di Luca F. Tuninetti
Tutti i convertiti sono pericolosi”.
Newman sapeva che questo era
quello che pensavano certi cattolici
di coloro che, come lui, erano approdati
alla chiesa di Roma dopo aver lasciato
la chiesa d’Inghilterra. John
Henry Newman (1801-1890) era stato
infatti ricevuto nella chiesa cattolica
nel 1845 dopo essere stato negli anni
precedenti fellow dell’Oriel College
di Oxford, membro del clero anglicano
e animatore di un movimento che
intendeva rivitalizzare la chiesa d’Inghilterra
riprendendone la migliore
tradizione teologica.
Inizialmente la conversione di
Newman fu accolta con entusiasmo
dai cattolici inglesi, ma in seguito egli
dovette più volte scontrarsi con la diffidenza
dei suoi nuovi compagni di
strada e questa esperienza si riflette
nelle parole citate che egli riporta in
una lettera del 1858. Se coloro che
erano cattolici per tradizione famigliare
guardavano con qualche sospetto
ai nuovi arrivati, altri, convertiti come
lui, non condividevano certi orientamenti
di Newman e in particolare la
sua scelta di dedicarsi all’educazione
dei cattolici più che alla conversione
dei non cattolici.
Nel pubblico inglese in generale
le reazioni negative alla conversione
di Newman furono immediate. La
conversione al cattolicesimo nell’Inghilterra
del tempo significava una
sorte di morte civile. A quel tempo i
cattolici non erano ammessi all’Università
di Oxford e aderire alla chiesa
di Roma voleva dire per Newman
dire addio all’ambiente che gli era
più caro e più congeniale. Molti parenti
e amici ruppero ogni rapporto
con lui. Il convertito perdeva la propria
reputazione e si esponeva a ogni
sorta di accuse.
Newman stesso descrive causticamente
qual era l’atteggiamento del
pubblico protestante inglese nei confronti
di coloro che si convertivano al
cattolicesimo. La mentalità corrente
nega che ci siano conversioni al cattolicesimo.
Quando non si può fare a
meno di ammettere che una conversione
ci sia stata, si dipinge il convertito
come una persona debole di carattere
e di mente e si mette in dubbio
la bontà delle sue motivazioni. Si
comincia poi a dire che il convertito
presto ritornerà alla chiesa d’Inghilterra
e, anzi, che è già ritornato.
Quando questa voce si rivela infondata,
si insiste sul fatto che comunque il
convertito non è felice nella chiesa
cattolica e che con la conversione il
suo carattere è peggiorato. Si sparge
la notizia che il convertito ha infine
abbandonato la fede. Da ultimo,
quando ogni altro mezzo è esaurito, si
dimentica semplicemente l’esistenza
del convertito.
Newman si riferisce qui esplicitamente
alla propria esperienza ricordando
le critiche e i sospetti che seguirono
alla sua conversione e che lo
accompagnarono poi anche in seguito.
Agli attacchi di questo tipo Newman
rispose almeno due volte in un
modo non convenzionale. Nel 1847
era apparso un romanzo in cui si lasciava
intendere che presto l’illustre
convertito sarebbe ritornato alla
chiesa anglicana. A questa insinuazione
Newman rispose a sua volta con
un romanzo, “Perdita e guadagno”:
storia di un convertito.
Il libro racconta la storia di uno
studente di Oxford che si confronta
con le diverse posizioni religiose presenti
nell’Inghilterra del tempo e infine
approda alla chiesa cattolica. Il
protagonista del romanzo non è propriamente
un alter ego dell’autore
(già solo per il fatto che ha vent’anni
meno di lui).
E’ stato fatto notare che può sembrare
una scelta provocatoria quella
di adottare il genere letterario del romanzo
per parlare di una conversione.
L’Inghilterra vittoriana considerava
infatti il romanzo come un resoconto
realistico: la conversione non
appare così come una vicenda puramente
interiore e spirituale ma come
una drammatica presa di posizione
rispetto alla realtà del proprio tempo.
L’Università di Oxford che è al centro
delle vicende appare in effetti dominata
dalla controversia tra i diversi
partiti in lotta all’interno della chiesa
di Inghilterra: evangelici, liberali, anglo-
cattolici e sostenitori conservatori
della chiesa di stato.
Con questo libro Newman certamente
non pretende di spiegare perché
lui stesso è diventato cattolico e
neppure perché sia giusto diventarlo,
ma piuttosto perché una persona può
ragionevolmente diventarlo (evitando
d’altra parte di parlare delle vicende
del movimento che lo avevano coinvolto
personalmente). Tuttavia nelle
pagine del libro emerge una questione
che ebbe un ruolo fondamentale
nella conversione di Newman. Nel
percorso che porta il protagonista del
romanzo alla conversione è decisiva
la questione del senso dei partiti all’interno
della chiesa: l’esistenza di tali
partiti appare inevitabile una volta
che sia venuta meno un’autorità capace
di stabilire l’ortodossia e si sia affermato
il principio del libero esame,
ma porta necessariamente a chiedersi
che cosa crede e più ancora a chi
crede il fedele anglicano. La domanda
che percorre le pagine del romanzo è
se nella chiesa di Inghilterra ci possa
essere fede nel vero senso della parola.
Per il protagonista del romanzo, come
per il suo autore, non c’è religione
senza verità ma non ci può essere verità
in materia religiosa senza un’autorità
che sia in grado di insegnarla.
La questione della conversione è al
centro anche del romanzo che Newman
pubblicò nel 1856, “Callista”. La
storia è ambientata in una piccola
città dell’Africa settentrionale del
terzo secolo dove i cristiani convivono
con i pagani e sono esposti alle loro
continue accuse se non addirittura all’aperta
persecuzione. Alla mente del
lettore si affaccia un paragone tra la
situazione degli antichi cristiani nell’Impero
romano e quella dei cattolici
nell’Inghilterra vittoriana. La protagonista
(che dà il nome al romanzo)
è una giovane pagana intelligente e
sensibile di cui l’autore descrive con
grande finezza il progressivo avvicinamento
alla fede cristiana fino al
martirio.
Nel 1864 si offrì a Newman un’altra
occasione per dare pubblicamente
ragione della sua conversione. In una
recensione, Charles Kingsley, professore
di Storia a Cambridge e autore
di romanzi di successo oltre che membro
del clero anglicano, affermando
che per il clero romano la verità non
è una virtù, attribuì a Newman l’opinione
che ai cattolici è lecito mentire
per difendersi dai loro nemici. Quando
venne a conoscenza dell’articolo
Newman fu estremamente contrariato.
Ne seguì uno scambio epistolare
che Newman, insoddisfatto della replica
del suo interlocutore, pubblicò
con alcune riflessioni conclusive.
Kingsley rispose con un pamphlet in
cui sollevava dubbi sull’onestà di
Newman. Al di là degli aspetti personali,
in questo scritto emerge la grande
distanza tra la mentalità vittoriana
e il cattolicesimo. Newman rimase
colpito dal fatto che Kingsley insinuava
o tacitamente supponeva che egli
fosse in realtà più o meno segretamente
“romano” quando, ufficialmente,
faceva ancora parte della chiesa di
Inghilterra. Newman sentì che Kingsley
dava voce a una accusa, che lo
aveva accompagnato fin dal momento
della sua conversione, di non aver
sempre conformato i suoi comportamenti
alle sue convinzioni. Per dimostrare
l’infondatezza di tale accusa
egli decise di ricostruire quale era
stato il suo pensiero in materia religiosa
nei diversi momenti della sua
vita mostrando come questo spiegasse
le decisioni da lui prese di volta in
volta. Per difendere la propria onestà
non poteva fare a meno di esporre al
pubblico la propria storia.
Questo Newman lo fece in uno scritto
che prese la forma di sette fascicoli
pubblicati a scadenze settimanali a
partire dal 21 aprile. A distanza di due
settimane seguì una appendice in cui
rispose dettagliatamente alle accuse
di Kingsley. Nello stesso anno i fascicoli
vennero raccolti in un volume con
il titolo “Apologia pro Vita Sua”. Newman
dovette lavorare freneticamente
per dare una risposta alle accuse di
Kingsley mentre era ancora vivo nel
pubblico inglese l’interesse suscitato
dalla controversia e per rispettare le
scadenze settimanali nella pubblicazione
dei singoli fascicoli. Quello che
ne risulta è un libro assai particolare.
Non è propriamente né un’opera di
controversia dottrinale né una autobiografia
spirituale. Può dare una immagine
unilaterale del processo che
ha portato l’autore alla conversione in
quanto si concentra soltanto sugli
aspetti intellettuali. Ma è un libro affascinante
– e non solo per lo stile o
forse in quanto lo stile esprime perfettamente
le caratteristiche di un’opera
che è insieme serena e appassionata,
molto personale ed estremamente discreta.
Di fatto la fatica di Newman fu
premiata da un grande successo presso
il pubblico inglese, sia quello cattolico
sia quello non cattolico. Ancora
oggi probabilmente l’“Apologia” è lo
scritto di Newman più letto. Newman
fu considerato da allora di nuovo e
più di prima come una figura di importanza
nazionale.
Per rispondere all’accusa di Kingsley,
Newman ripercorre i passi che lo
hanno portato ad allontanarsi a poco
a poco dalla chiesa d’Inghilterra fino
ad arrivare alla decisione di entrare
nella chiesa di Roma. Al tempo stesso,
egli rivendica però la continuità e la
coerenza del proprio itinerario. In
particolare, rievocando la sua attività
nella chiesa anglicana Newman osserva
con soddisfazione che il principio
fondamentale che la guidava gli è altrettanto
caro nel momento in cui scrive
di quanto lo fosse allora. Si tratta di
quello che egli chiama “il principio
del dogma”, l’idea che la religione
non può esaurirsi in un sentimento
ma richiede l’adesione a verità definite.
“Sono cambiato in tante cose”, dice,
“ma non in questo”.
L’idea che la conversione non richieda
l’abbandono delle convinzioni
precedenti viene sviluppata da Newman
in un passo della sua “Grammatica
dell’assenso” (1870). Questo libro
è il punto di arrivo di riflessioni sulla
ragionevolezza della fede che hanno
accompagnato l’autore lungo tutto il
corso della sua vita. Newman ha ben
presente l’obiezione del razionalismo
moderno secondo cui possiamo credere
soltanto a ciò che è dimostrabile.
Egli vede che accettare questo significherebbe
ridurre la fede alla misura
della ragione umana, ma ritiene
che occorre allora chiedersi come
possiamo essere ragionevolmente
certi delle verità della fede se non è
possibile dimostrarle.
In una pagina della “Grammatica”
Newman si sofferma sul fenomeno
della conversione da una religione a
un’altra. Egli osserva che una religione
è un sistema complesso di riti, credenze
e norme di comportamento e
che un concreto individuo non aderisce
a tutte le credenze della religione
da lui professata con eguale convinzione.
Quando consideriamo il passaggio
di un individuo da una religione a
un’altra dobbiamo allora chiederci se
tali religioni hanno qualcosa in comune
e se le credenze di cui quell’individuo
era davvero certo quando abbracciava
la prima religione erano quelle
che essa ha in comune con l’altra. Chi
si converte abbandona talune credenze
della sua precedente religione, ma
bisogna vedere se tali credenze fossero
effettivamente certezze di questo
particolare individuo.
In effetti Newman sostiene che normalmente
chi passa da una religione
a un’altra tiene ferme quelle che erano
le sue autentiche certezze e sono
anzi proprio queste che lo spingono a
superare i confini della propria religione.
Per esempio tre protestanti
possono diventare l’uno cattolico, l’altro
unitariano e l’altro ancora ateo,
continuando ciascuno a credere ciò
che credeva quando si professava
protestante: ciascuno di loro “ha fatto
delle aggiunte, parecchie e significative,
al principio che lo guidava all’inizio,
ma non ha perso nessuna delle
convinzioni che aveva originariamente”
(trad. it. di B. Gallo, Jaca Book, Milano
2005, pag. 194).
Se è vero in generale che tutte le religioni
hanno punti in comune, è vero
più particolarmente per Newman che
la chiesa cattolica abbraccia ogni verità
che gli uomini possono aver conosciuto
al di fuori di essa: “Questo è il
segreto dell’influenza che la chiesa
esercita, del fatto che essa attiri così
tanti convertiti dalle religioni più diverse
e più conflittuali. Costoro vengono,
non tanto per perdere ciò che hanno,
quanto per guadagnare ciò che
non possiedono; e perché, per tramite
di ciò che hanno, venga loro dato di
più” (ibid., pagg. 195-196). Chi si rivolge
al cattolicesimo porta con sé il suo
essere certo e si converte “non per
perderlo ma per tenerlo stretto con sicurezza
anche maggiore” (ibid.). Newman
arriva a immaginare il caso, certamente
bizzarro, di un uomo che a
partire dal paganesimo arriva al cattolicesimo
passando per l’islam, il giudaismo,
l’unitarianesimo, il protestantesimo
e l’anglicanesimo, acquisendo
sempre nuove certezze senza perdere
quelle già possedute.
Per capire perché Newman insiste
in questo modo nella “Grammatica”
sulla persistenza delle certezze occorre
considerare qual è l’intenzione fondamentale
di quest’opera. Sinteticamente,
si può dire che Newman vuole
mostrare che la certezza non è l’esito
più o meno automatico di un procedimento
dimostrativo, ma una conquista
personale per cui ciascuno deve e può
fare affidamento sulle capacità che gli
sono date dal Creatore. La persona ha
le risorse che le occorrono per arrivare
alla certezza e le deve usare.
Se abbandonare le proprie certezze
fosse facile come sembra a uno
sguardo superficiale, questo, secondo
Newman, potrebbe farci dubitare del
fatto che sia ragionevole fare affidamento
sulla nostra capacità di arrivare
alla certezza. In particolare, non
sarebbe ragionevole farlo nel caso
che si tratti di materie religiose, nelle
quali la varietà e variabilità delle
opinioni sembra prevalente. Ma secondo
Newman in realtà non è così:
anche in questo ambito le vere certezze
sono poche ma resistono ai facili
mutamenti.
La conversione può essere ragionevole
perché è possibile per l’uomo arrivare
a una nuova certezza. Non vedere
come attraverso la conversione
si mantengano le vere certezze significherebbe
però gettare il sospetto
sulla capacità che la persona ha di arrivare
a una certezza ragionevole e
quindi anche sulla ragionevolezza
della stessa conversione.
Ma le riflessioni di Newman nella
“Grammatica” gettano anche una luce
interessante sulla condizione paradossale
del convertito che lui stesso
aveva sperimentato. Mentre gli uni lo
accusavano di non essere stato sincero
continuando a professarsi anglicano
senza esserlo realmente, gli altri
sospettavano che la sua adesione al
cattolicesimo non fosse stabile e convinta.
Gli uni e gli altri non capivano
che la conversione può essere un nuovo
inizio senza essere una rottura totale
con il passato, che la continuità non
è un segno dell’insincerità della conversione
ma al contrario fa vedere come
essa coinvolga le convinzioni più
profonde della persona, che talvolta
bisogna cambiare per restare fedeli
alla verità già riconosciuta.
Non era un modernista ma non temeva la modernità
Un cristiano che interroga la modernità” è il sottotitolo
della raccolta di saggi su Newman che
l’Urbaniana University Press ha appena pubblicato
con la curatela di Luca Tuninetti, docente di Filosofia
nello stesso ateneo. Ma si può anche dire il contrario:
la modernità che interroga il cristiano, lo mette
alla prova e a volte lo risucchia. Tra fine Ottocento
e inizio Novecento la chiesa visse la durissima crisi
modernista (il termine modernismo fu coniato dai
suoi critici e definito “sintesi di tutte le eresie” da
Papa Pio X nell’enciclica “Pascendi dominici gregis”
del 1907), di cui l’interprete teologicamente più
attrezzato fu George Tyrrell. Il gesuita irlandese, la
cui vicenda è appena stata ricostruita dal confratello
Giovanni Sale sulla Civiltà Cattolica, rivendicò più
volte l’eredità del cardinale inglese; la stessa cosa fece
il modernista italiano Ernesto Buonaiuti.
Newman padre spirituale del modernismo? Una
tesi insostenibile secondo Fortunato Morrone, dell’Istituto
Teologico Calabro, che ha curato l’“Apologia
pro vita sua” per le Edizioni Paoline. “Tyrrell e
soci avevano intravisto nel suo concetto di evoluzione
del dogma la possibilità di collegare il cattolicesimo
al pensiero moderno. Volendo usare categorie
attuali, dovremmo inserirlo tra i padri fondatori del
relativismo e del razionalismo. In realtà, tutta la sua
vita fu una lotta serrata contro questi due principi,
ma anche contro un certo fideismo di derivazione
protestante presente nella chiesa cattolica”. Morrone
fa notare che “Newman nella sua sensibilità filosofica
anglosassone si discosta dalla tradizione metafisica
tomista; egli, da buon inglese, guarda la
realtà con un approccio fenomenologico, in qualche
modo debitore della filosofia di Locke e di Hume.
Come avevano già fatto i Padri con la filosofia greca,
adopera gli strumenti concettuali della tradizione
empirista senza rimanere impigliato nelle conclusioni
scettiche relativiste”. Per Newman, infatti,
la ragione va colta nella concretezza dell’esperienza
umana: sentimenti, relazioni e immaginazione –
facoltà preziosissima che “è fatta per la verità e trova
base nella verità” (“Grammatica dell’assenso”). E
la rivelazione di Dio si dà nella storia e ha un nome,
Gesù di Nazaret.
“Newman è convinto – prosegue Morrone – che la
storia della chiesa dimostri la necessità di uno sviluppo
interno della comprensione della fede annunciata
nei secoli sia a livello dottrinale-liturgico sia
strutturale. E’ l’idea di una ‘crescita’ della dottrina
cristiana, idea tutt’altro che modernista”. La chiesa
è un organismo spirituale che cresce nel tempo ma
come qualunque organismo patisce interruzioni e
regressi. Come distinguere nel percorso storico ciò
che è essenziale e ciò che è marginale o nocivo? “Ci
deve essere una qualche autorità, se ci è data una rivelazione
e tale autorità non può essere che quella
della chiesa. Non si dà rivelazione se non vi è un’autorità
che stabilisca quello che ci è stato rivelato…
Se il cristianesimo è a un tempo sociale e dogmatico
e deve valere per tutte le età, deve avere, umanamente
parlando, un interprete infallibile” (“Lo sviluppo
del dogma”). Perciò, argomenta il grande convertito,
le eresie sono l’espressione di una fede involuta;
i dogmi, al contrario esprimono la sua crescita.
Altro che modernista. Ma, come Agostino, Newman
è un teologo così grande che ci sarà sempre qualcuno
pronto a farlo a pezzetti per prendere quello che
piace di più. O di meno.
Marco Burini
Il Foglio 23 gennaio 2010