DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

ARTE, STALIN E IL COMUNISMO TRA NOI. Con la manipolazione del linguaggio il potere sovietico poteva imporre qualsiasi filosofia e qualsiasi sacrificio

di Massimo Boffa

Nella primavera del 1950, tre anni
prima della morte, con una decisione
che non cessa di apparire bizzarra,
Stalin si dedicò a un problema
che gli appariva “urgente”: quello
della linguistica. Per diversi giorni la
Pravda, l’organo del Partito comunista,
pubblicò le sue risposte alle domande
di alcuni “compagni di base”
su come dovesse intendersi il linguaggio
alla luce del marxismo-leninismo:
se fosse un elemento della
“struttura”, della “sovrastruttura” o
che altro. E distribuì diverse rampogne
agli specialisti sovietici che non
dimostravano, in materia, una concezione
sufficientemente “dialettica”.
Curioso, no? Era cominciata la
Guerra fredda, nelle democrazie popolari
veniva imposto rapidamente
ma non senza scosse il pugno di ferro,
l’Urss era alle prese con giganteschi
problemi interni, e il capo supremo
giudicava estremamente importante
stabilire lo statuto filosofico del linguaggio
umano.
Ecco, a partire da questo singolare
episodio, Boris Groys, studioso tra i
più originali della cultura sovietica,
ha proposto una nuova interpretazione
del fenomeno comunista, al centro
della quale è proprio il linguaggio, il
potere della parola. Le sue riflessioni
sono contenute in un agile libriccino
di un centinaio di pagine, “Post scriptum
comunista” (Meltemi editore). La
sua tesi è che l’Urss rappresenta, nella
storia dell’umanità, il tentativo più
compiuto di realizzare il sogno “platonico”
del potere dei filosofi e che tale
tentativo si è servito soprattutto di
una manipolazione “dialettica”, cioè
paradossale, del linguaggio. E, sulla
base di questa tesi, l’autore finisce
per interrogarsi sulle possibilità di
una “resurrezione” dell’utopia comunista
nel XXI secolo.
Il libro di Groys è, a suo modo, sintomatico.
Il fatto è che, a un ventennio
dalla caduta del Muro e dalla autodissoluzione
del regime sovietico,
appare sempre meno soddisfacente
ridurre quella esperienza alla favoletta,
tragica ma tutto sommato a lieto
fine, del despotismo comunista
che cede il posto alla libertà capitalista.
Il fatto è che oggi la Russia intrattiene
un rapporto complesso, per
nulla lineare, di repulsione ma anche
di attrazione, con il proprio passato
sovietico. E di questa riflessione,
storica e filosofica, sul Novecento
russo parte assai rilevante sono
proprio le opere di Groys.
Boris Groys, nato nel 1947 a Berlino
est, si è formato all’Università di
Leningrado, dove ha studiato filosofia,
per poi dedicarsi soprattutto alle
ricerche sull’estetica sovietica. Nel
1981 ha lasciato l’Urss ed è emigrato
nella Repubblica federale tedesca.
Ora insegna Estetica e Storia dell’arte
alla Hochschule für Gestaltung di
Karlsruhe. All’attività universitaria
unisce una partecipazione militante
ai dibattiti teorici sull’arte moderna
e, nel 2003, ha curato una mostra che
ha fatto epoca: “Traumfabrik Kommunismus”,
il comunismo fabbrica
di sogni, sull’iconografia dell’epoca
staliniana (alla Schirn Kunsthalle di
Francoforte).
Di Groys il lettore italiano conosceva
già il libro più famoso, “Stalin
opera d’arte totale”, pubblicato da
Garzanti nel 1992, che ha rivoluzionato
le interpretazioni storiche del
“realismo socialista”, cioè dell’estetica
degli anni staliniani. Fino a quel
momento, infatti, la tesi di gran lunga
prevalente aveva rappresentato le
avanguardie artistiche fiorite in Russia
prima e dopo la rivoluzione bolscevica
come un’esplosione di creatività
e modernismo, soffocata poi, negli
anni Trenta, dal realismo socialista,
raffigurato come una sorta di ritorno
all’estetica naturalista di fine
Ottocento. Groys smontava precisamente
questa ingenua, e ancora tanto
diffusa, interpretazione. E mostrava
come l’arte dell’epoca staliniana,
lungi dall’essere stata la negazione
dello spirito avanguardista degli anni
Venti, ne avesse realizzato il grande
sogno: passare dalla pura rappresentazione
della vita alla sua trasformazione,
secondo un progetto politico
globale. Erano stati infatti gli artisti
d’avanguardia (i Tatlin, i Malevic,
i Rodchenko, i Majakovskij) a condurre
una lotta “nichilistica” contro
l’estetica borghese e a rivendicare
per primi la politicizzazione dell’arte.
E avevano guardato con disprezzo
il tollerante “pluralismo artistico”
professato agli albori del regime bolscevico.
Certo, molti di loro sarebbero
poi stati emarginati (quando non
fisicamente soppressi), ma alla maniera
degli apprendisti stregoni, che
creano il mostro di cui poi diventano
le vittime. Quanto al realismo socialista,
con le sue migliaia di ritratti di
Stalin, fu tutt’altro, diceva Groys, che
un’estetica passatista, giacché il carattere
totalitario del suo progetto fu
possibile solo grazie alla tabula rasa
compiuta dagli avanguardisti. Che
aveva spianato la strada a un’arte di
massa e di propaganda, riproducibile
all’infinito come certe immagini
della pubblicità.
Come si vede, il saggio di Groys era
un modo, storicamente molto circostanziato,
di riprendere in mano un
tema cruciale, quello della non innocenza
della cultura libertaria nella
genesi del totalitarismo. E’ dai sogni,
infatti, anche quelli più generosi, che
hanno origine gli incubi peggiori. Ora,
nel suo nuovo libro, il filosofo russo
tenta di affrontare la questione a un
più alto livello di astrazione. Vent’anni
fa la macchina comunista si è spezzata,
ma l’aspirazione che ne era alla
base si è perciò stesso esaurita?
“Con comunismo intenderò qui il
progetto di sottomettere l’economia
alla politica”, esordisce Groys. “L’economia
funziona attraverso il medium
del denaro… La politica funziona attraverso
il medium del linguaggio…
La rivoluzione comunista è il passaggio
della società dal medium del denaro
al medium del linguaggio”. L’idea
di Groys è che nel capitalismo il
linguaggio è privo di potere. Vigendo
la libera concorrenza nel mercato delle
opinioni, le opinioni non sono né
vere né false, ma tutte ugualmente sostenibili:
al massimo saranno più o
meno popolari, cioè più o meno vendibili.
In tali condizioni, anche “criticare”
la società è assurdo, essendo il
linguaggio critico niente altro che una
merce tra le tante. E’ solo nel comunismo
che tutto diventa criticabile: “In
Unione sovietica era possibile protestare
contro le scarpe, le uova o le salsicce
offerte nei negozi e di criticarle
come le teorie ufficiali del materialismo
storico. Tali teorie avevano infatti
la stessa origine delle scarpe, delle
uova e delle salsicce”, vale a dire le
decisioni del comitato centrale. “Tutto
ciò che esisteva nel comunismo era
stato deciso da qualcuno”.
Ciò dovrebbe spiegare, tra l’altro, il
diverso status di cui godeva l’attività
intellettuale: nel capitalismo una funzione
tra le tante, senza particolare rilievo
politico, mentre nel comunismo,
dove esisteva una verità da amministrare,
tale attività aveva un immediato
impatto sulla politica. Per questo le
dirigenze investivano tanta energia
nella manutenzione del linguaggio
dell’ideologia ufficiale: “Sapevano infatti
che, al di fuori del linguaggio,
non possedevano niente – e che se
avessero perso il controllo sul linguaggio,
avrebbero perso tutto”.
Ora, quale era questa “verità”?
L’Urss si concepiva come uno stato in
cui governava la filosofia: il marxismo-
leninismo, di cui elemento centrale
era il “materialismo dialettico”.
E la legge fondamentale del materialismo
dialettico (che veniva appresa
fin dalle scuole dell’obbligo) era “l’unità
degli opposti”, l’idea cioè che la
realtà fosse in sé contraddittoria e
che il retto pensare dovesse riprodurre
tale contraddizione: se dico A non
devo escludere non-A. Era, dice
Groys, il trionfo del pensiero paradossale.
I dibattiti all’interno del partito
seguivano tutti questa logica: una deviazione
dalla linea corretta non dipendeva
dalle tesi sostenute ma dal
rifiuto di considerare ugualmente vere
le tesi contrarie. I “deviazionisti”
venivano bollati per il loro “unilateralismo”,
perché non accettavano il
paradosso ufficiale.
Tale tipo di logica ha una lunga
storia, ma Groys si sofferma in particolare
sui dogmi del cristianesimo,
giacché “l’ortodossia cristiana pensa
in termini di paradossi”. La Trinità
divina è identità dell’Uno e dei Tre;
Gesù è interamente uomo, è interamente
Dio ed è l’unità tra Dio e uomo.
Pensare Cristo solo come uomo o
solo come Dio è eresia, mentre il dogma
è la somma di tutte le eresie. E se
la chiesa condanna le eresie “è perché
esse rifiutano le eresie opposte”.
Ecco, la logica totale del comunismo,
forma estrema dell’ateismo, si colloca,
secondo Groys, “nella successione
della logica totale del dogmatismo
cristiano”. E come la teologia cristiana
ha avuto bisogno di secoli di sforzi
intellettuali per arrivare alle sue
formulazione paradossali, così il potere
sovietico ha avuto bisogno di decenni
di discussioni per arrivare alle
formulazioni dialettiche che incarnano
l’ortodossia staliniana. Al termine
di questo processo, il capo comunista
trae la propria legittimità dal fatto
che pensa e parla in modo più dialettico,
cioè più paradossale, più totale,
di tutti gli altri.
Il lettore potrà chiedersi dove
Groys voglia andare a parare. Me lo
chiedo anche io, senza alcun sottinteso
polemico. D’altra parte la forma
del libro non sembra convergere verso
conclusioni stringenti. Una cosa è
chiara: l’autore intende mostrare che
la vicenda (e la fine) del comunismo è
meno semplice di quanto appaia a
prima vista. E a questo proposito svolge
due considerazioni.
La prima riguarda l’immagine del
comunismo prevalente nella critica
occidentale. Groys lo ha presentato
come il regno del pensiero paradossale
che aspira ad aderire alla vita in
tutta la sua contraddittorietà. “Ma
dall’esterno è molto raro che si sia
percepito il comunismo sovietico come
un fuoco acceso e fomentato dal
paradosso logico – come una vita che
tutto divora e in contraddizione con
se stessa”. Piuttosto esso è stato descritto
come una società di automi, governata
dal più freddo razionalismo.
Convergono in questa rappresentazione
la letteratura (Orwell) e il cinema
(“Ninotchka” di Ernst Lubitsch) unanimi
nell’intendere la Guerra fredda
come una lotta tra il sentimento e l’utopia
razionale, tra i corpi umani e la
macchina, tra il desiderio e la logica.
Si potrebbe poi aggiungere che questo
tipo di pensiero critico, che oppone
la libera creatività desiderante alla
disumanità del logos, tanto meno
convince Groys ora che, caduto il comunismo,
sembra rivolgersi contro le
istituzioni dello stesso occidente, percepite
anch’esse come fredde, razionaliste,
a loro modo “totalitarie”. Ma
è un discorso che lascio volentieri in
sospeso poiché, quando si legge un libro,
non è detto che si riesca sempre
a capire (e tanto meno a spiegare) tutto
quello che vi è scritto.
La seconda considerazione riguarda
la fine dell’Urss. “L’evento storico
senza precedenti della pacifica autoabolizione
del comunismo per iniziativa
e sotto la guida del Partito comunista
viene spesso banalizzato, regolarmente
presentato come la disfatta
al termine di una guerra – la Guerra
fredda – o come il risultato della
lotta per la libertà condotta dai popoli
oppressi dal comunismo. Queste
due spiegazioni correnti non reggono”.
La Guerra fredda era infatti solo
una metafora della guerra e non poteva
essere persa che sul piano simbolico.
Mai come negli anni Ottanta
l’Urss (e la Cina) si erano sentite inattaccabili
dall’esterno e pacificate all’interno:
a Mosca il movimento dissidente
era stato liquidato e a Pechino
la repressione aveva ristabilito l’ordine.
Ed è proprio questo sentimento di
sicurezza che, secondo Groys, avrebbe
“incitato le direzioni sovietica e cinese
a impegnarsi nella transizione verso
il capitalismo”. Quanto all’impressione
di disfatta prodotta dalla dissoluzione
dell’impero sovietico, erede
dell’impero russo, “si dimentica che è
proprio la Russia che ha dissolto l’Unione
sovietica”, imponendo l’indipendenza
alle altre repubbliche. E’
stata “una svolta lanciata dall’alto e
dal centro, per iniziativa di una dirigenza
educata nella convinzione che
la propria missione fosse di non subire
passivamente la storia, ma di darle
una forma dialettica”.
Eccoci così tornati al punto di partenza.
Il colmo dell’astuzia dialettica
del comunismo è stato, secondo
Groys, quello di tentare l’avventura
suprema: realizzare il proprio opposto,
la propria dissoluzione. E tale avventura
“è ancora troppo presto per
dire se è fallita”: in Cina il Partito comunista
è sempre solidamente in sella;
in Russia il controllo centrale non
cessa di rafforzarsi. Un bel giorno, insomma,
lo stato ha preso la decisione
di far passare la società dalla costruzione
del comunismo a quella del capitalismo.
Coerentemente, in Russia,
anche il ritorno alla proprietà privata
non è stato concepito come la rinascita
di una figura del diritto naturale,
ma come un atto statale, arbitrario
come era stata arbitraria la precedente
nazionalizzazione: così che “il
privato scopre la sua fatale dipendenza
dallo stato”.
Par di capire, insomma (e per concludere),
che l’idea di Groys è che non
siamo usciti dalla congiuntura che ha
prodotto il comunismo, che il comunismo
è ancora tra noi. E questo non solo
perché Cina e Russia ne recano tuttora
segni così evidenti. Ma soprattutto
perché “altri tentativi di fondare
un governo per mezzo del linguaggio,
cioè un governo dei filosofi, sono assai
probabili, anzi inevitabili”. Il linguaggio,
infatti, è più democratico del denaro,
e la “messa in linguaggio” dei
rapporti di potere offre a ogni individuo
la possibilità di contraddire il destino,
la vita: di criticarli, di denunciarli,
di maledirli. Se è così, non saranno
le repliche della storia ad aver
esaurito il desiderio di sognare né gli
incubi che ne conseguono.

IL FOGLIO 23 gennaio 2010