Il Corriere del 13 gennaio dedica un’intera
pagina a una indagine choc. Il titolo e
i sottotitoli sono sufficienti a gelare il sangue:
“Milano, i single sorpassano le famiglie.
Sono il 50,6 per cento. In crescita anche
nel resto d’Italia. L’identikit: giovani,
divorziati, anziani che restano soli”. L’articolo
spiega che il fenomeno è in costante
aumento: è la bellezza dei tempi, del progresso,
immancabile, vincente, trionfante.
La libertà si espande, i “diritti civili”
trionfano. Questo sarà forse il giudizio di
chi, dinanzi ai fatti, non riesce a rivedere i
pregiudizi; di chi antepone l’ideologia alla
realtà. Personalmente il risultato di questa
indagine mi ha enormemente rattristato
e sconfortato. Non sono riuscito, entrando
in classe dopo averla letta, a non parlarne
coi ragazzi: “Ragazzi, a me non piace
fare il sociologo e parlare spesso d’attualità…
però oggi bisogna fare un’eccezione.
Invece che storia dell’Ottocento, facciamo
storia di oggi”. Allora ho letto le prime righe
dell’articolo, chiedendo ai ragazzi il
loro parere. “E’ triste”, ha detto subito una
ragazza, una di quelle che conserva ancora
qualche sogno, qualche speranza. Aveva
il volto sconsolato. Non ci si vuole impegnare,
ha aggiunto un altro ragazzo. Sì, è
vero, ho risposto, ma perché, ragazzi, perché
oggi non si è più capaci di stare con altre
persone, di condividere la propria vita,
di intessere relazioni vere, fedeli, durature?
Ho risposto io, perché mi sembrava
che mi chiedessero questo: “Tutti questi
single sono povere persone tristi, sole, nutrite
dalle illusioni della cultura senza Cristo,
cioè senza sacrificio, senza amore, senza
gratuità, senza senso di colpa, senza
perdono. Cercano la strada facile, magari
non per colpa loro, ma perché gli è stato
insegnato così. Nessuno li ha educati a dirsi
di no; nessuno, neppure il loro parroco,
li ha educati a confessarsi, a riconoscere
la propria debolezza, a cercare in Dio forza,
coraggio, speranza, capacità di rialzarsi,
medicina alla propria debolezza. Intraprendono
una relazione con la superficialità
di chi ascolta tutti i giorni le canzonette
della musica leggera; di chi guarda le
telenovelas; di chi vive di romanticismo
mellifluo e sentimentale. Così magari partono
in quinta, con il motore a pieni giri,
bruciano le tappe, trasportati dal sentimento,
liberi dai vecchi vincoli del fidanzamento
pensato e vissuto in un certo modo:
ma poi, alla prima salita, quando bisogna
scalare le marce, dalla quinta alla
quarta, alla terza, alla seconda, e quando
poi si deve ripartire, piano piano, non ce
la fanno, non hanno marce interiori per
farlo. La virilità dell’amore, ragazzi, è
un’altra cosa: amare significa sapersi controllare,
temperare, sapersi umiliare dinanzi
al proprio coniuge, saper chiedergli
perdono, saper controllare la propria ira,
la propria istintività, almeno provarci. Oggi
invece siamo educati a divenire schiavi
dei nostri sentimenti, schiavi delle nostre
debolezze, e del nostro egoismo. Va’ dove
ti porta il cuore, dicono tutti: e quando il
cuore ha qualche sobbalzo, ci facciamo
gettare a destra e a sinistra, salvo poi trovarci
con un pugno di mosche. La vita, diceva
Chesterton, ‘è la più bella delle avventure,
ma solo l’avventuriero lo scopre’:
questo significa che non bisogna avere
paura di vivere la relazione, di mettersi in
gioco, di mettere in discussione se stessi, il
proprio carattere, i propri difetti. Amare
significa stare nella realtà, con la sua bellezza,
con le sue difficoltà, come l’avventuriero
che non si ferma dinanzi al primo
ostacolo, che non pretende di raggiungere
la cima della montagna attraverso una
strada pianeggiante, che sa che le cose più
belle si raggiungono e si mantengono con
l’impegno, la fatica. Una fatica santificante,
che edifica, che costruisce, che dà gioia.
E poi, ragazzi, c’è la paura che genera paura:
il numero altissimo di divorzi produce
generazioni di giovani che hanno paura,
che non vogliono più scommettere sulla
realtà, che patiscono sulla loro carne la disillusione
provata nella famiglia di origine.
Divorzio genera divorzio, e coloro che
lo vivono come vittime, i figli, divengono
spesso feriti che hanno paura di qualsiasi
battaglia, che temono, non senza ragioni,
di investire, di sperare. Abbiamo creato
una società di persone sole, paurose, tristi.
Lasciatemi fare il laudator temporis acti,
il vecchio brontolone. Una volta non era
così. Una volta non si parlava tanto di ‘diritti
civili’ ma si sapeva stare più assieme,
si viveva molto meglio. Era più difficile nascere
soli, vivere soli e morire soli”.
Francesco Agnoli