani, l’Egitto prima di Bisanzio, l’Egitto prima dell’invasione araba e dell’Egemonia islamica.

I Copti presentano l’Egitto come una terra santa, l’unica, al di fuori della Palestina, che sia stata santificata dalla presenza del Verbo Incarnato, Gesù bambino in fuga da Erode; una terra nella quale già prima Abramo, Giuseppe e Mosé avevano abitato.


STORIA


1. Gli inizi

A nessuno sfugge l’importanza dell’Egitto per la ricostruzione delle prime civiltà umane avanzate. Molto meno noto è invece il ruolo dell’Egitto nella formazione della prima cristianità. Il millennio che va dalla conquista di Alessandro Magno fino alla conquista araba rappresenta uno dei momenti più affascinanti di incontro tra civiltà diverse, aventi alle spalle una lunga tradizione culturale, sociale e politica, quali quella egiziana e quella greco-romana. È proprio in questo contesto di fecondo incontro culturale che si diffonde a partire dall’inizio del II sec. d.C., in connessione più o meno diretta con preesistenti gruppi giudaici, una vasta gamma di forme di cristianesimo, che per un lungo periodo trovano in Alessandria, una delle più grandi metropoli del mondo antico, il loro epicentro.


Prima di delineare alcune delle vicende che segnano i percorsi cristiani dei primi secoli, riflettiamo brevemente sul significato del cristianesimo egiziano e sui suoi apporti alla civiltà del Mediterraneo. L’Egitto cristiano si configura come uno dei principali laboratori dell’evoluzione teologica del cristianesimo antico.

  • Qui, all’inizio del II sec. d.C., si diffonde e matura, forse a partire dalla Siria, lo gnosticismo, un movimento teologico e religioso di grande levatura culturale, percepito dagli scrittori e dalle autorità della “Grande Chiesa” del tempo come uno dei più insidiosi pericoli per l’esistenza stessa dell’ortodossia cristiana.

  • Qui attecchisce facilmente, nella seconda metà del III sec. d.C., un altro movimento di origine mesopotamica, più istituzionalmente strutturato rispetto al precedente, il manicheismo.

  • Qui si sviluppa, soprattutto ad Alessandria, una forma di cristianesimo platonico e culturalmente qualificato che avrà ripercussioni enormi nella storia del pensiero cristiano .

  • Qui, proprio da una costola di questa forma di cristianesimo, nasce l’arianesimo (nel primo quarto del IV sec.), movimento teologico ed ecclesiastico che, soprattutto per motivi di natura politica, contrassegnerà tutto l’arco della storia del cristianesimo orientale e occidentale del IV sec. d.C.

  • Qui si afferma il monachesimo, nella sua straordinaria varietà di forme, il quale costituisce uno dei lasciti più importanti dell’Egitto alla civiltà occidentale e alla storia della Chiesa universale.


Questo polivalente apporto alla storia del cristianesimo può essere studiato e valutato grazie a una straordinaria molteplicità di fonti. Ciò che infatti rende il cristianesimo egiziano così interessante è il fatto che questi fenomeni complessi sono attestati in maniera ricca e multiforme.

Tuttavia, nonostante questa messe ricchissima di informazioni, le origini dell’evangelizzazione in Egitto rimangono avvolte nella più impenetrabile oscurità, in parte dovuta al fatto che l’Egitto non fu il luogo di missione di Paolo di Tarso.

La “leggenda” ha sopperito alla mancanza di fonti scritte. Le origini del cristianesimo nella Valle del Nilo si perdono nell’abbraccio della leggenda. Alcuni indizi, ricavabili direttamente dagli Atti degli Apostoli – degli alessandrini erano presenti al primo discorso pubblico di Pietro dopo la Pentecoste; Apollo, che predicava a Corinto, era alessandrino ed era stato educato in patria – lasciano presupporre che il messaggio evangelico avesse trovato degli adepti anche presso alcuni membri della comunità alessandrina della diaspora ebraica. Anche importantissimi reperti papiracei, alcuni risalenti ai primi decenni del II secolo, portano a credere che il Cristianesimo si sia impiantato abbastanza presto lungo la Valle del Nilo. Questi primi cristiani, appartenenti al mondo ebraico ma di lingua greca – è per essi, infatti, che era stata tradotta la Bibbia sotto Tolomeo II Filadelfo (cosiddetta Bibbia dei Settanta) – subirono tuttavia la tragica sorte degli altri Ebrei d’Egitto. A seguito di una ribellione scoppiata tra gli Ebrei della Cirenaica e presto divampata anche presso i loro correligionari egiziani, la repressione romana fu sanguinosissima: tra il 115 e il 117, alla fine del regno di Traiano e all’inizio di quello di Adriano, la comunità ebraica d’Egitto venne praticamente distrutta. E con la fine degli Ebrei d’Egitto – bisognerà aspettare fino al regno di Valeriano (dopo il 272) per ritrovare altri Ebrei in Egitto – anche i cristiani che, come detto, essendo di origine ebraica erano in pratica indistinguibili dagli altri Ebrei per i Romani, subirono identica sorte. Sulle ceneri di questo primo cristianesimo, di matrice ebraica e legato a Gerusalemme, sorgerà poi un altro cristianesimo, i cui membri proverranno ora dall’ambiente pagano, greco (i greci erano l’élite dominante, in particolare ad Alessandria) ed egiziano, autoctono, ossia copto.


La Chiesa copta fa la sua prima comparsa ufficiale nella storia solo alla fine del II secolo, verso il 190, con il vescovo di Alessandria Demetrio, attivo a cavallo tra il II e il III secolo (188-230), il primo vescovo di Alessandria che non sia soltanto un nome, del quale, anzi, conosciamo l’azione ecclesiastica. La leggenda copta ha colmato il vuoto lasciato dai documenti storici. È così che i copti ritengono che la loro Chiesa sia stata fondata da san Marco, durante il regno dell’imperatore Claudio (41-54), verso la metà del I secolo. Marco sarebbe morto martire sotto Nerone nel 68 (nel 1968 si sono celebrati i 1900 anni della sua morte, e nell’occasione papa Paolo VI ha restituito ad Alessandria alcune reliquie di san Marco che nell’828 due mercanti veneziani avevano trafugato da Alessandria a Venezia), dopo aver nominato un certo Anniano, ciabattino, come vescovo e successore. La tradizione copta vede in Demetrio l’undicesimo successore di Marco. Con lui la Chiesa appare ormai dottrinalmente ortodossa, dopo aver superato il pericolo costituito dalla predicazione delle sette gnostiche.

Sulle origini della struttura ecclesiale egiziana sono più le ombre che le luci. I primi rappresentanti del cristianesimo alessandrino sono personaggi come Basilide e Valentino che entrano nel campo della cosiddetta gnosi, una forma di speculazione teologica nella quale la rivelazione è concepita come caduta e recupero di un essere divino, Sophia, e la salvezza è ritenuta come riservata a quei pochi eletti – “pneumatici” o “spirituali” – che provengono da Sophia, mentre per gli altri uomini, gli “psichici” (“morali”) e gli “ilici” (“materiali”) non c’è rispettivamente che una salvezza inferiore o la distruzione.

Il fatto che le fonti registrino solo questi personaggi senza citare la presenza di una gerarchia ecclesiastica strutturata non deve far pensare che questa non esistesse, ma che tale gerarchia non riesce a qualificarsi culturalmente rispetto ai maestri gnostici.

Tra la fine del II secolo e l’inizio del III le cose cominciano a cambiare: appare anche un’istituzione che è un vanto del cristianesimo alessandrino: il Didaskaleion, coi suoi celebri maestri: Pantene, Clemente Alessandrino, Origene. È al Didaskaleion che dobbiamo il miracolo della fusione del Vangelo con la cultura greca, che metterà a disposizione del Cristianesimo e dell’apologetica cristiana tutto il pensiero greco, tutta la tradizione e l’eredità della retorica e della filosofia antica, così da formare cristiani illuminati: inestimabile dono dell’Egitto alla Chiesa universale. Scorgiamo già in Clemente, e poi con maggiore chiarezza in Origene, le tracce di una reazione a questa struttura evanescente dei cristiani alessandrini. In Origene, ritenuto lo spirito più brillante dell’antichità cristiana, l’insegnamento mira ad inserire la rivelazione cristiana nelle grandi correnti di pensiero dell’epoca, insistendo sull’esegesi allegorica e mistica. Il suo pensiero trinitario, la sua cristologia e la sua esegesi segneranno in maniera indelebile l’evoluzione del pensiero cristiano, anche quello dei suoi oppositori. Basti qui accennare a due motivi importanti del suo pensiero:

  1. la distinzione gnostica tra pneumatici, psichici e ilici, proposta dagli gnostici, è superata dalla distinzione in gradi (semplici, progredienti e perfetti) di un itinerario a Dio aperto a tutti;

  2. Origene profila una teologia trinitaria caratterizzata sia dalla distinzione delle persone sia dalla coeternità dei princìpi: distinzione di Padre, Figlio e Spirito Santo, chiamati “sostanze” o “ipostasi” (di qui prende nome la teologia delle “tre ipostasi”), distribuite in ordine discendente (tale schema viene definito “subordinazionismo”), unite tra loro da unità morale, di volere e di amore; e nel contempo generazione eterna del Figlio dal Padre, due termini che si implicano reciprocamente.

Origene insegna in una struttura che in un certo qual modo è sotto l’egida del vescovo, pur mantenendo una sua autonomia, cosa che alla lunga porterà però allo scontro tra le due figure e al successivo allontanamento di Origene. Il fatto che a Demetrio subentrino poi due vescovi, Eracla (231-247) e Dionigi (247-264), che erano stati direttori del Didaskaleion, indica che la scuola è ormai completamente integrata nella struttura ecclesiastica.

Con Demetrio nasce anche il cosiddetto episcopato monarchico: pur eletto tra e dai i membri del colleggio dei presbiteri che si trovano ai vertici della Chiesa alessandrina, il vescovo può imporre la sua volontà al collegio, imponendo in maniera indipendente la sua autorità.

Con Eracla si ha un primo allargamento della rete episcopale, con la nomina di venti vescovi, segno che il cristianesimo egiziano non è più una questione puramente alessandrina ma interessa ormai tutto quanto l’Egitto.

Con Dionigi il Grande la Chiesa egiziana fa il suo primo serio incontro con la persecuzione, quella di Decio (250), dopo quella di Settimio Severo nel 202, e coi problemi che questa porta con sé, in particolare il problema dei lapsi, di quanti cioè, sotto la minaccia di tortura, avevano abiurato il cristianesimo e ora, dopo la fine della persecuzione, chiedevano di rientrare nella comunità cristiana. Dionigi fu inoltre il primo vescovo alessandrino a cooperare con gli altri vescovi cattolici al di fuori dell’Egitto, come testimoniano i suoi contatti coi vescovi di Roma, Laodicea e Armenia, azione che proietterà, per i prossimi due secoli, la Chiesa egiziana sul palcoscenico mondiale.

Gli ultimi decenni del III secolo sono un periodo di relativa pace e tranquillità, che vede la Chiesa egiziana radicarsi sempre più nel tessuto sociale. Questa situazione viene drammaticamente rotta dalla persecuzione lanciata da Diocleziano e Galerio: ne abbiamo una vivida descrizione nella Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. Questa esperienza segnò maniera irreversibile la Chiesa Copta: la sua “era” , chiamata “era dei martiri”, parte dal 284, anno della salita al potere di Diocleziano.


2. L’epoca delle eresie e della separazione

  • I concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381

Uscita dalla terribile prova, ove morì, in un sussulto di persecuzione, sotto Massimino Daia (305-313), anche il suo patriarca, Pietro I (300-311), il “Sigillo dei martiri”, la Chiesa copta si trova in breve tempo a dover fronteggiare due crisi profonde e laceranti: lo scisma meliziano, che è un fenomeno di contestazione del potere del vescovo di Alessandria, e la crisi ariana che, nata come semplice problema interno dell’Egitto, non tarda a diventare una vicenda di scontro tra diversi episcopati di intere regioni, che coinvolgerà tutta la cristianità: una crisi, quindi, non solo teologica, ma anche ecclesiastica e politica. La Chiesa egiziana uscirà da queste due crisi sconvolta in profondità. L’arianesimo deriva il suo nome da quello del suo propugnatore iniziale, Ario, il quale, pur riconoscendo un Padre, un Figlio e uno Spirito Santo, intendeva salvaguardare all’interno della Trinità l’originalità e i privilegi del Padre, l’unico infinito, eterno, ingenerato, in sostanza l’unico vero Dio. Questa insistenza nel sottolineare l’assoluta originalità e trascendenza del Padre, condusse Ario ad affermare la netta inferiorità del Figlio rispetto al Padre, negando la piena e completa divinità della seconda persona, il Verbo e considerandola una pura creatura, seppure di ordine superiore agli uomini, la prima e la più eccellente della creature di Dio, da lui prodotta non necessariamente, ma liberamente e volontariamente, per essere suo strumento nella creazione degli altri esseri. Predicava inoltre che il Verbo non era eterno, in quanto ci sarebbe stato un tempo, prima che fosse generato, in cui non sarebbe esistito. Nella esposizione della sua dottrina, Ario si interessava poco della terza persona della Trinità; riteneva comunque che anch’essa non fosse Dio, ma una semplice creatura, la prima delle creature create dal Figlio per volontà del Padre, e come tale molto al di sotto del Verbo. Negando il dogma della Trinità, l’errore di Ario si opponeva anche al mistero dell’Incarnazione e della Redenzione: non era Dio, ma una creatura, che si era incarnata ed era morta. L’arianesimo si diffuse celermente e per risolvere la questione l’imperatore Costantino convocò un concilio a Nicea (325; primo Concilio “Ecumenico”). I Padri conciliari confutarono l’arianesimo, definendo il Figlio vero Dio da vero Dio e consustan­ziale al Padre, ossia “della stessa sostanza” (homoousion) del Padre. Nonostante le decisioni conciliari, l’arianesimo non era affatto sconfitto e l’eresia avvelenò ancora per decenni la vita della Chiesa, trovando l’appoggio anche imperiale. Grande e indomito oppositore dell’arianesimo fu Atanasio, patriarca di Alessandria (328-373), che subì ben cinque esili per la sua fedeltà al cattolicesimo. L’arianesimo trovò la sua fine solo col Concilio Ecumenico di Costantinopoli I (381), dove vennero condannate altre eresie, quali l’eresia pneumatomaca (negava la divinità dello Spirito Santo, ritenendo che fosse “non solo una creatura, ma uno degli spiriti che servono (Dio)”, e che “esso non differisce dagli angeli che solo di grado”) e l’apollinarismo (forma di monofisismo predicata da Apollinare il Giovane, 310-390, vescovo di Laodicea in Siria, per il quale in Cristo non vi è che una sola natura concreta, la divina, dotata, per il fatto della sua unione con un corpo animato, di funzioni umane).

A Nicea, nel 325, il Concilio aveva riconosciuto tre sedi più importanti: Roma, Alessandria e Antiochia. Col Concilio di Costantinopoli (381) entrò di prepotenza nello scacchiere delle sedi episcopali del Mediterraneo anche Costantinopoli che, per essere la “Nuova Roma”, si arrogò il primato d’onore dopo Roma. Da questo momento uno degli scopi del seggio alessandrino divenne quello di riaffermare i diritti di Alessandria nei confronti di Antiochia e soprattutto di Costantinopoli. Tale ideale fu incarnato con successo dalla politica ecclesiastica del vescovo Teofilo (385-412). Con la lotta contro gli Ebrei e in particolare contro i pagani, e col rilancio di una urbanistica cristiana, Teofilo cercò da una parte di guadagnarsi l’appoggio dell’imperatore e dall’altra di accreditare l’immagine di Alessandria quale unica autentica interprete della religione cristiana, ormai divenuta religione imperiale. Anche Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli (398-407), cadde vittima della politica ecclesiastica aggressiva di Teofilo: facendo perno su un’alleanza di vescovi e di personaggi della corte imperiale, tra cui Eudoxia, moglie dell’imperatore Arcadio (395-408), Teofilo riuscì a far dichiarare deposto per ben due volte il Crisostomo, che morì nel 407 sulla via dell’esilio.


Il quarto secolo è tuttavia anche il periodo di affermazione del fenomeno monastico, nelle sue diverse forme. Esso, insieme con le persecuzioni, fu un potente fattore di diffusione del cristianesimo in zone non cristianizzate. Nato come movimento essenzialmente laico, slegato dalle strutture ecclesiastiche, l’enorme ampiezza e influenza che il movimento assunse spinse la gerarchia ecclesiastica a cercare tutti i mezzi per attrarlo nella propria orbita. E si deve ad Atanasio, l’eroe della lotta contro l’arianesimo, se il monachesimo è stato attratto nell’orbita ecclesiale.


Il primo Concilio di Efeso (431)

Finora le deviazioni dottrinali erano incentrate sulle questioni trinitarie. Risolto il problema trinitario, sorsero altro dottrine eterodosse, quelle cristologiche, che in seguito si riveleranno durature e dannose per l’unità della Chiesa. Il dibattito si concentrava ora sulla persona stessa di Gesù, su quali fossero le relazioni che intercorrevano in Lui tra queste due nature. Il problema cristologico poteva essere affrontato da due punti di vista diversi:

- o enfatizzando l’unità del Cristo così da coinvolgere l’unione della sua umanità con la divinità, col pericolo di relegare la prima in posizione di assoluto subordine rispetto alla seconda,

- oppure sostenendo l’integrità di ogni elemento, il divino e l’umano, al punto di compromettere l’unità del soggetto e di riconoscere in Lui due esseri separati.

Mentre i teologi alessandrini propendevano per la prima interpretazione, la seconda era insegnata dalla scuola di Antiochia. Questa giunse fino a sostenere che se la natura umana e quella divina di Cristo sono assolutamente complete, queste dovevano formare due persone distinte che, al massimo, potevano trovarsi unite accidentalmente in Cristo. Riconoscendo nel Verbo due persone distinte, i sostenitori di queste idee predicavano che Maria Vergine era madre solo dell’uomo-Cristo, negandole pertanto l’appellativo di Theotókos “genitrice, madre di Dio” riconosciutole dalla Chiesa. Nestorio, monaco di Antiochia che il 10 aprile 428 era stato eletto patriarca di Costantinopoli (428-431), divenne il principale sostenitore e diffusore di questa eresia, nota in seguito come nestorianesimo. Tale dottrina era sostanzialmente la negazione della redenzione: essa, operata da Dio col corpo, non sarebbe stata altro che una mera opera umana.

Grande oppositore di Nestorio fu Cirillo, patriarca di Alessandria (412-444). Figlio di una sorella di Teofilo, Cirillo proseguì la spregiudicata politica ecclesiastica dello zio: durante il suo lungo episcopato ebbe sempre presente l’esigenza di affermare i diritti del cristianesimo Alessandrino. E la questione di Nestorio fu per lui l’occasione propizia per sferrare l’attacco. Cirillo si rivolse a papa Celestino I (422-432), che già nel 429 gli aveva chiesto informazioni circa la nuova controversia, denunciando il patriarca di Costantinopoli. Nell’agosto 430, un sinodo tenuto a Roma dichiarò eterodossa la dottrina di Nestorio, proclamando la legittimità del titolo “madre di Dio” dato a Maria e rigettando le spiegazioni confuse e tortuose di Nestorio sul parto verginale. Subito dopo la chiusura del sinodo, il pontefice inviò una lettera a Cirillo (11 agosto 430), nella quale, rallegrandosi calorosamente con lui per la sua devozione all’ortodossia, gli comunicava le decisioni prese nei riguardi di Nestorio, incaricandolo di farle eseguire. Ricevuti i documenti pontifici, nel novembre del 430 Cirillo convocò un sinodo dei vescovi egiziani ad Alessandria, per accordarsi sulla via da seguire. Appoggiandosi all’autorità della Sede Apostolica e agendo in nome del papa, Cirillo fece sapere a Nestorio che se non avesse ritrattato i propri errori entro dieci giorni dalla notifica della sentenza emanata contro di lui, sarebbe stato deposto e scomunicato. Inoltre, venne inviata all’eresiarca una lettera, di cui era autore lo stesso Cirillo, che traduceva, sotto forma di dodici anatematismi da sottoscrivere, pena la scomunica, la dottrina ortodossa dell’Incarnazione. L’imperatore Teodosio II (408-450), al quale nel frattempo Nestorio si era rivolto, prese le parti del suo patriarca e, per dirimere la questione e riportare pace e unità nell’impero, convocò, il 19 novembre 430, un concilio generale, da tenersi a Efeso il 7 giugno 431. Il Concilio depose Nestorio, ridotto allo stato laicale ed esiliato, sancendo la definitiva condanna del nestorianesimo.

Al contrario, invece, le formule cristologiche di Cirillo vennero accettate quale definizione ortodossa della natura di Cristo. Alla fine Cirillo di Alessandria seppe fare le concessioni indispensabili: non sacrificando in nulla l’ortodossia fece però delle concessioni circa la terminologia. In cambio della propria accettazione della condanna di Nestorio, Antiochia ottenne da Cirillo l’assenso a una definizione dogmatica nota come Formula di Unione (23 aprile 433). Questa formula fu il primo di una lunga sequela di tentativi di compromessi tra opposte concezioni sulla persona di Cristo che sarebbero continuati fino alla conquista araba.

Il nestorianesimo non era comunque morto: la dottrina di Nestorio venne fatta propria dalla Scuola di Edessa. I suoi aderenti, denominati nestoriani, perseguitati dall’autorità imperiale furono costretti a lasciare l’impero romano e si rifugiarono in Persia, in particolare a Nisibi, dove le loro idee vennero accettate dai Cristiani locali. La Chiesa persiana divenne pertanto nestoriana, segnando così una propria netta distinzione dalle Chiese dell’impero bizantino. Essa, fu la prima Chiesa nazionale a formarsi in Oriente.


  • Il secondo Concilio di Efeso (449)

Nel frattempo, la discussione teologica, sempre viva, si era ora apertamente spostata sull’unicità o dualità della natura di Cristo. A Costantinopoli, Eutiche (378-454), archimandrita, ossia superiore, del grande monastero di Giobbe, nelle vicinanze della capitale, si era fatto promotore, verso il 447-448, trattando il problema dell’Incarnazione, di una corrente di pensiero che, nata come opposizione al nestorianesimo, era caduta nell’errore opposto. Esagerando la dottrina della reale unione delle due nature nell’unica persona di Gesù Cristo, Eutiche giunse alla concezione (che si rifaceva all’insegnamento di Apollinare) che nel Verbo fatto carne l’unione delle due nature è talmente intima da garantire non solo l’unità della persona di Cristo, ma da diventare una sola natura. Sviluppò la formula di Cirillo “una physis incarnata del Dio Verbo” nel senso che la divinità di Gesù avrebbe in qualche modo assorbito l’umanità, per cui egli non sarebbe più “consustanziale a noi nella sua umanità”. E poiché si trattava proprio di assicurare la redenzione, fu predicata l’unità della natura divina, nella quale veniva assorbita la natura umana. Questa dottrina, che insisteva sull’unicità della natura divina del Cristo a detrimento della sua natura umana, è chiamata dagli storici monofisismo reale. Essa si diffuse non solo a Costantinopoli, ma in tutto l’Oriente, accolta con entusiasmo dai più ardenti difensori degli anatematismi di Cirillo e dagli avversari della Formula di Unione, tra i quali il patriarca di Alessandria Dioscoro (444-454).

Ma l’8 novembre 448 avvenne un colpo di scena. Mentre il patriarca Flaviano di Costantinopoli teneva una riunione con alcuni vescovi presenti in città, il vescovo Eusebio di Dorylaeum si alzò e in piena assemblea accusò Eutiche di eresia. Flaviano fece convocare Eutiche davanti ai vescovi per giustificarsi; dopo diversi tentativi per indurlo a lasciare il suo monastero, Eutiche accettò infine di comparire davanti a un sinodo composto da diciotto archimandriti e trentuno vescovi (22 novembre 448). Al suo rifiuto di ritrattare le proprie idee, il sinodo lo scomunicò per apollinarismo, lo privò dello status sacerdotale e lo depose dalle sue funzioni di archimandrita. Eutiche si appellò a papa Leone I (440-461), ma questi, dopo aver preso visione dei documenti relativi alla dottrina da lui professata, confermò la sentenza di Costantinopoli.

L’imperatore Teodosio, insoddisfatto di come Flaviano aveva trattato la questione, con un decreto del 30 marzo 449 ordinò ai vescovi di riunirsi ad Efeso per un concilio generale il 1 agosto 449 (secondo Concilio di Efeso), per riprendere dall’inizio l’esame della controversia. L’8 agosto, circa centotrentacinque vescovi si riunirono a Efeso: i seguaci di Eutiche, con alla testa Dioscoro, spalleggiato da un largo seguito di monaci, riuscirono a conquistare la maggioranza. Papa Leone aveva inviato tre legati che lo rappresentassero: essi erano latori di una Epistola dogmatica papale, chiamata Lettera a Flaviano (Tomus ad Flavianum), ma più nota col nome di Tomo di Leone (Tomus Leonis). Vero e proprio trattato sull’Incarnazione, in essa il pontefice esponeva la dottrina cristologica della Chiesa latina: in Gesù Cristo coesistono, in maniera immutabile, distinta e indivisibile, un’unità di persona e una dualità di natura; ognuna delle due nature, la divina e la umana, esercita le sue proprie particolari facoltà, ma nell’unità della persona. La terminologia usata dal papa era gradita fino a un certo punto a quanti si rifacevano alla teologia di Cirillo, per i quali due nature integre e complete comportano necessariamente due persone. Ricorrendo a metodi ben poco ortodossi, Dioscoro riuscì perciò a impedire che la lettera papale venisse letta al concilio, quindi, senza che i legati pontifici potessero opporre proteste, fece riconoscere ortodosso Eutiche e deporre invece i suoi principali avversari. Egli fece appello anche alla soldataglia, che invase la basilica; i soldati si abbandonarono a ogni tipo di violenze contro gli oppositori di Dioscoro; lo stesso patriarca di Costantinopoli ne fece le spese: ferito, Flaviano morì dopo alcuni mesi a Hypepe, in Lidia, dove si era ritirato (17 o 18 febbraio 450). Conosciuti questi tristi avvenimenti per bocca del diacono Ilario, uno dei tre legati, che era riuscito fortunosamente a raggiungere l’Italia, papa Leone bollò questo concilio come “il brigantaggio (Latrocinium) di Efeso”.

La vittoria di Dioscoro sembrava completa; egli riuscì addirittura a imporre un proprio uomo, Anatolio, quale patriarca di Costantinopoli (449-458). Per un momento si può assistere alla realizzazione piena del sogno di Teofilo e Cirillo: Alessandria è diventata la prima città d’Oriente e la sua comunità cristiana la vera interprete dell’Impero Romano d’Oriente a livello religioso. Ma si rivelò una vittoria di Pirro, un trionfo di breve durata: dopo soli due anni, nel 451, a Calcedonia, la situazione doveva ribaltarsi, sancendo la separazione definitiva della Chiesa d’Egitto, e con lei di quella di Siria, e sanzionando in maniera definitiva la supremazia di Costantinopoli su Alessandria.

Il Concilio di Calcedonia (451)

Nonostante le numerose lettere di protesta del papa e il disappunto espresso della sorella Pulcheria, Teodosio II, soddisfatto dei risultati di Efeso, rifiutò di convocare un nuovo concilio. Ben presto, però, i fatti precipitarono: il 28 luglio 450, durante una partita di caccia, l’imperatore cadde da cavallo e morì. La situazione politica cambiò improvvisamente: la sorella Pulcheria salì al trono imperiale e offrì la propria mano al senatore e generale tracio Marciano, che divenne imperatore d’Oriente (450-457). Appena salito al trono, Marciano, che non nutriva molta simpatia per gli Egiziani, prese le parti del papa e d’accordo con la moglie Pulcheria intraprese una lotta contro la supremazia religiosa di Alessandria. Eutiche venne confinato in un sobborgo di Costantinopoli, il corpo di Flaviano venne riportato in città e il suo nome reintegrato nei dittici (ottobre 450), i vescovi esiliati da Dioscoro furono richiamati e il 23 maggio 451 l’imperatore indì un concilio, da tenersi a Nicea il 1 settembre dello stesso anno, per mettere fine alle discussioni e per definire “la vera fede più chiaramente, e per sempre”.

Il giorno stabilito, più di cinquecento vescovi si trovarono riuniti a Nicea, ma poiché l’imperatore, che aveva espresso la volontà di essere presente all’apertura del Concilio, era trattenuto da operazioni militari contro gli Unni, questa venne differita. Dioscoro, che era arrivato accompagnato da diciassette vescovi egiziani, approfittò di questo indugio per riunire attorno a sé i suoi seguaci e scomunicare papa Leone, ritenendo il suo Tomo contaminato dal nestorianesimo.

Intanto Marciano chiese che l’assemblea si trasferisse a Calcedonia (odierno quartiere Kadiköy di Istanbul), più vicina a Costantinopoli, sulla sponda asiatica del Bosforo, per il mese di ottobre. La prima sessione del concilio si tenne l’8 ottobre, nella Basilica di santa Eufemia. Fin dall’inizio Dioscoro venne trattato come accusato e molti vescovi, prima suoi sostenitori, lo abbandonarono: tra di essi anche quattro dei diciassette vescovi egiziani. Furono letti i Simboli dei concili di Nicea e di Costantinopoli, accettati per acclamazione, come pure il Tomo di Leone. Una commissione di ventitré vescovi si riunì per tracciare un nuovo Credo, cosa che fece in tre giorni. Il 13 ottobre, Dioscoro, chiamato per ben tre volte ad apparire in concilio per sottoscrivere l’accettazione al Tomo di Leone e rendere conto del proprio operato, rifiutò orgogliosamente di parteciparvi e venne pertanto giudicato in contumacia. Fu accusato di condotta ribelle e dichiarato deposto dalla sua dignità episcopale; tutti i vescovi espressero parere concorde. La sentenza fu comunicata al condannato, a Marciano e a Pulcheria, e al clero di Alessandria.

La sessione cruciale, quella destinata a trattare di problemi di fede, fu la quinta, tenutasi il 22 ottobre. Parlando di Cristo, Dioscoro e i suoi sostenitori sostenevano che Cristo risulta “di due nature”, ma che non sussiste “in due nature”: in lui c’è una sola natura, o ipostasi composta (monofisismo verbale). Il Credo accettato aveva la frase “in due nature” e non “di due nature”, come sosteneva Dioscoro. Il concilio decretò che la vera dottrina era contenuta nel Tomo di Leone, che descriveva il Cristo come completo nella sua umanità e pure divinità, uno e lo stesso Cristo in due nature, senza confusione o cambiamento, divisione o separazione, ogni natura concorrendo in una persona e in un’ipostasi: “unità di persona e dualità di nature”.

Le ultime sessioni di Calcedonia furono occupate da discussioni riguardanti la disciplina e l’organizzazione amministrativa della Chiesa: la posizione di Alessandria quale sede favorita dell’Oriente venne ufficialmente sostituita da quella di Costantinopoli.

Con un editto del 7 febbraio 452, diretto agli abitanti di Costantinopoli, l’imperatore Marciano obbligava tutti ad attenersi alle decisioni del Concilio, proibendo qualsiasi discussione in materia di religione.

Dioscoro, deposto, venne esiliato sul Mar Nero e in esilio morì il 4 settembre 454, senza aver mai rinnegato le proprie convinzioni. In Egitto egli divenne l’espressione più genuina del martire e ancor di più guadagnò il sostegno dei monaci; la maggior parte dei suoi vescovi e dei fedeli si schierarono apertamente dalla sua parte, anche per odio verso Costantinopoli, continuando a ritenerlo il loro legittimo patriarca fino alla sua morte.

L’effetto del Concilio di Calcedonia fu di unificare la maggior parte della Cristianità occidentale e orientale con una definizione cristologica e un Credo comune, ma rese inevitabile lo scisma: gli intransigenti monofisiti si trovarono fuori dalla Chiesa e costituirono così una Chiesa indipendente, monofisita. In Siria, mentre da una parte il risultato di Calcedonia venne visto con compiacimento, quale rivincita della Chiesa di Antiochia sulla rivale di Alessandria, da un’altra parte, soprattutto tra i ceti più popolari, venne visto come una vittoria dell’odiato partito bizantino. E così, sia in Egitto quanto in Siria, i dogmi calcedoniti trovarono accoglienza presso gli elementi greci o ellenizzati della popolazione, fedeli al governo centrale, mentre il monofisismo sposò il sentimento nazionale e trovò accoglienza tra gli strati popolari, in particolare nelle campagna (nella Khora, in Egitto).

È da sottolineare che monofisita è un concetto relativamente recente: per gli imperatori, coloro che si opponevano alle decisioni di Calcedonia erano semplicemente dei diakrinómenoi, degli “esitanti”. Soltanto con l’instaurazione di una gerarchia ecclesiastica indipendente nella seconda metà del regno di Giustiniano, “monofisita” diventa un termine appropriato per riferirsi agli anti-calcedoniti; prima di allora, esso viene usato convenzionalmente, per evitare delle perifrasi o circomlocuzioni di difficile formulazione. Il termine stesso di “anti-calcedoniti”, che per alcuni potrebbe essere un’alternativa a “monofisiti”, ha tuttavia lo svantaggio di riferirsi a gruppi aventi diversi punti di vista e spesso in opposizione tra di loro. Poiché il vero monofisismo è quello di Eutiche, si tende oggi, grazie anche allo spirito ecumenico che anima i contatti tra le diverse Chiese, a utilizzare un’altra definizione per indicare il monofisismo delle Chiese d’Oriente, termine che porta in sé una colorazione eretica non legata a dati teologici concreti. Oltre al già citato monofisismo verbale, è stato proposto quello di diplofisismo (da “una doppia natura”, espressione che compare già negli scritti patristici pre-calcedoniti), di enofisismo e di miafisismo (il concetto di miafisismo è ritenuto il più adatto a sottolineare come, fedeli alla cristologia cirilliana della mia physis, i suoi seguaci accettino “una” (mia) natura unita del Cristo e non una “singola” (mono) natura).


3. Gli eventi successivi a Calcedonia

Sconfitto in campo dottrinale, il monofisismo non lo fu in quello politico. I suoi seguaci riuscirono, anche con la forza, ad impossessarsi delle sedi principali: Gerusalemme, Alessandria, Antiochia. Gli imperatori di Bisanzio cercarono nei secoli successivi, fino alla conquista araba, di riportare l’unione religiosa tra i popoli loro sottomessi.

Inizia in Egitto una fase estremamente complessa, in cui i due partiti, anti-calcedonita e pro-calcedonita, prevalgono periodicamente ad Alessandria e nel resto dell’Egitto con più o meno successo, entrambi miranti all’unica carica di vescovo di Alessandria. È solo con la metà del VI secolo, sotto Giustiniano I (527-565), che si avverte la necessità di eleggere un patriarca concorrente a quello pro-calcedonita: lo scisma acquisisce una sua ben visibile formalizzazione: due vescovi contemporanei, uno “monofisita” e l’altro “calcedonita”.


  • L’Enotico di Zenone

Ad Alessandria, il patriarca Proterio, mandato da Costantinopoli, venne assassinato nel 457, mentre Timoteo Eluro si insediò come primo patriarca dissidente; la sua carica fu però contestata da Timoteo Salofaciolo. L’imperatore Zenone (474-475; 476-491), consapevole della forza del movimento monofisita in Egitto, cercò di attuare una politica di compromesso, per riportare l’unità sia nella Chiesa che nello Stato. È così che, su consiglio del patriarca costantinopolitano Acacio di Berea (471-489), emise, il 28 luglio 482, il famoso Enotico, o “Strumento di Unione”, un editto imperiale che cercava di raggiungere l’unità religiosa puntando non sulle divergenze ma sulle cose comuni. In esso venivano riconosciute le decisioni dei primi tre concili ecumenici (Nicea, Costantinopoli ed Efeso), si confessava Cristo come vero Dio e vero Uomo in una persona, omettendo qualsiasi riferimento al numero delle “nature”, si condannavano gli insegnamenti di Nestorio e di Eutiche, si accoglievano i dodici anatematismi di Cirillo e Maria veniva ripetutamente designata Theotókos. Il tentativo di riconciliazione dell’Enotico si riproponeva quindi di ritornare alla situazione pre-calcedonita, senza tuttavia esplicitamente ripudiare il concilio di Calcedonia, ma ignorandolo. Così come formulato, esso poteva essere accolto sia dai monofisiti moderati che dai calcedoniti moderati: venne infatti sottoscritto dai patriarchi monofisiti di Alessandria (Pietro Mongo) e di Antiochia e sembrò riportare la pace almeno tra le Chiese d’Oriente.

Ma le ambiguità dell’Enotico, destinate, almeno secondo le intenzioni di Zenone, a promuovere l’unità, ebbero l’effetto contrario, portando la divisione là dove si voleva invece unire e riconciliare. In Egitto, per esempio, l’intesa con l’imperatore si arenò ben presto per la ferma opposizione dei monaci, che si rifiutarono di riconoscerlo e crearono la setta scismatica degli Acefali, così detti perché non riconoscevano alcuna autorità. La principale debolezza del documento consisteva nel fatto che esso era stato pubblicato per autorità dell’imperatore, e non era il prodotto del lavoro di un concilio di vescovi. Ciò, unitamente al fatto che l’Enotico trascurava il Tomo di Leone, rifacendosi a Cirillo, provocò l’ostilità di Roma, che si rese ben presto conto delle reali implicazioni dell’Enotico. Riportando alcune voci che circolavano a Roma secondo le quali Acacio asseriva di ritenersi “il capo della Chiesa intera”, “patriarca ecumenico”, ossia “universale, papa Felice III (483 - 492) convocò il patriarca di Costantinopoli a Roma: al suo rifiuto, lo dichiarò decaduto. A sua volta Acacio cancellò dai dittici il nome del papa. Quando il 1 agosto l’imperatore Zenone prese le parti del suo patriarca, lo scisma con Roma, che la storia ricorda come scisma acaciano, divenne realtà. Questa rottura di comunione tra Roma e Bisanzio durerà per trentasei anni, fino al 520.


Giustino e Giustiniano. I Tre Capitoli

Quanto al monofisismo, la situazione restò confusa, con il predomino degli anti-calcedoniti durante il regno di Anastasio I (491-518) e fino all’avvento di Giustino I (518-527), loro strenuo avversario. Il nuovo imperatore, che vedeva la stabilità dell’impero risiedere unicamente nell’unione delle due Rome, la “Vecchia” e la “Nuova”, non perse tempo a inaugurare una politica religiosa radicalmente diversa e apertamente pro-calcedonita, che avrebbe inevitabilmente portato alla tragica divisione del mondo bizantino nelle sue metà calcedonita e anti-calcedonita. Già entro il 20 luglio 518, Severo, patriarca di Antiochia e maggiore rappresentante del partito anti-calcedonita, venne deposto. Quindi Giustino incaricò il nipote Giustiniano (più tardi imperatore) di adoperarsi per porre fine allo scisma acaciano: dopo elaborate trattative, il 29 marzo 520, domenica di Pasqua, tra il giubilo popolare Giustino I ristabilì solennemente la comunione con Roma e la dottrina di Calcedonia: il clero venne obbligato a confessare la fede cattolica e più di duemila vescovi dovettero solennemente riconoscere il primato romano.

Nelle province orientali dell’impero, questa misura provocò una violenta reazione: dappertutto, a Tiro come a Gerusalemme e ad Antiochia, i calcedoniti si accanirono contro i monofisiti. Tra il 518 e il 523 più di cinquanta vescovi dell’Asia Minore, della Siria e della Mesopotamia vennero espulsi dalle loro sedi ed esiliati; alcuni vennero anche torturati e messi a morte. Solo l’Egitto rimase quasi del tutto esente da questa persecuzione, poiché Giustino non osò imporre un patriarca calcedonita ad Alessandria; è così che esso divenne anzi il luogo di rifugio di schiere di esiliati e fuggitivi. Tra questi, i più importanti furono Severo di Antiochia e Giuliano di Alicarnasso. Questa massiccia epurazione tra il clero monofisita rese tuttavia inevitabile la formazione di una gerarchia anti-calcedonita: è durante il regno di Giustino che si pongono infatti le fondamenta per la creazione di una Chiesa monofisita, indipendente da quella ortodossa di Bisanzio.

Il 1 agosto 527, alla morte di Giustino I, il quarantacinquenne nipote Giustiniano salì al trono senza incontrare opposizione. Pur cristiano, l’imperatore restava fondamentalmente romano ed ebbe quindi sempre la tendenza a considerarsi un capo per la Chiesa: il concetto di autonomia della sfera religiosa gli era completamente estraneo. Riteneva diritto e dovere del basileus dirigere anche gli affari della Chiesa, non solo quelli dello Stato; papi e patriarchi altro non erano che suoi funzionari e non esitò a considerarli come ribelli quando osarono opporsi alla sua volontà. Non si limitò quindi a intervenire personalmente in questioni di organizzazione ecclesiastica, come già avevano fatto i suoi predecessori da Costantino in poi, ma si riservò anche il potere di decidere in questioni dogmatiche e liturgiche. L’epoca di Giustiniano rappresenta il momento della massima influenza del potere imperiale sulla vita ecclesiastica e nessun regime più del suo meritò il titolo di cesaro-papismo. Il suo lungo regno (527-565) fu il periodo in cui lo scisma tra l’Oriente monofisita e l’Occidente calcedonita divenne irreversibile. Fine supremo della sua politica religiosa fu il ristabilimento dell’unità della fede nell’ortodossia ed egli cercò sempre, con tutti i mezzi disponibili, di imporre il Credo di Calcedonia, cercando però di togliere tutto ciò che poteva farlo accusare di nestorianesimo.

Verso i monofisiti Giustiniano cercò sempre, soprattutto per il tramite della moglie Teodora, fervente monofisita, di mantenere i contatti. A essi, infatti, non applicò mai le sue leggi contro gli eretici, ma cercò, con una politica di compromessi e concessioni, di ricondurli all’ortodossia: in tal modo si trovò però implicato in difficoltà inestricabili, che finirono col renderlo sospetto a tutti i partiti.

L’imperatore volle iniziare la sua grande opera di riunificazione religiosa dell’impero cercando di riportare in seno all’ortodossia almeno i più moderati del partito monofisita, i seguaci di Severo d’Antiochia. Il 15 luglio 532 una commissione mista, nota come Collatio cum Severianis e composta da sei vescovi ortodossi, sei vescovi severiani, tre preti di Costantinopoli, numerosi chierici e laici, si riunì a Costantinopoli, nel palazzo di Hormisdas. Severo d’Antiochia, benché personalmente invitato dall’imperatore, accampando un’età avanzata non partecipò alle riunioni, che così si conclusero tre giorni dopo senza nulla di fatto. Per nulla scoraggiato, Giustiniano preparò un secondo congresso, più grandioso del primo, per il 535. questa volta Severo accettò l’invito di Giustiniano a partecipare al sinodo coi calcedoniti. Forte dell’appoggio di Teodora, approfittò del suo soggiorno nella capitale per propagandare la propria eresia, riuscendo a convertire alle proprie idee persino il patriarca Anthimo I (535-536). Ciò urtava tuttavia contro la politica ufficiale pro-calcedonita di Giustiniano, i cui interessi politici non potevano certo trarre vantaggio da un’eventuale inimicizia con Roma: un sinodo dichiarò deposto Anthimo e al suo posto salì il calcedonita Menas (536-552). La dottrina di Severo e dei suoi compagni fu condannata solennemente; tutti i membri della numerosa comunità severiana di Costantinopoli vennero scomunicati e poco più tardi, il 6 agosto dello stesso anno, espulsi dalla città per decreto imperiale, col divieto di risiedere in qualsiasi altra grande città. Severo se ne tornò in Egitto, stabilendosi dapprima a Scete, quindi nella Tebaide e infine a Xois, nel Delta, ove morì l’8 febbraio 538.

Dopo la condanna inflitta a Severo nel 536, Giustiniano ritenne che ormai l’appoggio garantito al patriarca di Alessandria Teodosio I (535-567) non avesse più ragione d’essere se non nel caso di un’abiura del credo monofisita da parte del patriarca. Credendo di potergli perciò estorcere facilmente almeno una formale adesione a Calcedonia, Giustiniano convocò a Costantinopoli (novembre-dicembre 536) il patriarca alessandrino. Per ben sei volte, durante quasi tutto il corso del 537, l’imperatore cercò di ottenere da lui l’accettazione delle decisioni di Calcedonia: all’ennesimo rifiuto, Teodosio venne anatemizzato come eretico, deposto come indegno ed esiliato. Internato dapprima nella fortezza di Derkos, sul Bosforo, nella Tracia, la protezione dell’imperatrice Teodora non tardò a farlo rientrare a Costantinopoli (539), dando inizio a un ovattato ma lungo esilio, durato fino alla morte e che farà di lui una delle figure leggendarie del monofisismo egiziano.

La politica persecutoria applicata pochi anni prima da Giustino alla Chiesa di Siria venne applicata ora da Giustiniano anche alla Chiesa d’Egitto, anche se in Egitto le persecuzioni non raggiunsero mai gli eccessi raggiunti precedentemente in Siria. Per restaurare la fede cattolica in tutto l’impero non si trovò di meglio che abbattere, esiliandoli, i principali esponenti delle dottrine avverse e di sostituirli con vescovi ortodossi, fedeli alla causa calcedonita. Per la prima volta dal regno di Marciano i tre patriarcati d’Oriente erano riuniti sotto la guida del pontefice romano. Questa politica religiosa, detta dagli storici terrore cattolico, continuò fino alla morte dell’imperatore (565). A partire dal 541 i monofisiti vennero inseriti nella lista degli eretici e tutte le sanzioni e le restrizioni giuridiche che già erano state formulate, o che lo saranno, contro gli eretici furono, da quel momento, estese anche ad essi.

Nel 544 rimanevano solo tre vescovi monofisiti. In quell’occasione, su pressione dell’imperatrice Teodora e del principe arabo ghassanide al-Harith ibn Jabalah (noto col nome greco di Arethas; 528-569), il patriarca alessandrino Teodosio, in esilio forzato a Costantinopoli, nominò segretamente vescovo di Edessa e metropolita ecumenico un energico monaco siriano originario del villaggio di Ghamawa, a Nord di Tella, Giacomo Baradeo (500 circa - 578) che dal 527 risiedeva a Costantinopoli, ove era arrivato con un altro monaco, suo amico, Sergio, che più tardi egli stesso consacrerà patriarca di Antiochia. Pur non potendo risiedere nella propria sede, in quanto bandito dalla politica pro-calcedoniana di Giustiniano, la sua dignità gli conferiva la giurisdizione suprema sull’Asia Minore e sulla Siria. Forte di questa sua posizione, il Baradeo si dedicò alla riorganizzazione delle comunità monofisite in tutto il Vicino Oriente, con tale slancio da essere considerato il salvatore del monofisismo. Dal suo nome, infatti, la chiesa monofisita, soprattutto quella di Siria, è spesso chiamata, a partire dal IX secolo, anche giacobita. Alla sua morte, nel 578, aveva consacrato migliaia di sacerdoti e decine di vescovi, incoraggiato i fedeli e ravvivato dappertutto le energie, permettendo così alla Chiesa monofisita di non soccombere alla persecuzione scatenata da Giustiniano.

Intorno al 543-544 Giustiniano, nei suoi continui tentativi di stabilire l’ortodossia e l’armonia in tutto l’impero, cercò nuovamente di conciliarsi i monofisiti, o almeno alcune fazioni di essi, condannando con un editto, per sospetto nestorianesimo, i cosiddetti Tre Capitoli, ossia gli scritti dei tre maggiori rappresentanti della fazione calcedonita, tutti esponenti della scuola teologica di Antiochia, Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cyrrho e Ibas di Edessa.

Papa Vigilio (29 marzo 537 - 7 giugno 555) tenne inizialmente un comportamento ambiguo: pur propendendo per il punto di vista di Giustiniano, temeva di causare uno scisma tra i vescovi occidentali qualora avesse pubblicamente condannato i Tre Capitoli. Alla fine, tuttavia, si decise e l’11 aprile 548 inviò una lettera (nota come Judicatum) al patriarca Menas di Costantinopoli, nella quale si associava alla condanna dei Tre Capitoli. La reazione in Occidente fu violenta e nel 550 papa Vigilio si vide costretto a ritrattare. L’anno successivo, tuttavia, Giustiniano condannò nuovamente i Tre Capitoli, pubblicando una “professione di fede” (Omologia fidei), fatta affiggere sotto forma di editto alla porta delle chiese e diffusa per tutto l’impero, e più tardi trasformata in un vero e proprio editto. Questa volta l’opposizione di Vigilio, abilmente sostenuto da Pelagio, suo apocrisario a Bisanzio e futuro pontefice, fu tenace.

Visti inutili i tentativi di prevalere sul pontefice, alla fine l’imperatore convocò un concilio a Costantinopoli (Costantinopolitano II, Quinto Concilio Ecumenico), da tenersi nel 553. Il papa si rifiutò nuovamente di condannare Teodoro, Teodoreto e Ibas; tuttavia Giustiniano si rifiutò di accettare il documento papale e, sotto sua pressione, anche i padri conciliari non ne tennero conto: i Tre Capitoli vennero condannati. Il papa stesso venne umiliato: la settima sessione del Concilio, tenuta il 26 maggio, decise di togliere il suo nome dai dittici, anche se non si osò scomunicarlo.

L’8 dicembre 553 papa Vigilio, personalmente convinto che la condanna dei Tre Capitoli non intaccava la fede di Calcedonia e avrebbe offerto ai monofisiti il motivo di rientrare nell’ortodossia, accettò le decisioni del concilio, che condannava i Tre Capitoli. Questa condanna venne accettata, pur con riluttanza, dalle Chiese del Nord Africa, ma provocò uno scisma con le Chiese di Milano e di Aquileia.

Ancora una volta, tuttavia, i risultati furono contrari alle aspettative. Benché la condanna dei Tre Capitoli fosse stata un’importante concessione ai monofisiti, l’accettazione esplicita da parte del concilio della dottrina dei precedenti quattro concili, e quindi anche di Calcedonia, rese vani i suoi effetti. Oltre a non sanare lo scisma monofisita, le decisioni del concilio contribuirono ad avvelenare i rapporti tra Costantinopoli e la Chiesa occidentale. Ancora una volta un’iniziativa volta a unire le Chiese si era trasformata in una causa di divisione, preparando la via all’ormai inevitabile triplice divisione della cristianità in occidentale e papale, bizantina e ortodossa, monofisita copta e siriana.

Il successore del grande Giustiniano fu il nipote Giustino II (565-578). Come lo zio e nonostante gli smacchi da questo subiti, egli ebbe il vivo desiderio di unificare la Chiesa: si sforzò comunque, almeno all’inizio, di non usare le maniere forti, ma quelle della persuasione. Uno dei suoi primi atti di politica religiosa fu quello di cercare la riconciliazione coi monofisiti. Nel 567, o 568, emise uno sbalorditivo editto imperiale, anch’esso chiamato Enotico, come quello di Zenone, del quale riprendeva la politica religiosa: veniva riconosciuta un’unica fede, quella di Nicea; Calcedonia veniva passata sotto silenzio, come se nulla fosse accaduto; si riconoscevano sì “due nature” in Cristo, ma senza specificare “dopo l’unione” (in tal modo, senza voler andare troppo per il sottile, anche i monofisiti avrebbero potuto sottoscrivere l’editto); infine, si condannavano nuovamente i Tre Capitoli. Non ancora soddisfatto, Giustino dichiarava di ricevere in comunione Severo d’Antiochia, il maggior rappresentante del monofisismo. Tutti gli eretici monofisiti condannati erano amnistiati e riabilitati, tutti gli anatematismi lanciati dal tempo di Cirillo erano aboliti. Eppure questa capitolazione completa si rivelò inutile: un semplice accordo teologico non era sufficiente a soddisfare i monofisiti: anche Calcedonia doveva essere formalmente condannata, e questo l’imperatore non poteva concederlo.

Nel 571 Giustino preparò un secondo Enotico. Questa volta la questione delle due nature veniva definita senza ambiguità e non si offriva più la riabilitazione di Severo; il concilio di Calcedonia non veniva ricordato, ma implicitamente riconosciuto. Venne dato ordine a tutti i vescovi di sottoscrivere l’editto, ma dinanzi al rifiuto della maggior parte dei vescovi monofisiti di sottomettersi al volere imperiale, Giustino si vide costretto a ricorrere alla forza.


Eraclio; il monergismo e il monotelismo. La conquista araba

Il 22 novembre 602, Foca, un semplice e rozzo centurione che era riuscito a impossessarsi del trono mandando a morte l’imperatore Maurizio, veniva incoronato imperatore. La sua politica ecclesiastica ortodossa lo rese presto impopolare e odiato non solo in Bisanzio, ma in tutto l’impero, dove scatenò cruente persecuzioni dei monofisiti e degli Ebrei. Nel 610, tuttavia, Foca venne deposto da Eraclio (610-641).

I primi decenni del VII secolo furono un periodo storicamente importante per l’Oriente. L’impero persiano cercava di occupare larghe zone dell’impero bizantino: Siria (604-613), Palestina (614) ed Egitto (619) caddero preda dei Persiani. Con una reazione inaspettata, Eraclio seppe condurre una guerra di liberazione, terminata nel 629 con la sconfitta definitiva dei Persiani.

Portata a buon fine la lunga guerra con la Persia e data all’impero una nuova unità politica, Eraclio, che si era erto a campione del Cristianesimo, si prefisse di raggiungere anche l’unità di fede tra i popoli a lui soggetti, ponendo fine alle dispute religiose che avevano travagliato l’impero dai tempi di Calcedonia. Tuttavia, per attuare questa politica ecclesiastica di riunificazione, che si rivelerà disastrosa, ancora una volta si cercò, nonostante gli insuccessi precedenti, una formula di compromesso tra monofisiti e calcedoniti, lasciandosi sedurre dall’idea che con un editto si potessero cancellare gli scismi e gli odi che questi portano inevitabilmente con sé.

Il patriarca Sergio di Costantinopoli (610-638) vide nella dottrina del monenergismo, secondo la quale alle due nature di Cristo corrisponderebbe un’unica facoltà operativa agente (enérgheia, “operazione”), il ponte tra il dogma di Calcedonia e il monofisismo. Il patriarca conquistò alla dottrima monenergetica anche l’imperatore Eraclio. Nel giugno 631, Eraclio nominò Ciro patriarca di Alessandria, conferendogli anche il potere politico e militare sull’Egitto, con l’incarico esplicito di guadagnare i monofisiti alla Chiesa, mediante la dottrina del monenergismo. Nonostante i nobili intenti, questa nomina si rivelò uno degli errori più tragici nella politica egiziana dell’imperatore. La condotta tirannica e persecutoria di Ciro nei confronti dei Copti alienò ancor di più l’animo copto dai Bizantini, rendendo ancor più agevole la successiva conquista araba. Forte dei poteri civili che l’imperatore gli aveva concesso, Ciro si sforzò di imporre, sia ai melchiti che ai monofisiti, l’ingegnosa formula monenergetica. Di fronte alla crescente opposizione, Sergio modificò le proprie posizioni e proclamò che non si doveva parlare né di una né di due operazioni in Cristo, ma che occorreva professare un solo operante nelle azioni divine e umane, riconoscendo quindi in Cristo una sola volontà (thélema); si passa così dal monenergi­smo al monotelismo propriamente detto: in Cristo vi è una sola volontà, consistente nella conformità del volere umano col divino: poiché in Cristo vi è un’unica persona, non vi può essere in Lui alcun dualismo o antagonismo nel volere. Tale dottrina trovò la sua espressione scritta in un documento dottrinale preparato dal patriarca di Costantinopoli Sergio e sottoscritto dall’imperatore; esso, noto come Ekthesis “esposizione”, divenne la formulazione ufficiale del monotelismo. Nei patriarcati orientali l’accoglienza fatta all’editto fu all’inizio generalmente favorevole, ma ben presto le ambiguità di alcune sue affermazioni e i “silenzi” su questioni fondamentali fecero nascere una forte opposizione sia tra gli ortodossi (in particolare Sofronio di Gerusalemme e Massimo il Confessore) che tra i monofisiti, e anche i papi a Roma lo rifiutarono decisamente. Come tutti i tentativi di compromesso dei secoli precedenti, anche il monotelismo non solo non riuscì a ristabilire l’unità ma provocò nuove diatribe e aumentò la confusione. In Siria e in Egitto, dove venne imposto con metodi di guerra di religione, esso riuscì solo a produrre uno stato di generale insoddisfazione, che aprì la via alle armate islamiche.

La Chiesa, nonostante tutte le spiegazioni date alla formula della “una volontà” non poteva non condannare l’Ekthesis. La lotta ecclesiastica così innescata ebbe termine solo nel 681, nel sesto concilio Ecumenico di Costantinopoli (Costantinopoli III), che anatemizzò l’eresia del monotelismo: venne riconosciuto che a due nature complete corrispondono due volontà e due modi propri di operare, anche se non necessariamente in contrasto con loro.

Con il monotelismo si estingueva l’ultima delle grandi eresie cristologiche. Ma l’Oriente ecclesiastico era ormai diviso, e anche politicamente.

Dal 633 al 641, infatti, Siria, Palestina ed Egitto caddero preda degli Arabi. Nel dicembre 639 il generale arabo Amr ibn-al-As al-Shami invase l’Egitto. Dopo un lungo assedio, la fortezza di Babilonia, sul sito del Cairo Vecchio, cadde e ai Bizantini non restò che concludere un tratto di resa coi vincitori: davanti all’impegno dei Musulmani di rispettare le chiese e di garantire ai Cristiani il libero esercizio della loro fede, dietro pagamento annuo di un tributo pro-capite (jizya) e di un’imposta fondiaria (kharaj), essi si impegnarono a lasciare Alessandria, e l’Egitto, entro il settembre 642.


4. La dominazione araba

Benché Calcedonia avesse significato per la Chiesa Copta un lento ma inesorabile isolamento, tuttavia l’appartenenza dell’Egitto all’Impero Romano l’aveva sempre mantenuta in contatto con le vicende internazionali, delle quali fu sovente parte attiva e promotrice. La conquista araba non segnò soltanto un cambio della guardia, un conquistatore che succedeva a un altro conquistatore (evento non nuovo negli ultimi mille anni di storia dell’Egitto), ma una vera e propria cesura dal contesto internazionale. Fino a tempi relativamente recenti, infatti, la Chiesa Copta è vissuta ripiegata su sé stessa, quasi completamente ignorata dalle altre Cristianità, con l’unica preoccupazione della propria sopravvivenza. Infatti, neppure due secoli dopo la conquista araba i Copti erano ormai ridotti a una minoranza e quando Napoleone venne a risvegliare l’Egitto dal suo millenario torpore (1798), poco più di centomila Copti si erano ancora mantenuti fedeli alla fede dei loro padri.

Lo statuto dell’Ahl al-Dhimma (o semplicemente statuto della Dhimma), applicato dagli Arabi ai Cristiani e agli Ebrei abitanti nelle terre da loro conquistate e che faceva di questi dei subordinati ai Musulmani, benché eufemisticamente “protetti”, era conseguenza diretta della logica inegualitaria dell’Islam e si fondava su due parole cardine: separazione e umiliazione. La separazione per preservare i “veri credenti” dalla contaminazione dell’errore; l’umiliazione per incitare gli “infedeli” alla conversione. Come per tutti gli altri Cristiani d’Oriente, anche per i Copti la sorte sotto i dominatori Arabi non è stata che un’alternanza tra violenza, più o meno blanda, e morte lenta, un lungo processo di asfissia, di agonia e di devalorizzazione costante. Privati dei diritti politici, limitati nella capacità giuridica, impastoiati in una rete di interdetti religiosi e professionali, costretti, fino al livello del vestiario, a subire prescrizioni umilianti, i Copti hanno visto i loro ranghi assottigliarsi sempre più e la loro comunità correre il rischio di estinguersi per consunzione. Lo statuto della Dhimma fu infatti uno dei principali fattori del successo della politica d’islamizzazione dei territori conquistati e dell’estinzione progressiva dei popoli e delle culture indigene.

I califfi Omayyadi (660-750) eseguirono un riordinamento amministrativo dell’Egitto; mantennero tuttavia ancora la provata burocrazia bizantina e l’amministrazione di grado inferiore fu lasciata in mano ai Copti che, grazie al loro maggior livello culturale rispetto ai Musulmani, seppero imporsi in posti importanti, in particolare nel dominio delle finanze.

Le persecuzioni non tardarono tuttavia a scatenarsi. Già durante il breve patriarcato di Isacco (686-689), il governatore Abd al-Aziz ibn Marwan (685-705) aveva ordinato di distruggere tutte le croci, anche quelle d’oro e d’argento. In questo periodo, inoltre, gli Arabi, preoccupati del significato degli uffici religiosi cristiani, si fecero tradurre in arabo i Vangeli e i Salmi, a scopo di “censura”, per controllare che questi testi non contenessero ingiurie contro l’Islam. Molti Copti videro nella conversione all’Islam, e nel conseguente sgravio fiscale, il mezzo più sicuro e comodo per risolvere i loro problemi.

L’oppressione e la brutalità dei funzionari fiscali, preoccupati esclusivamente di non vedere diminuire le proprie entrate, crearono una continua tensione tra il potere musulmano e gli amministrati cristiani. Esasperati da questa politica, i Copti non tardarono a ribellarsi e dal 725 al 773 scoppiarono ben sei insurrezioni, soprattutto nel Basso Egitto, represse senza pietà. In questi anni si notano anche le avvisaglie di un importante mutamento nella politica araba verso i Copti: con lo svilupparsi degli studi religiosi musulmani, l’usuale oppressione economica si tinge anche di una sempre più marcata antipatia religiosa, per la quale i Cristiani, anche se arabi, si troveranno più strettamente rinchiusi in un’inferiorità di principio, di natura religiosa.

Ma la situazione diventava sempre più insostenibile; improvvisa, l’insurrezione scoppiò nella turbulenta provincia di Bashmur, nel Basso Egitto, estendosi ben presto all’intero Delta: i contadini bashmuriti si sollevarono in massa, nella più formidabile, e ultima, rivolta che si fosse mai prodotta in Egitto dopo l’occupazione musulmana (831-832). Solo con l’invio di un poderoso esercito di trentamila uomini e col proprio intervento personale in Egitto, il califfo Abd Allah al-Mamun (813-833) riuscì a riportare l’ordine; l’insurrezione venne domata nel sangue. Sull’onda di queste ribellioni, la politica ufficiale divenne sempre più apertamente anti-cristiana; umiliati e sottomessi, molti Copti persero fiducia nella propria religione e nei propri valori e diventarono Musulmani, che da questo momento cominciarono a essere numericamente la maggioranza; si assistette anche al passaggio di intere comunità copte all’Islam: per la prima volta l’Egitto diventa una provincia essenzialmente musulmana.

Ma l’era delle persecuzioni non era terminata: sotto i patriarchi Michele II (847-851) e Cosma II (851-858) l’oppressione non fu soltanto finanziaria, ma interessò tutti gli aspetti della vita sociale e religiosa. Fu dato ordine di spezzare tutte le croci e si proibì di suonare le campane delle chiese e di pregare a voce alta. Fu proibito il commercio del vino, così da privare i sacerdoti dell’uso del vino sacramentale; si interruppe la costruzione di nuove chiese e di nuovi monasteri e si interdì di riparare quelli caduti in rovina. Si cercò anche di umiliare socialmente i Cristiani: fu loro proibito di montare cammelli, cavalli e muli, potendo utilizzare solo asini. Gli uomini furono costretti a comparire in pubblico con un turbante giallo e una speciale cintura (zunnar) caratteristica dell’abbigliamento femminile, mentre le donne con un mantello giallo e senza cintura, così da distinguerli dai Musulmani; nei bagni pubblici, inoltre, i Dhimmi dovevano portare al collo delle campanelle. Infine, il califfo diede ordine di licenziare tutti i Copti impiegati nell’amministrazione statale e di sostituirli con Musulmani o con apostati. Molti Copti, per non perdere prestigio sociale e per salvarsi dalla povertà, apostatarono.

Sotto i Fatimidi (969-1171), sciiti, i Cristiani godettero inizialmente di una certa tranquillità. Ma questo atteggiamento filo-cristiano del governo era mal visto dai Musulmani, che si sentivano soprattutto offesi dal vedere le più alte cariche governative in mano agli “infedeli” Ebrei e Cristiani. La repressione degli ambienti musulmani scattò imprevista e crudele quando divenne califfo al-Hakim bi-Amr Allah (996-1021), una delle figure più tragiche della storia araba dell’Egitto, il cui regno si trasformò in un periodo di terrore per tutto il Paese e che per i Copti in particolare fu il più terribile dopo quello di Diocleziano. Nel 1009, con un gesto inconsulto e gratuito dalle gravissime future conseguenze (esso divenne infatti uno degli elementi della propaganda in favore della prima Crociata), al-Hakim fece distruggere il massimo santuario della Cristianità, la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme.

Durante il patriarcato di Michele IV (1092-1102) si verificò un importantissimo evento internazionale, gravido di conseguenze per l’Egitto e per i Copti nei successivi due secoli: l’inizio del movimento crociato in Europa. Solennemente bandita da papa Urbano II (1088-1099) il 27 novembre 1095, al termine del concilio di Clermont, la prima crociata, destinata a liberare la Terra Santa dall’occupazione degli Arabi miscredenti, era stata coronata dal successo e il 15 luglio 1099 Gerusalemme e i luoghi più cari al Cristianesimo erano in mano crociata. Quasi subito dopo la conquista, i crociati, poiché consideravano eretici i Cristiani orientali, Copti inclusi, non solo confiscarono tutti i loro beni, ma anche impedirono loro i pellegrinaggi ai Luoghi Santi.

Sotto gli Ayyubidi (1171-1250), la dinastia fondata dal Saladino, ricominciarono persistenti ondate di persecuzione, la cui conseguenza fu l’accelerazione del processo di islamizzazione. Processo che si aggravò nei poco meno di tre secoli delle dinastie mamelucche (1250-1382; 1382-1517). Per i Copti, il periodo mamelucco fu incontestabilmente un periodo segnato da molte prove, a volte apertamente persecutorie. Stranieri d’origine, convertiti di fresca data, i mamelucchi non avevano che la religione per farsi accettare dai loro sudditi musulmani; armati dello zelo dei neofiti, essi favorirono pertanto il rifiorire di un Islam integrista e, in linea generale, si mostrarono intolleranti verso i Cristiani. Corruzione e intrighi regnavano sovrani alla loro corte, e le pesanti tasse richieste per sostenere la loro intensa attività militare ebbero effetti disastrosi sull’economia del Paese. Parte più debole della popolazione, i Copti dovettero pagare il prezzo più alto di questa situazione. Presentando all’opinione pubblica i funzionari copti come i responsabili della corruzione, i mamelucchi si resero responsabili di un sempre crescente e diffuso sentimento anti-cristiano, che non mancherà di manifestarsi in vere e proprie campagne persecutorie, che ridurranno drasticamente la consistenza numerica della comunità: a partire dal XIV secolo i Cristiani saranno in Egitto soltanto un decimo della popolazione totale.

Questi duri anni videro tuttavia un avvenimento di grande importanza: l’inizio dei tentativi della Chiesa di Roma di riportare la Chiesa Copta in seno all’obbedienza papale. Desiderando giungere all’unione con le Chiese d’Oriente, nell’estate 1439 papa Eugenio IV (1431-1447) e i Padri Conciliari, riuniti in concilio a Firenze, decisero, dopo l’emissione del decreto d’unione dei Greci (6 luglio 1439; seguito, il 22 novembre, da quello degli Armeni di Cilicia), di inviare il francescano Alberto Berdini da Sarteano (1385-1450) come legato pontificio in “India”, Terra Santa, Egitto ed Etiopia, per guadagnare alla stessa causa anche gli altri Orientali. La missione ebbe successo e una delegazione di monaci copti ed etiopi raggiunse nel 1441 Firenze. Seguirono deliberazioni congiunte e al termine dei lavori il 4 febbraio 1442 venne solennemente promulgata nella Chiesa di Santa Maria Novella la bolla di unione Cantate Domino. Ma poiché i Romani la interpretavano come una vera sottomissione dei Copti alla Chiesa di Roma, mentre per i Copti questa era solo una riunione di partner uguali, essa restò lettera morta. Del Concilio di Firenze non resta alcuna traccia nella tradizione copta antica.

5. L’Egitto ottomano e la conquista francese

Nel 1517 l’Egitto venne conquistato dal sultano ottomano Selim ibn Bayazid (Selim I Yavuz, “il terribile”; 1512 - 1520). Da allora, Il Cairo non fu più la capitale di un impero, ma una delle tante, seppur la più grande, metropoli del nuovo impero ottomano, il cui governo si esercitava dalla lontana sede di Costantinopoli. E così, secondo le parole di un grande studioso copto, l’Egitto “sprofondò nell’oscurità di una delle più nere età di tutta la sua storia, mentre l’alba della Storia Moderna irrompeva sull’Europa con il Rinascimento1.

Nei circa tre secoli che vanno dalla conquista ottomana alla spedizione napoleonica, l’Egitto vide due popoli stranieri calpestare il proprio territorio, nuovi conquistatori che si succedevano a vecchi conquistatori, accolti con apparente apatia da un popolo ormai privato da duemila anni della propria indipendenza. I Turchi Ottomani occuparono l’Egitto per quasi tutto il periodo considerato, mentre i Francesi, giunti solo nel 1798 ed estromessi già nel 1801, lo tennero per un brevissimo periodo, quasi un battito di ciglia nella plurimillenaria storia della Valle del Nilo. Eppure l’azione e l’influenza di questi due popoli sui destini del Paese furono inversamente proporzionali alla durata dell’occupazione. Nei quasi tre secoli del dominio turco, l’Egitto rimase un Paese chiuso, addormentato, quasi dimenticato dal resto del mondo, incapace di uscire da un letargo che sembrava non avesse mai fine, minato da un lento e apparentemente inarrestabile declino della vita culturale ed economica. Bastarono i pochi anni della presenza francese per dare alla coscienza nazionale un sussulto, o meglio un energico scossone, che è all’origine dell’Egitto moderno, e per risvegliare il Paese dalla lunga ibernazione nella quale la dominazione ottomana lo aveva gettato.

Per tutto il XVI, il XVII e buona parte del XVIII secolo la storia dell’Egitto è avara di notizie e anche per la Chiesa Copta le cose non andavano altrimenti: salvo che per brevi periodi, ben poco più si conosce di una mera successione di nomi di patriarchi. In questo periodo continuarono tuttavia i tentativi della Santa Sede di ristabilire l’unione con la Chiesa Copta; vista tuttavia l’infruttuosità dei tentativi di dialogo, papa Benedetto XIV (1740-1758) abbandonò l’idea di riunire la Chiesa Copta con Roma e intraprese i primi passi per giungere all’istituzione di una Chiesa Copta Cattolica.

L’arrivo dei Francesi di Napoleone nel luglio 1798 segnò l’inizio della fine per la casta militare dei mamelucchi e l’inizio di un lento e non ancora concluso processo di rinascita dell’Egitto, con la sua apertura verso il mondo occidentale, i suoi valori ma anche i suoi disvalori.

Per quanto riguarda i Copti, benché questi fossero rimasti inizialmente delusi dal trattamento riservato loro dai “fratelli Cristiani”, il fatto che l’amministrazione finanziaria dell’Egitto fosse interamente nelle loro mani contribuì a risollevare la loro situazione sociale. La spedizione francese contribuì a risvegliare presso gli Egiziani la presa di coscienza della loro nazionalità e promosse il cambiamento, anche se solo embrionale, dello statuto dei Cristiani in Egitto. Prima umiliati e sottomessi, i Cristiani cominciarono allora a vivere con maggior libertà e sicurezza, prendendo gradualmente coscienza del loro ruolo e concorso nella storia del proprio Paese. Un processo difficoltoso, irto di ostacoli, lungo e ancor oggi lontano dal compimento, destinato a fare dei Copti degli Egiziani a pieno titolo, ebbe il suo inizio proprio in quegli anni.

L’attenzione dei papi verso le Chiese orientali mostra un mutamento progressivo di ottica, che si concretizza, al termine di un lungo cammino di avvicinamento, nella Lettera Apostolica Orientalium Dignitas (30 novembre 1894) di Leone XIII (1878-1903); in essa, per la prima volta, si riconosce piena dignità alle Chiese cattoliche di rito orientale (melchiti, ruteni e ucraini; cattolici copti, armeno cattolici, siro-malabaresi, ecc.), garantendo il rispetto delle loro tradizioni liturgiche e il trattamento di parità con il rito latino storicamente considerato praestantior, cioè di prima classe rispetto agli altri riti, più adatto a mostrare la pienezza della retta dottrina. Il passaggio dalle Chiese cattoliche alla totalità delle Chiese è stato breve e oggi la Chiesa di Roma riconosce la pari dignità fra tutti i riti, che nella loro varietà sono un segno di unità e non di divisione.

Gia il concilio Vaticano II nel Decreto Orientalium Ecclesiarum sulle Chiese Cristiane Orientali Cattoliche del 21 novembre 1964 ha voluto esprimere la stima della Chiesa universale verso le Chiese orientali cattoliche per il sacro loro patrimonio, apprezzamento che nel corso degli anni si è consolidato e che si estende a tutte le Chiese in generale.

Celebrando il centenario della Lettera Apostolica di Leone XIII, Papa Giovanni Paolo II con la sua Lettera apostolica Orientale Lumen del 2 maggio 1995 intende rispondere ad alcuni interrogativi ed aprire nuove prospettive. Il pontefice afferma come il cammino della Chiesa, sotto la guida dello Spirito, ci ha condotto a riconoscere che le differenze tra il cristianesimo d’Oriente e d’Occidente derivano dal fatto che “il cristiano orientale ha un proprio modo di sentire e di comprendere, e quindi anche un modo originale di vivere il suo rapporto col Salvatore”. Ai cattolici latini il Papa rivolge l’invito a “conoscere in pienezza questo tesoro” del cristianesimo orientale. Tale approccio, dice il Papa, non va visto solo come la necessità di risolvere alcuni problemi dogmatici, ma come un’autentica esperienza di fede; il tesoro delle Chiese orientali possiede infatti elementi di grande significato per una più piena ed integrale comprensione dell’esperienza cristiana e, quindi, per dare una più completa risposta cristiana alle attese degli uomini e delle donne di oggi. Rispetto a qualsiasi altra cultura, l’Oriente cristiano ha infatti un ruolo unico e privilegiato, in quanto contesto originario della Chiesa nascente. Di fronte alle domande dell’uomo contemporaneo, “le parole dell’Occidente hanno bisogno delle parole dell’Oriente perché la parola di Dio manifesti sempre meglio le sue insondabili ricchezze”. È caro al magistero di Giovanni Paolo II ribadire che le parole dell’Occidente, cioè della teologia, della cultura, della spiritualità occidentale, non possono più rispondere da sole alle attese dell’uomo di oggi: bisogna ricomporre le due anime, i due polmoni della Chiesa, anzitutto perché presentarsi divisi è già un grave peccato. Cristo, infinito, non è diviso e non può essere diviso. Solo un pieno, concorde abbraccio tra Oriente e Occidente potrà mostrare al mondo il fascino di Cristo, Signore dell’universo e speranza dell’umanità.


1 A.S. Atiya, The Crusade in the Later Middle Ages, 2nd edition, New York 1965, p. 25.



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