di Nicoletta Tiliacos
Quando Carla Bruni, futura signora
Sarkozy, lasciò l’attempato editore
Jean-Paul Enthoven, per fidanzarsi
con il figlio di lui, Raphaël, a
nessuno è venuta in mente l’analogia
con un precedente mitico e, a dire il
vero, tragicissimo. Quello di Fedra, la
moglie di Teseo invaghita del figliastro
Ippolito (in questo caso per nulla
ricambiata), che dall’antichità greca
e romana ci è stato consegnato come
paradigma maledetto dell’incesto.
Il fatto è che a occhi moderni,
scrive il filologo classico Maurizio
Bettini nel suo “Affari di famiglia. La
parentela nella letteratura e nella
cultura antica” (da poco pubblicato
dal Mulino, 381 pagine, 28 euro) la
storia di Fedra non sembra così significativa
dell’orrore dell’incesto,
come le fonti antiche pretenderebbero.
C’è senza dubbio di peggio, in tema,
dell’amore tra persone che non
sono nemmeno consanguinee: “Il paradosso
della colpa di Fedra sta proprio
qui: tutti considerano incestuoso
il suo amore – eppure, almeno a rigore,
non sembra questo il caso”. Fedra,
infatti, “avrebbe potuto dire a Ippolito:
‘Ma insomma, chi sono io per
te? E chi sei tu per me? Non sono mica
tua madre’. Invece non lo fa”. Preferisce,
per esempio nella versione
che della vicenda dà Ovidio nelle
“Eroidi”, dire che se “una matrigna
farà all’amore con un figliastro”, a essere
ferita sarà tutt’al più una “pietas
del passato, che si usava quando Saturno
ancora governava i suoi rustici
regni, e che il futuro distruggerà”. I
tempi cambiano, dice la Fedra di
Ovidio, e quello che oggi può sembrare
proibito presto non lo sarà più.
Aveva qualche profetica – per quanto
discutibile – ragione, vista la faccenda
col senno di poi. Ma l’anatema culturale
e letterario che la riguarda è
rimasto ben saldo nei millenni.
Del “paradosso di Fedra” (la cui
spiegazione, da Bettini, è fatta risalire
al timore della mescolanza dei due
semi, paterno e filiale, nel ventre e
nel talamo della stessa donna, e all’inammissibile
confusione dei ruoli parentali
e nello status della progenie
che ne deriverebbe) si occupa uno dei
tredici saggi di “Affari di famiglia”
(un titolo più che pop per un contenuto
serio ma non serioso, presentato in
modo tutt’altro che accademico). Saggi
che raccontano, a partire dalle fonti
letterarie e dalla storia delle parole
e delle definizioni dei legami familiari,
come le peculiari modalità di
costruzione della parentela, in occidente,
abbiano “fatto” l’occidente e
costruito l’umanità occidentale. Perché,
scrive Bettini, “il modo in cui si
stabiliscono filiazione e matrimonio,
parentela paterna e parentela materna,
quello in cui si acquisiscono gli affini,
e soprattutto il modo in cui ci si
comporta, ci si ‘atteggia’, nei confronti
dei numerosi membri di un gruppo
di parentela, costituisce infatti una
immediata manifestazione di ‘umanità’:
si diventa uomini e donne proprio
attraverso il modo in cui si entra
in società, e il modo principale per
farlo, il primo, è proprio costituito
dall’esplorazione delle forme di parentela.
Abbiamo detto che attraverso
questo passaggio si diventa uomini
e donne: non basta – aggiunge Bettini
– dovremo specificare anche che si diventa
uomini o donne fatti in un certo
modo, il modo sancito dal tipo di
parentela che una certa società si è
data”. Per esempio, “in tutte le popolazioni
e in tutti i gruppi umani esistono
verisimilmente dei ‘cognati’. Questo
tipo di relazione fa certo parte di
uno zoccolo universalista che contraddistingue
l’‘umanità’ qui e là, nella
foresta amazzonica o sui sette colli:
ma certo non è la stessa cosa essere
un ‘cognato’ nella Roma antica o fra i
Bororo”. Queste modalità diverse arrivano
fino a noi, come “precipitato
delle innumerevoli vite che si sono
succedute sommandosi, incrociandosi,
separandosi, all’interno di un determinato
gruppo umano”.
C’è quindi poco da meravigliarsi se,
come scrive Françoise Héritier – l’antropologa
allieva di Claude Lévi-
Strauss che ne ha ereditato la cattedra
al Collège de France – non esiste
“altro campo dell’antropologia che abbia
suscitato discussioni tanto vivaci,
continue, tecniche e bizantine (e quindi
apparentemente riservate soltanto
agli iniziati) come quelle che oppongono
i sostenitori della teoria di filiazione
a quelli della teoria dell’alleanza
o di quelle che si sono scatenate,
per esempio, intorno al problema dell’esistenza
(o no) di società durature
che pratichino in modo normativo il
matrimonio con la cugina incrociata
patrilaterale (ovvero la figlia della sorella
del padre di un uomo)” (“Maschile
e femminile. Il pensiero della differenza”,
Laterza).
La Héritier segnala in questo brano
il “luogo del delitto” per eccellenza,
nell’intricato mistero delle relazioni
matrimoniali: il “divieto della cugina”.
Di questo si occupa naturalmente
anche Maurizio Bettini. Il quale
scrive che l’interdizione di quel genere
di connubio (capace di suscitare
“senso di orrore”, diceva sant’Agostino
nella “Città di Dio”, perché “non so
come, esiste qualcosa di naturale e di
lodevole che inerisce all’umana verecondia”,
tale da inibire spontaneamente
il desiderio verso coloro che
vanno considerati come fratelli) è proprio
una delle peculiari caratteristiche
della struttura della parentela nel
mondo antico del quale siamo discendenti
(o, se si vuole, parenti. Lontani
ma pur sempre parenti, per rimanere
in tema).
Trapassate nella modernità, quelle
caratteristiche hanno segnato e segnano
tuttora la cultura occidentale.
Se non altro perché in altre civiltà, in
passato e ancora oggi, scopriamo che
non solo l’interdizione del matrimonio
tra cugini non c’è, ma che può accadere
il contrario, e cioè che quel tipo
di matrimonio sia caldeggiato o
addirittura obbligatorio. Bettini parte
proprio da sant’Agostino, e dal
“contenuto sociologico assai profondo”
della sua argomentazione contro
il matrimonio tra cugini. La quale si
basa certamente su quell’“umana verecondia”
– dai moventi anche misteriosi,
perché non è detto, sembra voler
sostenere Agostino, che tutto debba
essere spiegato – ma anche, e forse
soprattutto, sul fatto che, spiega Bettini,
“affinché la concordia regni tra gli
uomini, la ratio della carità prescrive
che i legami e gli appellativi di parentela
si distribuiscano il più ampiamente
possibile fra le persone, ed evitino
di concentrarsi in un solo individuo.
Il matrimonio tra consanguinei,
invece, tende proprio a concentrare
legami e appellativi”.
Ne emerge una capacità di apertura,
attraverso una tessitura dei legami
matrimoniali che privilegia gli esterni
alla famiglia, che altrove risulterà impensabile,
e che rende la cultura occidentale,
dal punto di vista del costume
matrimoniale, più esogama e aperta
di qualsiasi altra. “A Roma è andata
proprio così – dice al Foglio Bettini
– perché in una società in cui il matrimonio
con la cugina è interdetto è giocoforza
volere generi o nuore che arrivino
da lontano. L’idea è di allargare,
non di chiudere. Fanno eccezione,
e accade anche in tempi moderni e
contemporanei, le famiglie aristocratiche.
In epoca tardo repubblicana e
imperiale le grandi famiglie tendono
a chiudersi, a privilegiare l’endogamia,
a mantenere concentrato il gruppo
familiare. Ma, in linea di massima,
nella società romana l’atteggiamento
di apertura è molto evidente e interessante.
Tanto che, più che l’enfasi sul
divieto del matrimonio tra cugini, bisogna
pensare a una spinta a guardare
fuori, a scegliere fuori dallo stretto
gruppo familiare”. Il quale, naturalmente,
i suoi modi per rinsaldarsi al
di fuori della scelta endogamica ce
l’ha. Ce lo ricorda, per esempio, la
“Cara cognatio”, una festa celebrata
dopo la metà di febbraio alla quale solo
“cognati’ (parenti per linea femminile,
mentre quelli per via maschile
sono detti ‘agnati’) e “adfines” (i parenti
diventati tali per via di matrimonio)
potevano intervenire, e che serviva
a rinsaldare i legami nel gruppo di
“propinqui”, oltre che a risolvere le
eventuali contese che allora come ora
potevano opporre parenti a parenti, e
a banchettare in onore dei Lari.
“In altre culture invece – prosegue
Bettini – troviamo l’orrore per lo sposalizio
fuori dal gruppo familiare. Sarei
curioso di sapere, per esempio, se
nelle vicende che la cronaca ci propone
continuamente, vicende legate ai
matrimoni combinati di immigrati pachistani,
non ci sia, in qualche forma,
anche una prescrizione familiare di
questo genere, magari non direttamente
connessa all’islam ma a consuetudini
locali. In Germania, per
esempio, so per certo che molti turchi,
al momento di sposarsi, tornano
nella terra natale perché preferiscono
prendere in moglie una cugina”.
Viene in mente che i due amanti protagonisti
dell’ultimo romanzo dello
scrittore turco Orhan Pamuk, “Il museo
dell’innocenza” (Einaudi), sono
cugini. In occidente, pur “vietato dalle
leggi canoniche e sostanzialmente
mal visto dal costume”, il matrimonio
tra cugini “costituirà un punto dolente,
ovvero una sorta di continua tentazione
per la nostra cultura occidentale”.
Non solo tentazione, in verità. Basti
pensare che Umberto I di Savoia e
la moglie Margherita erano cugini
primi, figli di due fratelli.
Rimane comunque, sullo sfondo
della cultura giudaico-cristiana, il
problema della coppia primigenia,
Adamo ed Eva, e l’imbarazzo per gli
“antiqui patres”. I quali, per forza di
cose, hanno dovuto far ricorso alle
nozze tra fratelli e cugini (Bettini ne
parla nel secondo capitolo di “Affari
di famiglia”, ed è interessante vedere
come si siano giustificati, nella dottrina,
quei matrimoni tra consanguinei).
Ma per tornare alle fonti arcaiche romane,
predilette da Bettini, ci vengono
tramandati solo tre casi di legami
matrimoniali, promessi o realizzati,
tra cugini, tutti destinati al disastro:
“Si tratta del matrimonio che Amata
ha progettato tra la propria figlia Lavinia
e Turno, il figlio di sua sorella
Venilia (finirà con la morte di Turno
per mano di Enea, che per volere degli
dei è destinato a Lavinia); quello
progettato fra uno dei Curiazi e sua
cugina Orazia, figlia di una sorella di
sua madre (finirà con la morte della
ragazza per mano del fratello); infine
un matrimonio cui seguirono ogni sorta
di omicidi e di nefandezze, ossia
quello fra i due fratelli Tarquini e le
loro cugine, figlie del re Servio Tullio
e della sorella della loro madre. Anche
i racconti, in accordo con le prescrizioni
consuetudinarie, sembrano
insomma dire: a Roma non si sposa la
cugina”. Quel divieto, in occidente, ha
attraversato i millenni, se Marco Polo,
nel “Milione”, così descriveva i costumi
matrimoniali della città di Canpicion
(Kan-Chou), nella provincia di
Tangut, alla fontiera nordorientale
della Cina: “Egli prendo per moglie la
cugina e la zia, e nol tengono peccato.
Egli vivono come bestie”.
L’estinzione della famiglia patriarcale,
in occidente, ha oscurato l’attenzione
per i fatti parentali. Chi ricorda
la funzione dell’“avunculus”, il fratello
della madre, come protettore delle
nipoti femmine, o quella del “proavus”
(il bisnonno) come capostipite sacralizzato
della famiglia, elemento
che chiude l’anello di una parentela
che arriva fino ai “sobrini” (figli dei
cugini, oltre i quali non si è più “propinqui”)?
La stessa idea della mescolanza
del seme, che tanto orripilava
gli antichi (non solo loro, a dire la verità)
sembra ormai ridicolizzata da
certe notizie californiane, del tipo:
“Coppia gay ottiene di mescolare il seme
nella provetta per un’inseminazione,
in modo che il bambino che nascerà
da una madre a pagamento potrà
essere considerato di entrambi i
partner”. Fatti di fronte ai quali parteggiamo
senza esitazioni per l’“umana
verecondia” di sant’Agostino, perché
davvero poco umano ci sembra il
bricolage procreativo a uso e consumo
dei committenti di un figlio à la carte.
Bettini pensa però che “non è vero
che l’attenzione per la parentela sia
scomparsa. Il caso californiano è una
risposta ‘riarticolata’ a un problema
che l’umanità si pone da sempre, e
non solo in occidente, vale a dire
quello della mescolanza dei semi. Anche
la scienza, come è noto, ha influito
sui modelli di riproduzione che
sembravano immutabili, e che prevedevano
la reale unione tra maschio e
femmina. Con la riproduzione assistita
questo passaggio sembra superato,
ma già nella mitologia greca troviamo
svariati casi di figli nati esclusivamente
da un genitore. C’è Atena, nata
dalla testa di Zeus, e c’è Dioniso, che
cresce nella coscia dello stesso Zeus.
Esisteva, tradotta nel mito, quantomeno
una fantasia di generazione da un
solo genitore”. Da genitori di un solo
sesso, come è nel caso delle coppie
omosessuali che usano gameti del
sesso opposto o comprano una madre
surrogata, se si tratta di due uomini.
E in questo modo si nasconde – eliminarla
non si può – la componente femminile
(o maschile) della generazione.
A giudizio di Bettini, tuttavia, “non c’è
niente di molto diverso da quello che
succedeva ad Atene per i bastardi figli
di un padre nobile e di una madre
schiava o concubina. Anche lì, l’identità
del figlio era costruita soltanto
nella linea ereditaria maschile e
quella femminile risultava azzerata”.
La cosa su cui Maurizio Bettini concorda
è invece “la necessità della regola
nella parentela. Quando la tocchi,
tocchi una cosa che non appartiene
solo a te ma a tutti, come il linguaggio.
E’ un bene comune e come tale
andrebbe considerato, anche guardando
all’antichità”
Il Foglio 23 gennaio 2010