DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Parola di scienziati: la religiosità fa bene (anche) al cervello. TONINO C ANTELMI

D obbiamo dunque dire addio alle teorie freudiane e a tutte le successive ipotesi che hanno collegato il fenomeno religioso e il desiderio di spiritualità alla psicopatologia, alla nevrosi e comunque a un presunto ' cattivo funzionamento' mentale?
Sembrerebbe proprio di sì, a giudicare da quanto emerge da uno studio dei ricercatori Agostino Girardi e Alessandra Coin della Clinica Geriatrica dell’Università di Padova, diretta dal professor Enzo
Manzato, e pubblicato sulla prestigiosa rivista Current Alzheimer Research .
Senza entrare nei dettagli dello studio, il risultato potrebbe apparire sorprendente: la religiosità, intesa come attitudine alla religione o spiritualità, rallenta la progressione della demenza di Alzheimer, una malattia, come noto, implacabile e sostanzialmente incurabile, caratterizzata dalla progressiva e inarrestabile morte dei neuroni cerebrali.
Date le caratteristiche della malattia, questo risultato non può essere spiegato come un effetto placebo, ma deve essere inteso come un fenomeno correlato con aspetti
neurobiologici. Infatti i malati di Alzheimer appartenenti al gruppo con basso livello di religiosità hanno avuto nel corso dei dodici mesi di osservazione una perdita delle capacità cognitive del 10 per cento in più rispetto a quelli con un livello di religiosità medio- alto.
Questo studio conferma analoghe ricerche: già nel 1988 Koenig aveva dimostrato un effetto protettivo della religiosità rispetto alla demenza. Secondo i ricercatori italiani, comunque, sembra essere proprio la ' religiosità interiore' il fattore in grado di rallentare la perdita cognitiva attraverso fenomeni neurobiologici specifici.
Dunque la religione e la spiritualità non soltanto non sono fenomeni patologici, come molti incauti psicologi ancora oggi tendono ad affermare, ma costituiscono persino un fattore protettivo per la salute in generale e per quella mentale in particolare.
In effetti è da circa due decenni che si vanno accumulando prove in questo senso. Nel 1999 Hummer dimostrò che coloro che
frequentano le funzioni religiose almeno una volta alla settimana hanno un’aspettativa di vita di sette anni maggiore e nel 2003 Powel rese noto che coloro che frequentano regolarmente attività religiose hanno una riduzione della mortalità del 25 per cento. Sostanzialmente, al di là dei dettagli, possiamo affermare che in vent’anni di ricerche è stato ampiamente dimostrato che la religiosità è un fattore protettivo per molte malattie, fisiche e mentali. È come se le dimensioni religiose e spirituali fossero ' proprie' del cervello e della mente umana e perciò insopprimibili: la loro inibizione avrebbe un prezzo per la salute mentale e fisica, mentre al contrario la loro attivazione sarebbe indicativa di un buon funzionamento cerebrale e mentale, e pertanto benefica per la salute. E peraltro alcune recenti osservazioni di neuroimaging
sembrano confermare questa suggestiva interpretazione, con buona pace di ogni tentativo di patologizzare l’irriducibile bisogno religioso dell’uomo di ogni tempo.






«La fede, un aiuto contro l’Alzheimer»
L’Università di Padova: «Chi crede sta meglio»


DA PADOVA

FRANCESCO DAL MAS

L’
Alzheimer conduce, progressivamente ma inesorabilmente, alla morte. Non ci sono ancora farmaci in grado di tamponare la malattia. Semmai, in qualche misura, la rallentano. Ma un antidoto contro la demenza senile è anche la fede, la religiosità, la convinzione nel soprannaturale. Il fatto di coltivare la speranza che la vita non si concluda con la morte, per cui non ci si lascia catturare dalla disperazione. Con un singolare valore aggiunto: chi è religioso fa pesare meno la sua disabilità su chi lo assiste. È una scoperta medico-scientifica, quindi 'laica'. Porta la firma di Agostino Girardi e Alessandra Coin, ricercatori della Clinica Geriatrica dell’Università di Padova diretta dal professor Enzo Manzato. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista 'Current Alzheimer Research' che, prima di riportarlo in rete ha voluto verificarlo perfino nelle virgole, per assicurarsi che i medici non si fossero lasciati prendere dalla suggestione. Che cosa hanno riscontrato?
«Che i malati di Alzheimer appartenenti al gruppo con basso livello di religiosità - sintetizzano - hanno avuto nel corso dei 12 mesi d’indagine una perdita delle capacità cognitive del 10% in più rispetto a quelli con un livello di religiosità medio-alto». Alla
clinica di Padova fanno riferimento 2 mila pazienti, che due o tre volte l’anno si fanno visitare dai 7 medici del centro. La ricerca è stata condotta su un campione di 64 pazienti affetti da Alzheimer in differenti stadi della malattia. Ammalati che sono stati monitorati per 12 mesi nella progressione della demenza, dopo che gli ammalati erano stati suddivisi in due gruppi: quelli con un basso livello di religiosità, e quelli con un moderato o alto livello di religiosità (suddivisione ottenuta grazie al Behavioral Religiosity Scale - BRS, ovvero una serie di test volti a misurare il comportamento religioso). «Le malattie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer non sono guaribili, farmaci e condizioni particolari di vita possono solo rallentarne la progressione – spiega il professor Manzato –. È noto che gli stimoli sensoriali provenienti da una normale vita sociale rallentano il decadimento cognitivo, ma nel caso dello studio riportato sembra essere proprio la religiosità interiore quella in grado di rallentare la perdita cognitiva. Non si tratta quindi di una ritualità cui si associano determinati comportamenti sociali, bensì di una vera e propria tendenza a 'credere' in una entità spirituale». Il motivo di questa incidenza?
Sarà oggetto di un nuovo studio medico e scientifico. In clinica, infatti, si sono tentate le più diverse spiegazioni: dall’atteggiamento psicologico alla risposta degli ormoni, passando per i risvolti immunitari. «Vogliamo vederci chiaro, anche da questo punto di vista – prosegue il direttore della clinica geriatrica. Non dimentichiamo - prosegue il professor Manzato – che queste
persone hanno bisogno di familiari, infermieri o badanti che le assistano quotidianamente, e il nostro studio dimostra come questi caregivers siano sottoposti a uno stress minore quando l’ammalato sia un credente».
Conclude Manzato: «Certo, di Alzheimer non si guarisce, non allo stato attuale delle conoscenze, ma questo apre nuove possibilità per capire come influire in modo benefico sull’inesorabile decorso della demenza».

Una ricerca scientifica mostra che la religiosità rallenta la perdita cognitiva tra i malati
Analizzati 64 pazienti che sono stati suddivisi in due gruppi, in base al diverso atteggiamento verso il soprannaturale




Avvenire 27 gennaio 2010