DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

PICCOLE E GIUSTE. Così un gruppo di ragazzine svizzere rimproverò per lettera il Consiglio federale che respingeva gli ebrei in fuga.

di Anna Bravo
Egregi Signori Consiglieri Federali,
non possiamo fare a meno di
dirvi che noi alunne siamo profondamente
indignate che i profughi vengano
ricacciati così spietatamente verso
una sorte tragica. Si è forse dimenticato
completamente che Gesù ha detto:
‘Ciò che avete fatto al più piccolo
tra voi, lo avete fatto a me’. Non ci saremmo
mai immaginate che la Svizzera,
l’isola di pace che pretende d’essere
misericordiosa, avrebbe ributtato
come bestie oltre la frontiera questi
miseri esseri infreddoliti e tremanti.
Non succederà anche a noi quanto è
accaduto al ricco che ha ignorato il
povero Lazzaro? A cosa ci servirà poter
dire: Sì, nell’ultima guerra la Svizzera
si è comportata bene, se poi non
avremo nulla da mostrare di buono
che la Svizzera abbia fatto in questa
guerra, in particolare per gli emigranti?
(…) Quando ci è stato chiesto di
raccogliere contributi siamo state
pronte a farlo per la nostra Patria (…).
Per questo ci permettiamo di pregarvi
di accogliere questi poverissimi
senza patria. Vi salutiamo con stima e
con sentimento patriottico”.
Seguono le firme.
Il Consiglio federale è il governo
centrale svizzero. Gli esseri scacciati
come bestie sono gli ebrei che tentano
di entrare nel paese, le autrici di
questa lettera venti alunne quattordicenni
della II C della Sekundarschule
di Rorschach, una cittadina del
Cantone Sangallo. La data è il 7 settembre
1942, in piena fase di chiusura
dei confini. E’ il primo atto di una
storia imprevista, dove si avvicendano
ministri, poliziotti, insegnanti, autorità
scolastiche, genitori. La racconta
un bellissimo libro in uscita, ricco
di dati e fatti nuovi (Silvana Calvo, “A
un passo dalla salvezza. La politica
svizzera di respingimento degli ebrei
durante le persecuzioni 1933-1945”,
Zamorani), in cui si guarda alle istituzioni
e ai cittadini attraverso la lente
delle normative e dei comportamenti
verso gli ebrei.
Nell’Europa di quegli anni la Svizzera
non rifulge. Certo, è un paese accerchiato
da regimi totalitari o collaborazionisti,
vive di banche, valuta
pregiata, esportazioni, e non può permettersi
di rompere i suoi canali di
commercio e scambio. Non ha un
esercito imponente, e il Terzo Reich
potrebbe invaderla in pochi giorni –
Belgio e Olanda hanno mostrato che
dichiararsi neutrali è una ben povera
difesa. Tutto vero: la Svizzera è un bilico,
può far conto solo su se stessa,
non dispone di risorse infinite. Deve
adattarsi.
L’altra faccia è che si tratta di un
paese dove le istituzioni funzionano,
nessuno fa la fame, si possono trovare
beni di consumo, sigarette, farmaci,
oggetti che altrove sono un ricordo.
Un paese che ha una milizia popolare
addestrata, un sistema di fortificazione
alpina, un popolo con forti sentimenti
patriottici. E una lunga tradizione
di accoglienza agli esuli politici.
Ma non agli ebrei, che premono
dai confini austriaco, tedesco, poi
francese e italiano, e che – sostiene
un documento ufficiale – non sono in
alcun modo assimilabili ai politici,
per i quali la porta è, se non aperta,
socchiusa. Vanno ributtati indietro al
luogo di provenienza, a volte sono letteralmente
passati di mano, da gendarme
svizzero a gendarme tedesco, a
milite di Salò, a poliziotto italiano o
francese. Come agli altri stati europei,
alla Svizzera la sorte degli ebrei
non importa affatto. Storia nota.
Sola, meravigliosa eccezione è la
Danimarca occupata, dove nell’ottobre
1943, appena si viene a sapere
che i tedeschi stanno preparando deportazioni
di massa, scatta l’azione
congiunta delle istituzioni e dei cittadini,
che riescono a traghettare nella
sicura Svezia più del 90 per cento dei
7.695 ebrei danesi, e tedeschi rifugiati
– che fatica trattenersi dal raccontare
la vicenda per intero! Hannah
Arendt scriverà che l’esempio della
Danimarca, unico stato insignito come
tale del titolo di “Giusto tra le nazioni”,
avrebbe dovuto essere proposto
agli studenti di scienze politiche,
per far capire a quali risultati può
arrivare una lotta non violenta, sorretta
da una buona coesione sociale,
dal riconoscimento popolare nelle
istituzioni. E dalla convinzione che
l’uguaglianza non è un principio negoziabile.
In Svizzera finisce invece per esserlo,
se non in linea teorica, nei fatti.
Per una terra d’asilo, è una scelta
stridente, che il governo cerca di far
passare con una campagna di organizzazione
del consenso. Si comincia da
quel caposaldo politico/simbolico che
consiste nel dare un nome alle persone
– per gli ebrei il termine ufficiale
è “emigranti”, non profughi o rifugiati,
che alludono al dovere di accoglienza.
Si continua insistendo sui pericoli
per l’ordine pubblico, sulla
scarsità di risorse, sull’assistenza gravosa,
sul sovraffollamento – ma secondo
i dati raccolti nell’Appendice del
volume, i “profughi civili” sono stati
51.219, di cui 21.304 “profughi ebrei” e
6.654 “emigranti ebrei”; e del loro sostentamento
si sono fatti carico i correligionari
svizzeri.
Si gioca anche la carta degli stereotipi,
e non importa se si contraddicono
a vicenda: gli ebrei sono troppo
legati fra loro, ma nello stesso
tempo straordinariamente abili nell’infiltrarsi.
Peseranno come parassiti
sui bilanci, o all’opposto faranno
carriera e denaro ai danni degli svizzeri
– allo sterotipo dell’ebreo avido
e astuto non si rinuncia neppure in
situazione estrema. Ma il successo è
parziale.
Nonostante le limitazioni introdotte
con la guerra, la Svizzera resta un
paese democratico, dove la stampa
ha buoni margini di libertà e le notizie
circolano. Con il risultato che ormai
si sa a quale destino vadano incontro
gli ebrei respinti; e che nascono
reti di aiuto composte di cittadini,
associazioni ebraiche e non, membri
delle istituzioni – poliziotti, diplomatici,
esponenti dei governi cantonali,
guardie di frontiera. Una piccola minoranza
periodicamente scardinata
dalla polizia, ma capace di salvare
delle vite.
A Rorschach, paese di confine, l’idea
della lettera matura quando le
alunne leggono su un giornale il racconto
di un respingimento particolarmente
brutale; in passato qualcuna
ha assistito a scene simili. Decidono
in fretta, scrivono sentendosi doppiamente
nel giusto. Perché amano la
Svizzera, e perché si richiamano a
una ragione che giudicano superiore
a quelle della politica: “E’ possibile
che voi abbiate ricevuto l’ordine di
non accogliere ebrei, ma questa è certamente
la volontà di Dio, e noi dobbiamo
ubbidire più a Lui che agli uomini”.
Il secondo atto è truce. Gli uomini
del Consiglio federale si scandalizzano,
si allarmano. Con ragione:
una parte dei cittadini sta aiutando
gli ebrei a entrare nel paese in violazione
della legge, altri lo sanno e tacciono.
Ora protestano persino i bambini;
peggio, le bambine. Brucia l’accenno
a ordini venuti dall’esterno,
che ricorda l’espulsione degli anarchici
a fine Ottocento: “Elvezia il tuo
governo schiavo d’altrui si rende”, dice
un verso di “Addio a Lugano”.
Il ministro per la Sicurezza interna
Eduard von Steiger, lo stesso uomo
che aveva coniato la metafora “la barca
è piena”, trasformò la lettera delle
ragazzine di Rorschach in un affare
di stato. Prepara una lunghissima risposta,
squadernando l’intera gamma
dei valori cristiani e civici – tranne il
dovere della solidarietà con i disperati.
La discute con i colleghi, decide
di non spedirla per non dare troppo
rilievo al caso, e di aprire invece
un’inchiesta a Rorschach per scovare
gli istigatori. Ci sono genitori aperti,
forse addirittura socialisti, saranno
loro. C’è un insegnante presunto antimilitarista,
sarà lui, e si progetta di
incriminarlo penalmente. L’ultimo
pensiero è che la ragazzine abbiano
fatto da sole. A conferma – rubo il titolo
a Simona Vinci – che dei bambini
non si sa niente. Vale in parte anche
per la Shoah. Nella letteratura e
nella storiografia c’è molto sui piccoli
prigionieri, quasi il vuoto sui piccoli
soccorritori. Che pure ci sono stati.
Bambini che accompagnavano gli
ebrei alla frontiera, che portavano
messaggi; che nei ghetti polacchi facevano
sopravvivere le famiglie con
piccoli furti e commerci. Bambini che
mentivano alle SS: “Qui non c’è nessuno”.
Alla fine si dovrà riconoscere che
gli istigatori non esistono. Interrogate
pesantemente, alcune ragazzine si
spaventano un po’, altre si scusano
per i termini più severi, ma non
“abiurano” affatto.
La storia viene messa a tacere: ma
dopo questa e altre lettere, il governo
deve ammorbidire per vari mesi la
sua politica – variare le disposizioni
per l’asilo a seconda del clima nazionale
è una costante. Come è una costante
il tentativo di evitare che i respingimenti
avvengano sotto gli occhi
della gente, a costo di lasciare che i
profughi penetrino per qualche chilometro
in territorio svizzero: per passare
dalla norma giuridica alla norma
etica, la spinta decisiva è spesso l’incontro
faccia a faccia con la sofferenza
dei perseguitati.
Decenni dopo, alcune ex ragazzine
rievocano la vicenda con una tranquillità
che sembra la versione adulta
della lucida freschezza di allora.
Sfido chiunque a non innamorarsi di
questa storia.
E un po’ anche dell’autrice, che
non è un’accademica o una giovane
studiosa in carriera, ma una signora
svizzera in pensione da un impiego
pubblico e con un grande amore per
la ricerca. Sebbene non l’abbia mai
vista, la immagino mentre raccoglie
bozze di lettere, lettere, verbali di interrogatori,
commenti della stampa,
dichiarazioni politiche; mentre segue
le tracce delle sovversive di Rorschach.
E mentre impara il mestiere nel
rapporto magistrale con il suo docente.
Che è Fabio Levi, autore di una
quantità di opere di storia degli
ebrei, e ora de “La persecuzione antiebraica.
Dal fascismo al dopoguerra”
(Zamorani, Torino). Una raccolta
di saggi che andrebbero recensiti
uno per uno, ma che nascono tutti dal
desiderio di riconsiderare le cristallizzazioni
più comuni fra gli storici (e
non solo).
Il primo bersaglio è l’identificazione
generalizzata e univoca degli
ebrei con il destino di vittime. Per
quanto esistano, scrive Levi, aspetti
di continuità fra la persecuzione del
1938 - ’45 e le norme discriminatorie
precedenti all’emancipazione, ci sono
state fasi e situazioni relativamente
propizie alla formazione di soggettività
diverse. Con l’affermazione dei
principi liberali, possono moltiplicarsi
i modi di essere e sentirsi ebrei:
osservanti, credenti, agnostici, patriottici
o meno, bendisposti oppure
ostili verso i matrimoni misti. E, non
diversamente dal resto degli italiani,
fascisti, antifascisti, politicamente indifferenti.
Persino nella condizione
di vittime assolute del ’38-’45, ci sono
reazioni e strategie di sopravvivenza
diverse, da chi tiene unita la famiglia
– quel che Bettelheim imputava ai
Frank – a chi sceglie di dividerla perché
da soli o in coppia è più facile
trovare rifugio. Anche se quasi sempre
ci si salva per caso, ogni vittima
ha una storia propria.
C’è poi, ed è ben radicata, una doppia
convinzione: che alla spietatezza
dei vertici abbia corrisposto una relativa
tolleranza delle amministrazioni
periferiche; che l’inefficienza delle
istituzioni abbia giocato a favore degli
ebrei. Visione ottimistica la prima,
pseudoromantica la seconda, che idoleggia
il disordine e che i fatti provvedono
a smentire: l’inefficienza poteva
giovare, così come poteva dare spazio
a ricatti, arbitri, inganni.
Un terzo snodo è la riflessione sulle
diverse letture del rapporto Italia/
Shoah. Il mito nazionale del buon
italiano oggi è moribondo, come è naturale,
visto che al tempo del fascismo
e della guerra erano moribondi
il senso della giustizia e dell’onore:
in Italia hanno vissuto opportunisti,
eroi veri, veri miserabili. Basti pensare
al funzionario che nel 1938 va a
scrutare le lapidi del cimitero ebraico
di Milano per scoprire le quote di
sangue “sbagliato” di un cittadino.
Ma dicono molto anche l’adesione
plebiscitaria dei professori universitari
(1237 su 1250) alla richiesta di
giurare fedeltà al regime, il silenzio
di fronte alle leggi razziste del ’38, la
tranquilla accettazione, salvo casi
isolatissimi, delle cattedre tolte ai titolari
ebrei – il tradimento dei chierici
ha una lunga storia. Del resto, la
stessa resistenza è poco sensibile alla
condizione degli ebrei – e parecchi
ebrei fanno la resistenza sentendosi
in primo luogo antifascisti.
Levi, che non è certo incline a demonizzare
gli italiani e ne valorizza
anzi l’opera di soccorso, mostra però
che a guerra finita il paese non sembra
molto interessato a farsi perdonare.
Dichiarandosi tutt’altra cosa dal
regime, la repubblica rigetta ogni responsabilità
per il passato e centellina
riassunzioni e risarcimenti, seguita
da banche, sindacati, organizzazioni
imprenditoriali. La restituzione dei
beni va a rilento, ai professori rientrati
si nega la vecchia cattedra.
A volte si dice che gli italiani amano
sentirsi buoni piuttosto che giusti.
Questo libro, argomentatissimo e a
tratti sorprendente, suggerisce anche
che la “bontà” dura poco e costa poco:
giusto il tempo e lo sforzo di esternare
quel profluvio di buoni sentimenti
verso le vittime, che all’indomani
della liberazione infastidiva
Giacomo Debenedetti, il primo a raccontare,
in “16 ottobre 1943”, il dolore
degli ebrei italiani.

Il Foglio 30 gennaio 2010