DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Visualizzazione post con etichetta Novecento. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Novecento. Mostra tutti i post

Morin, perché non capiamo il Novecento

Il XX secolo ci ha fornito a prezzo del sangue, del terrore e della morte una formidabile esperienza. Ma perché un’esperienza riesca a offrire una lezione, è necessario che dia luogo a una riflessione. L’esperienza chiave del secolo è quella di una reazione a catena, scatenata da una deflagrazione periferica, a Sarajevo, il 28 giugno 1914, che ha infiammato la guerra europea poi divenuta mondiale. Questa guerra ha fatto nascere il comunismo totalitario, il fascismo italiano, il nazismo che, emerso a sua volta da una crisi economica di una gravità senza precedenti, ha innescato la Seconda guerra mondiale, che ha dato luogo dapprima alla Guerra fredda e in seguito all’implosione dell’Unione Sovietica la quale, aggravando le prospettive future, ha suscitato il dilagare tumultuoso dei nazionalismi.

Gli enormi passi indietro del XX secolo hanno fatto nascere guerre, crisi, nazionalismi, socialismi che hanno generato il nuovo mostro storico del totalitarismo. Il XX secolo ha vissuto l’esperienza di una formidabile religione della salvezza terrena, disintegratasi nella e attraverso la propria realizzazione, palesando che la rivoluzione resuscitava una forma ancora peggiore di sfruttamento di quella che avrebbe preteso di distruggere. Il XX secolo è stato teatro di crisi gigantesche connesse le une alle altre: crisi economiche, crisi della democrazia, crisi dell’Europa.

Dovunque, sotto l’effetto delle crisi e delle guerre, la ricerca di un’altra via storica, o «terza via», è stata distrutta fin dalla sua fase nascente. Ora il pensiero politico, a destra come a sinistra, è ancora incapace di concepire una causalità inter-retroattiva che possa spiegare lo scatenamento reciproco delle reazioni a catena registrate nel XX secolo. Il pensiero politico resta incapace di cogliere al tempo stesso l’unità e la differenza fra i due totalitarismi. Il nazismo, defunto da più di cinquant’anni, non è ancora stato diagnosticato sul serio in profondità; il comunismo non è stato veramente pensato, né come sistema politico poliziesco, né come religione della salute terrena, né – al pari del nazismo – come esperienza antropologica che la dice lunga sull’uomo, sul suo bisogno di fede, sulle sue possibilità di accecamento, sulla sua attitudine a superarsi, a corrompersi e a rinnegare se stesso. Il XX secolo ci ha mostrato – e continua a mostrarci – che uno stesso essere umano può passare dallo stato più inoffensivo a uno stato di assoluto fanatismo, dalla tranquillità alla demenza, e che il secolo della scienza e della ragione operazionale è stato anche il secolo delle illusioni, delle incoscienze e dei deliri.

E, nella fase transitoria delle acque mitologiche che ristagnano oggi nell’Est europeo – mentre un po’ dovunque si risvegliano e si rivelano furori e deliri – chiamiamo realismo l’assenza di pensiero e non vediamo l’abbaglio dello schiacciante pensiero tecno-economico che guida le nostre politiche. Mentre si scatenano nel mondo turbolenze e regressioni di ogni genere, mentre siamo incapaci di percepire il nostro presente, accettiamo le diagnosi unidimensionali della fine della Storia e dello scontro di civiltà. Coloro i quali non vedono la storia di questo secolo che in termini economici e industriali, non si accorgono che la volontà di nazione obbedisce anche – e talvolta principalmente – a bisogni mitologici, religiosi, comunitari che vanno al di là della volontà di industrializzazione. Dimenticano le passioni umane, le follie collettive della nostra Storia.
Edgar Morin

© Copyright Avvenire 19 settembre 2010

Il teologo Cottier contesta Fackenheim e sostiene che Dio non resterà muto

di George Cottier
Non mi riferisco direttamente all’opera
di Fackenheim ma alla
presentazione che ne dà Riccardo De
Benedetti.
Una prima difficoltà è capire il significato
di ontologico applicato all’evento
della Shoah. Probabilmente
vuol esprimere non soltanto l’unicità
della Shoah ma la sua funzione di
principio strutturante la storia, di
punto di riferimento per tutti gli altri
avvenimenti. Ne riceve una posizione
trascendente.
E’ probabile che l’affermazione abbia
anche il senso di denuncia critica
delle grandi filosofie razionaliste, come
quella di Hegel, che relativizzano
l’evento, e specialmente l’evento carico
di male, facendone un momento
dello sviluppo della storia come processo
razionale e necessario. Tale critica,
se questo è il caso, era già stata
formulata da Kierkegaard. Davanti alla
mostruosità della Shoah, le spiegazioni
razionalistiche sono totalmente
inadeguate e derisorie.
Infine, positivamente, l’aggettivo
ontologico vorrebbe sottolineare che
si tratta, con la Shoah, di un male assoluto,
faccendone una specie di entità.
Ma così si profila all’orizzonte
l’ombra dell’antico dualismo. Infatti,
la Shoah ci mette a fronte di una dimensione
abissale del male. Spontaneamente
si pensa all’interrogazione
piena di ansia di Giobbe, la quale
sfocia su un atto di speranza eroico.
Ma tale non è la via scelta da
Fackenheim.
Il pensiero di Fackenheim è un’espressione
di spicco della “religione
della Shoah” così chiamata e analizzata
da Alain Besançon. La tragedia
della Shoah che ha colpito il popolo
ebraico e che ha ferito in maniera incancellabile
la sua memoria, è unica,
a tal punto che il paragone con altre
tragedie è rigettato come una blasfemia.
“Nell’abisso che si spalanca
manca Dio”: non si tratta di un silenzio
temporaneo, ma di un fatto dato
come irreversibile. Per i cristiani come
per gli ebrei fedeli alla religione
dei loro padri, la Shoah è unica, perché
il popolo che colpisce è il popolo
eletto da Dio. In questo senso, il crimine
contro questo popolo è simultaneamente
un crimine contro il Dio
dell’Alleanza. La “religione della
Shoah” fa dell’esperienza del silenzio
di Dio vissuta da tante vittime innocenti
una categoria metafisica. La
relazione a Dio diviene estranea alla
definizione dell’unicità dell’evento.
Rimane soltanto “la fedeltà a se stesso
del popolo ebraico”.
Davanti a questa secolarizzazione
radicale, non possiamo non porre la
domanda patetica: qual è il fondamento
di questa fedeltà, se non c’è
più la fedeltà di e al Dio dell’Alleanza?
E’ necessario a questo punto ricordare
da quale ideologia i persecutori
e gli assassini del popolo ebraico
hanno tratto la loro ispirazione. Il dio
del nazismo, immanente alla natura e
alle sue forze irrazionali, è un dio pagano,
un idolo, che non poteva non
combattere il Dio della rivelazione.
Dalle profondità tenebrose della natura
divinizzata e delle sue energie
biologiche, proviene la divisione dell’umanità
in razza superiore e razze
inferiori, schiavi o razze non degne di
sopravvivere. L’affermazione della
razza superiore, grazie alla forza, della
sua superiorità, equivale ad una
elezione. La razza superiore è la razza
eletta. La guerra di conquista è per
lei un diritto, diritto di essere fedele
a questa elezione. L’eliminazione del
popolo dell’Alleanza considerato come
un concorrente, è un corollario di
questa mostruosa pazzia. Così l’ideologia
nazista rappresenta una parodia
satanica dell’elezione divina del popolo
ebraico.
Pio XI, dichiarando che noi cristiani
siamo spiritualmente dei semiti e
pubblicando l’enciclica “Mit brennender
Sorge” (redatta dal futuro Pio
XII) aveva denunciato una impostura
che offendeva la santità di Dio stesso.
Che dei cristiani abbiano utilizzato
il simbolo della croce come se fosse
la giustificazione della persecuzione
degli ebrei è uno scandalo per la quale
la chiesa domanda perdono. Ma
per la fede cristiana la croce è lo strumento
che l’amore di Dio ha scelto
per la nostra redenzione. L’articolo
tocca un tema centrale, oggetto di un
malinteso dolorosissimo fra ebrei e
cristiani. Lo fa nella logica della “re-
ligione della Shoah”.
Se la Shoah, come l’interpreta
Fackenheim, è il centro della storia,
questo significa che si sostituisce a
Cristo. Ma come, se Dio ne è assente,
tale evento può avere un valore redentore?
O non c’è redenzione o la redenzione
diviene l’autoredenzione
dell’uomo, della quale Dio è stato
espulso. Siamo nella logica dell’umanesimo
ateo. Per Fackenheim, leggiamo,
“Hegel è il pensatore cristocentrico
per eccellenza”. Ma Hegel rappresenta
in realtà una gnosi cristologica,
nella quale la fede in Cristo non
può riconoscersi.
La redenzione è oggetto di fede.
Per i cristiani, il suo fondamento è la
persona stessa di Cristo, che per il
dono di sé ha offerto all’umanità la liberazione
dal peccato. L’opera della
nostra redenzione si sviluppa nel
tempo della storia, nella lotta spirituale
contro le forze del peccato, prima
nel nostro cuore ma anche nel
mondo. La vittoria definitiva sul male
non sarà data all’interno della storia
presente, ma al di là.
“Cristo è risorto dai morti primizia
di coloro che sono morti”, scrive Paolo
ai Corinzi (1 Corinzi 15, 20), precisando
che se la nostra speranza in
Cristo fosse soltanto per questa vita,
siamo da commiserare più di tutti gli
uomini. Non abbiamo quaggiù una
città stabile, ma siamo pellegrini in
cerca della città futura. Lassù tutto
sarà rivelato e vedremo come l’amore
di Dio ha sconfitto ogni male.
Il domenicano George Cottier
è cardinale, teologo emerito
della Casa pontificia

© Copyright Il Foglio 3 aprile 2010

Fackenheim vola nei cieli dell’ontologia, ma la storia non è finita con la Shoah. di Giorgio Israel

Tiqqun” di Fackenheim non è, come
qualcuno ha preteso, un libro
che sviluppa una “teologia dell’Olocausto”.
Come dice l’autore “non ci
può essere una disciplina di questo tipo”.
Ma c’è – egli aggiunge – “una teologia
che è sfidata dall’Olocausto e
che, evitando ogni tipo di fuga, salva la
propria integrità auto-esponendosi ad
esso”. La questione è delicata perché
una teologia ebraica nel senso stretto
del termine non esiste. Difatti, nell’ebraismo
gli eventi divini sono momenti
di un percorso interminato e
proiettato verso la fine dei tempi e
verso la redenzione messianica. Questo
percorso vive nella tensione continua
tra il sistema dei precetti, la cui
osservanza garantisce in modo quasi
automatico di restare entro i confini
di una vita irreprensibile, e l’ammonimento
profetico contro il rischio
dell’automatismo: la confusione tra
formalismo e morale. E’ una tensione
che riecheggia anche nel Talmud
quando, chiedendosi perché mai fu
distrutto il Secondo Tempio proprio
in un periodo in cui il popolo seguiva
in modo irreprensibile i precetti, si dice
che “Gerusalemme fu distrutta unicamente
perché vi si seguiva scrupolosamente
la legge della Torah”.
L’ebraismo ha tratto la sua forza
dall’operare continuo di questa tensione.
Se il Talmud ha enfatizzato il
primo termine le correnti mistiche e
messianiche hanno riproposto il messaggio
profetico, fino alla sua forma
più recente rappresentata da Teodoro
Herzl e dal sionismo. La Kabbalah
rappresenta ciò che più nell’ebraismo
è vicino alla teologia, sebbene si tratti
più che altro di teosofia e di esplorazione
delle forme della vita divina,
al fine di colmare l’abisso tra uomo e
Dio attraverso un percorso di avvicinamento
mistico.
Forse la Kabbalah più “teologica”
(ma sempre in un senso molto speciale)
è quella cui fa riferimento il titolo
del libro di Fackenheim: “Tiqqun”. E’
la Kabbalah cinquecentesca di Safed,
soprattutto quella di Isaac Luria. Gershom
Scholem ne ha approfondito le
motivazioni individuandole nel terribile
dramma che fu per l’ebraismo l’espulsione
dalla Spagna nel 1492.
Fackenheim, con molta superficialità,
considera questo dramma come un
evento di rilievo minore della Shoah.
Invece esso fu un cataclisma epocale.
Come osserva Scholem, ci volle un secolo
perché fosse assimilato, dando
poi luogo alla Kabbalah di Safed che,
a sua volta, ispirò una drammatica
speranza di redenzione che culminò in
un’esplosione vulcanica di messianismo
di cui fu principale esponente fu
il falso messia Sabbatai Zevì. Furono
eventi le cui ondate si propagarono fino
al Settecento.
La dottrina di Luria affrontò in modo
audacissimo il problema del male
identificandone addirittura l’emergere
in un “errore” cosmico avvenuto
nell’atto creativo del mondo. La creazione
del nulla era spiegata con un atto
di “autocontrazione” (tsimtsum) di
Dio, una sorta di “esilio” divino con
cui Egli fece posto a uno spazio finito
e vuoto in cui doveva propagarsi l’emanazione
generatrice del mondo.
Durante il processo emanativo i “vasi”
che trasmettevano la luce divina
non ne sostenennero la potenza e si
ruppero in frammenti, così che molte
scintille della luce divina si diffusero
in un’esplosione cosmica e restarono
imprigionate negli strati inferiori del
mondo del male. Il compito del popolo
ebraico è ricercare ovunque le
scintille divine per estrarle e farle
ascendere ai livelli superiori, in vista
di una riparazione universale (Tiqqun).
Trovano così senso sia il dramma
della “prigionia” del bene che l’esilio
del popolo ebraico condannato
alla dispersione per il compito di ricercare
i frammenti dispersi fino alla
redenzione finale.
Il Tiqqun è però un evento destinato
a compiersi alla fine della storia, in
coincidenza con l’avvento messianico,
da costruire giorno per giorno nella
pratica con cui l’ebreo riconosce i
suoi errori e i suoi peccati e ad ogni
istante ricomincia daccapo: la Teshuvah.
Quest’ultima è la riparazione a
misura d’uomo, Tiqqun è l’evento conclusivo,
che costituisce la riparazione
della vita divina, dell’errore avvenuto
nell’atto creativo.
Nel pensare il Tiqqun come atto di
riparazione del mondo dall’evento metastorico
rappresentato dalla Shoah,
Fackenheim rischia di proporre una
teologia apocalittica che già una volta
minacciò di dissoluzione un ebraismo
che, dopo essere stato colpito nel 1492
dalla dispersione e dalla distruzione
(tra roghi, conversioni forzate e marranismo),
era caduto nello smarrimento
provocato dal falso messianismo e dalla
conversione finale di Sabbatai all’islam.
In realtà, Fackenheim fa molto
di più: egli propone il Tiqqun nella
cornice di un’ontologia di un Olocausto
di cui dichiara l’assoluta unicità:
un evento la cui riparazione è necessaria
affinché il mondo possa riprendere
il suo cammino che si è arrestato
per l’enormità dell’accaduto ma che in
realtà sembra possa compiersi soltanto
all’interno dell’ebraismo.
Di fronte al librarsi di Fackenheim
nel cielo dell’ontologia, ci si vergogna
quasi di scendere sul triviale terreno
dello storiografia per contestare la tesi
dell’assoluta unicità della Shoah.
Ma, in fin dei conti, è proprio
Fackenheim ad avvalorare questa tesi
sul piano storico. Solo che lo fa con
pochi e scarni argomenti, dati come
ovvi. Le sue righe sbrigative sfigurano
dinanzi alla profondità con cui un
Vassili Grossmann ha esplorato il senso
del legame profondo tra Lager e
Gulag. Quindi, Fackenheim prende un
incerto volo verso l’ontologia, e intesse
un dialogo esclusivo proprio con
quella tradizione della filosofia la cui
pretesa di costituire una scienza assoluta
dell’essere è una radice dei mali
che hanno colpito la civiltà europea.
Viene da chiedersi perché mai
Fackenheim dialoghi in modo povero
e piattamente recriminatorio con Spinoza;
perché scelga qualsiasi interlocutore
filosofico salvo che Husserl, ovvero
colui che trovò la forza e la speranza,
anche negli ultimi anni quando
ebbe la Gestapo sotto casa, di proporre
una via d’uscita per salvare la vocazione
filosofica europea liberandola
dalle impasses dei grandi sistemi
ontologici. Viene da chiedersi perché
non dialoghi con un filosofo cristiano
così attento al tema della memoria come
Paul Ricoeur; e perché senta così
poca consonanza con le correnti dell’ermeneutica
(Lévinas incluso) e della
fenomenologia. E viene da rispondere
che egli si è chiuso da solo in una
sterile prigione pretendendo che le
aporie teologico-filosofiche suscitate
da Auschwitz siano un fatto inedito
nella storia storia, e ricercando il “Tiqqun
filosofico” (come lo chiama) nel
posto sbagliato.
Ontologizzando la Shoah
Fackenheim legittima la domanda di
De Benedetti se egli non stia proponendo
“un tentativo di sostituzione del
cristocentrismo”. Chi scrive non ha il
timore di De Benedetti di urtare suscettibilità
e ritiene che, sì, dal punto
di vista ebraico questa di Fackenheim
è un’“eresia” cristologica. Col tentativo
di fare della Shoah il sostituto di
Cristo (nello stile di un moderno sabbataismo)
e col presentare il Tiqqun
come un heideggeriano ritorno al “da”
del “Dasein” ebraico, Fackenheim
congeda l’ebraismo. Difatti, egli dice:
“Senza una tradizione recuperata non
c’è futuro per gli ebrei”. Tutto qui? A
questo si riduce il Tiqqun che dovrebbe
riparare il mondo? In effetti, si riduce
a questo perché il cataclisma ontologico
arrestando la storia imprigiona
anche l’ebraismo mutilandolo della
sua dimensione profetica che alla
storia appartiene irrevocabilmente.
Ma la storia non si lascia arrestare da
nessuna sentenza circa il carattere ontologicamente
inassimilabile e insuperabile
di un evento.


Giorgio Israel è docente di Storia
della matematica all’Università
La Sapienza di Roma
e studioso di problemi dell’ebraismo

© Copyright Il Foglio 3 aprile 2010

Teologia senza Croce. Fackenheim: il pensiero occidentale non ci ha strappato dalla fossa dell’Olocausto dove è mancato il Dio dei cristiani

di Riccardo De Benedetti
L’importanza di un libro si misura
sulle domande che pone, non per
le risposte che contiene. Molte di
quelle presenti nel libro di Emil L.
Fackenheim, “Tiqqun. Riparare il
mondo. I fondamenti del pensiero
ebraico dopo la Shoah”, sono laceranti
e da noi difficilmente ascoltabili.
Ora queste domande si possono leggere
grazie alla traduzione che ne fa
Martino Doni per le Edizioni Medusa
a ventotto anni dalla sua pubblicazione
negli Stati Uniti.
Tutto ruota sull’affermazione perentoria
e non aggirabile della dimensione
essenzialmente ontologica
della Shoah e sulla ricerca di quale
filosofia e teologia siano adeguate all’evento.
Costretto a occuparsi di ciò
che è accaduto agli ebrei, è la tesi
principale di Fackenheim, il pensiero
occidentale non è più in grado di
comprendere e interpretare il reale.
La Shoah, con l’enormità del suo accadere
e l’incancellabilità dell’orrore
che porta con sé, non può essere
dissolta in una delle tante totalità
concettuali che la filosofia ha prodotto
nel corso della sua storia. La filosofia
non solo ne è profondamente interrogata
ma, come voleva Adorno, è
ammutolita, paralizzata e cancellata.
I metafisici non ci hanno strappato
dalla fossa che si spalancava, urla
Fackenheim, in pagine di confronto
profondissimo con Spinoza e Rosenzweig
(la lettura della filosofia di
Heidegger è semplicemente drammatica).
Della Shoah può fare memoria, non
filosofia, solo chi l’ha subita, ritrovando
al fondo di questo racconto straziante
null’altro che la fedeltà a se
stesso del popolo ebraico. Nell’abisso
che si spalanca manca Dio. Cosa questo
comporti per tutti coloro che nel
ricordo di ciò che è accaduto ad altri
loro simili non possono far altro che
rivivere il proprio senso di colpa, è
però ancora da pensare. Come ripristinare
(tiqqun) la vita etica e morale
dell’occidente così brutalmente revocata
dall’ontologia distruttiva della
Shoah? Posto in questi termini ciò
che è accaduto nella Storia, prima e
dopo la Shoah, non può più avere una
misura sua propria. Che significato
potranno ormai avere le sofferenze
dei non ebrei se un evento storico è
strappato dalla sequenza degli altri
avvenimenti per assumere una funzione
che tutti li trascende?
Fackenheim è chiaro: solo gli
ebrei, tra le genti, hanno subito il tentativo,
per poco non realizzato, di essere
sterminati sulla base esclusiva
del loro essere. Solo a loro, infatti, è
stato imputato il crimine di esistere.
La scelta di ontologizzare la Shoah,
può essere letta come un’opposizione
preventiva ai tentativi di relativizzare
la Shoah e minimizzarla sul piano storico,
ma la strategia perseguita da
Fackenheim non è affatto priva di
conseguenze più ampie. Alcune di
queste si osservano abbastanza chiaramente
nella diversità di trattamento
che la memoria collettiva riserva
alle vittime di altri eventi storici, carichi
anch’essi di violenza e sadismo.
Al semplice ricordare i milioni di
morti dei socialismi reali si sono alzate
grida contro l’illegittimo “furore
comparativista”. Su Hiroshima, altro
esempio, dopo le grandi riflessioni di
Karl Jaspers e di Günther Anders
(scompare dai ricordi il suo “Essere o
non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki”),
è difficile ormai leggere
qualcosa di significativo. Dopo di che
si può pur convenire che la valutazione
storica è una cosa e il giudizio onto-
teologico è un altro, ma lo scarto
aperto dal trattamento che la sofferenza
dell’uomo riceve da questo modo
di impostare le cose rimane.
Cosa ci resta da fare e da capire
nella e della Storia una volta che l’abbiamo
ripiegata sulla Shoah? Possiamo,
che so, considerare le sofferenze
del Gulag come un pallido anticipo o
un altrettanto anemico seguito di ciò
che è accaduto agli ebrei? O un avvicinarsi
asintotico e quindi infinito della
condizione umana a quella delle vittime
della Shoah? O possiamo considerare
gli ebrei come il simbolo più perfetto
della condizione universalmente
tragica dell’uomo, e possiamo guardarli
come un vertice inarrivabile di
dolore e disperazione? E, anche in
questo caso, dovremmo ancora interrogarci
sul senso di questo “primato”,
per altro né voluto né cercato.
Ma Fackenheim procede oltre, va
diretto verso la teologia. Rifiuta qualsiasi
interpretazione espiatoria della
Shoah: gli ebrei non dovevano espiare
nulla e di nulla dovevano rispondere
se non della propria esistenza
come comunità di fedeli al Dio unico
con il quale hanno stretto un patto,
qualche volta disatteso, ma sempre riconfermato
e tenacemente difeso.
Credere quindi che la Croce cristiana
possa raccogliere e conservare il senso
di ciò che è accaduto è pura bestemmia,
se è vero che la presenza di
Dio la si riconosce nelle domande che
lascia senza risposta. E nella Shoah il
tacere di Dio è assoluto (Wiesel). Vero
anche che lo stesso Cristo agonizzante
in croce non ottiene risposta alcuna
dal Padre che invoca nel momento
dell’abbandono, e pur non producendo
alcuna consolazione pochi lo hanno
ricordato agli ebrei. A causa della
presenza-assenza di Dio dopo Auschwitz
è la vita dell’ebreo, non la sua
morte, ad essere sacra, dice
Fackenheim (è lo stato di Israele ora
a vigilare su questa vita). La conseguenza
è che la Shoah rimane evento
impossibile da redimere, e quindi radicale
e infinita inquietudine per il
pensare cristiano. Con tutta la delicatezza
con la quale si potrebbe avvicinare
la Croce ad Auschwitz il gesto
ormai non può essere accettato. Di
fronte a questo rifiuto resta solo lo
spazio della riflessione, dal momento
che il rifiuto della Croce interroga il
cristiano alla radice della sua fede. Il
fatto è che la Shoah si presenta agli
ebrei come la tragedia assoluta di
una salvezza mancata, dopo due millenni
di sofferenze ed esilio imputate
al cristianesimo.
Per la teologia ebraica della
Shoah non c’è alcuna corrispondenza
possibile tra la morte di Cristo e
quella degli ebrei. Anzi, da questo
lato la morte di un ebreo come Cristo
contro i milioni di ebrei innocenti
sterminati non recupera alcun significato
utile ad alleggerire il discorso
sulla colpa del cristianesimo. Di più,
è impensabile che qualcuno possa
concepire per gli ebrei un qualche
ruolo, fors’anche vicario, in un qualsiasi
dramma salvifico. Il sospetto
che la salvezza in Cristo e da Cristo
abbia potuto mettere in conto l’estinzione
del popolo eletto si aggiunge
come ulteriore motivo di angoscia.
Per larga parte dell’ebraismo post-
Shoah la cristologia ha uno stretto
rapporto con le persecuzioni che gli
ebrei hanno subito nel nome di Cristo.
Le attuali difficoltà che si registrano
nel dialogo ebraico-cristiano
sono comprese tutte all’interno di
questo rifiuto della Croce.
Sono ancora poche le idee teologiche
in grado di cogliere la dimensione
radicalmente critica che il libro di
Fackenheim ha fatto e fa emergere.
Se Cristo non è più in grado di riorientare
la Storia, anzi, se la sua stessa
Croce è motivo di rifiuto per coloro
che hanno provato e subito l’orrore,
su cosa si possono confrontare
ebrei e cristiani?
Mi chiedo, spero senza urtare la
sensibilità di alcuno, se non si possa
leggere nella teologia di
Fackenheim, un tentativo di sostituzione
del cristocentrismo. Dopo Cristo
è la Shoah a dover ricentrare la
Storia, lo fa in quanto evento inaudito
oltre il quale non c’è più nulla che
si possa intendere alla vecchia maniera
hegeliana dei superamenti progressivi
(per Fackenheim Hegel è il
pensatore cristocentrico per eccellenza).
La Shoah compresa come
evento insuperabile conduce direttamente
alla revoca di ciò che è essenziale
per i cristiani, vale a dire il ruolo
salvifico del Cristo. “Tiqqun” lo
mostra con una chiarezza alla quale
dovremmo riservare gratitudine.
E’ il nazismo ad aver spinto il cristianesimo
nella scomoda condizione
di dover continuamente ammettere
reticenze e colpe su fatti e testi, prassi
e convinzioni delle sue chiese e
della sua dottrina. Si può dire quasi
che ormai viva sotto l’ingiunzione di
emendare la propria colpa, in un processo
pressoché infinito, imparando
da questa sua pena a praticare lo
spazio residuale che resta alla fede.
Fackenheim è netto: “Accettando, se
non addirittura tollerando tacitamente,
la loro designazione di ‘ariani’,
i cristiani, pur non intenzionalmente,
finirono con l’abbandonare i
‘non ariani’ alla loro sorte. Si resta
profondamente turbati dall’insidiosità
di questo attacco nazista al cristianesimo,
forse il più profondo dei
molti, e non resta che rimpiangere
quel kairos che fu mancato. Come
possono i cristiani del dopo Olocausto
affrontare questo trauma?”.
Fackenheim riconosce che il nazismo
muove alla distruzione anche
del cristianesimo, non solo degli
ebrei, ma la debolezza che imputa ai
cristiani è di quelle da cui non ci si
riprende facilmente. Che significa,
infatti, per i cristiani accettare una
caratterizzazione razziale se non l’abiura
più radicale dell’essere della
propria fede?
Ma prima di poter superare
un trauma occorrerebbe riconoscerlo
e i cristiani questo, dice
Fackenheim, ancora non l’hanno fatto.
Sono, infatti, ancora sostenitori di
una teologia inadeguata, addirittura
impraticabile dopo la Shoah, perché
convinta che l’immane sofferenza patita
dagli ebrei possa ancora partecipare
di quella del Cristo, l’unica in
grado di operare la redenzione del
mondo. Anche in questo caso la franchezza
di Fackenheim è esemplare:
se l’uomo generico partecipando delle
sofferenze del Cristo le completa
facilitando la sua opera di redenzione,
lo stesso non può dirsi di una sofferenza
non scelta ma imposta e somministrata
da una potenza terrena nutrita
di un odio totalizzante ed esauribile
solo con la definitiva estinzione
del suo oggetto.
L’impossibilità di guarire il mondo
dopo quello che è successo obbliga i
cristiani a uscire dall’equivoco secondo
il quale basti chinarsi sulla tragedia
degli ebrei credendo che essa
in un modo o nell’altro abbia risparmiato
i cristiani. Non è vero, la Shoah
ha coinvolto i cristiani, sebbene a subire
il tentativo di sterminio siano
stati gli ebrei.
Dopo la Shoah non c’è modo di cogliere
nella Storia una qualche ripartizione
coerente e bilanciata delle responsabilità,
nello stile di una trimestrale
aziendale. L’unico modo di farlo
è quello, vetero-hegeliano, di ricomprendere
gli accidenti della Storia
all’interno del suo movimento. Ma
Fackenheim ci dice, con Jean Améry,
che la Shoah è un evento non più superabile.
Come la mettiamo?
La Shoah non è unica a motivo delle
sue dimensioni,
lo è nella sua metastoricità.
E’ un
evento che si verifica
nella Storia e
nello stesso tempo
in grado di trascenderla.
Il negazionismo
religioso, alla
Williamson, che
noi tutti riteniamo
inaccettabile, forse
ancor più di quello
storico, segnala
però che costoro
hanno percepito
meglio di altri la
posta in gioco, e per non capitolare
del tutto negano il presupposto evenemenziale,
cioè dicono che non è andata
come è andata. Se riconoscessero
che la Shoah si è verificata nelle
modalità descritte dai testimoni dovrebbero
accettare le conclusioni che
l’ebraismo ne trae in ordine non tanto
alla sola responsabilità storica del cristianesimo
ma anche nei riguardi della
sua insostenibile soteriologia. Il
Cristo non salva alcunché, questa la
confutazione pratica del cristianesimo
che il nazismo ha introdotto nella Storia
e che l’ebraismo non manca mai di
ricordare ai cristiani. Eppure entrambi
sanno che è solo da questo nodo
che potranno avviare tiqqun e teshuvah,
intesi rispettivamente come riparazione
e pensiero
della conversione.
Ma senza questa
preliminare chiarezza
il dialogo
ebraico-cristiano
continua a incespicare
su elementi in
fondo inessenziali,
senza prospettiva,
esposto ai venti di
ricostruzioni storiche
più o meno
plausibili, come è
il caso di Pio XII.
In effetti, il silenzio
che si rimprovera a
quel Papa non è solo un atto mancato,
come ha detto il presidente della comunità
ebraica romana Riccardo Pacifici
a Benedetto XVI, perché per i
cristiani l’efficacia dell’azione redentiva
nella Storia era in qualche modo
preservata da coloro che, da cristiani,
si adoperavano per la salvezza degli
ebrei. Questi cristiani non avevano bisogno
che il Papa parlasse per agire
come hanno agito. Ma è proprio que-
sto che la teologia della Shoah di
Fackenheim rimprovera ai cristiani:
di aver creduto ancora possibile una
qualche redenzione dopo un orrore
così indicibile. “Ad Auschwitz i neonati
venivano gettati nelle fiamme ancora
vivi. Le loro grida si potevano
udire in tutto il campo. Trovare una
redenzione nella sofferenza di questi
bambini, o di coloro che udivano quelle
grida, è un’impossibilità umana e, si
spera, anche divina”. Ma se è così quale
significato possiamo dare all’agire
di chi ha cercato di salvare anche uno
solo di questi bambini? Non è forse il
segnale di una redenzione possibile,
la cui economia è ancora tutta da comprendere,
per quanto non dovrebbe
poi essere così lontana da quell’economia
della salvezza prima rifiutata?
O è solo il rovescio, altrettanto insensato
e ininfluente, delle atrocità commesse
ad Auschwitz? Ma chi può assumersi
l’onere terribile di rendere
insensata la pietà?
La fede nella redenzione cristiana
dovrebbe essere così profondamente
scossa dalla Shoah da non potersi più
esercitare e pensare, ma perché più
di un cristiano, anche se “troppo pochi”
come disse Giovanni Paolo II a
Berlino nel 1996, si impegnò a salvare
gli ebrei? Lo fece contro il suo
stesso credo? O forse continuando ad
essere un cristiano era già quasi un
bravo ebreo?

Riccardo De Benedetti
è giornalista e saggista,
si occupa di filosofia

© Copyright Il Foglio 3 aprile 2010

Ogni giorno Stalin metteva in scena un allegro terrore

Parate, cinema, fotografia: ecco come la Russia comunista "allestì" un Paese felice e perfetto. Nonostante gulag e orrori
di di Ugo Finetti
Tratto da Il Giornale del 16 febbraio 2010

Stalin sorridente che tiene in braccio una bambina vestita alla marinara è un’icona che dal 1936 innondò l’intera Unione Sovietica ed il mondo comunista attraverso giornali, cartoline, manifesti, sculture, manuali e persino caramelle. La «fortunata» era Gelja Markizova, figlia di Ardan Angadykovitch Markizov, commissario del popolo all’Agricoltura della Repubblica socialista sovietica autonoma Mongolo-Buriata che nella fotografia pubblicata sulla Pravda il 30 gennaio 1936 appare felice insieme a loro. L’immagine era stata realizzata dal fotografo ufficiale del Cremlino, Michail Kalashnikov, pochi giorni prima, il 26 gennaio, quando Stalin aveva ricevuto i delegati mongolo-buriati e la piccola Gelja aveva consegnato al dittatore comunista un mazzo di fiori appena dopo che il padre era stato decorato con la medaglia dell’Ordine del Lavoro «Bandiera Rossa». Stalin, raccontarono le cronache, aveva regalato in quell’occasione a Gelja un giradischi e un orologio d’oro.

Ma la fotografia ripubblicata pochi mesi dopo, il primo maggio, sulla Izvestija in occasione della ricorrenza della Festa dei lavoratori celebrata appunto nel segno del «piccolo padre» risulta «ritoccata»: Stalin e la bambina sono soli ed anche nei successivi sfruttamenti propagandistici il volto del padre si è trasformato in un’ombra scura. Perché? In effetti egli era scomparso e la piccola Gelja che aveva sei anni nel frattempo era diventata un’orfana: il padre era stato fucilato come «nemico del popolo» e la madre, deportata in un gulag del Turkestan, risultava suicida per avvelenamento. Ma il faccino di Gelja continuava ad essere il simbolo della felicità nel «mondo perfetto» della Russia comunista nelle mani di Stalin.

È uno degli esempi dello stretto rapporto tra allegria e terrore nel regime comunista rievocati nel libro di Gian Piero Piretto Gli occhi di Stalin (Raffaello Cortina Editore, pagg. 248, euro 22) dedicato alla «cultura visuale» sovietica sotto il successore di Lenin. «Vivere - aveva sentenziato lo stesso Stalin nel 1935 - è diventato più bello, compagni, vivere è diventato più allegro». L’immagine di una comunità solidale e felice coincide con l’inizio, proprio nel gennaio 1936, del «Grande terrore», la catena dei maxiprocessi contro i «nemici del popolo» a cominciare da alti dirigenti che insieme a Lenin avevano fondato il Pcus. La psicosi dell’Urss accerchiata da paesi capitalisti ed insidiata dall’interno da spie e traditori si traduce nell’immagine di una società giusta che va difesa - ovvero controllata - dall’alto e dal centro. Lo sguardo di Stalin sovrasta tutti e tutto e accentra l’intera popolazione.

Il totalitarismo sovietico ha un volto diverso da quello nazista proprio da come è impersonata la leadership. Tanto Hitler procedeva in crescendo fino alle urla in discorsi lunghissimi, tanto Stalin era composto e quasi laconico; tanto Hitler sfrecciava da un posto all’altro, tanto Stalin appariva sempre immobile - in piedi o seduto - e quasi sempre nello stesso luogo centrale secondo una sorta di «zoom» a tre stadi: la Piazza Rossa, il Cremlino, l’ufficio-tana personale. In sostanza: tanto Hitler rappresentava la sfida forsennata dell’individualismo e della personale forza di volontà, tanto Stalin si atteggiava ad espressione dell’incedere scontato - oggettivo ed inesorabile - della Storia.

La marmorea «tranquillità» fino alla staticità emerge quindi come categoria centrale della rappresentazione della figura di Stalin che viene eseguita da storici, registi, romanzieri, teatranti e illustratori. E a leader «tranquillo» che nulla concede alla improvvisazione individuale - sicuro della giustezza delle proprie tesi e della ineluttabilità della vittoria finale - si atteggeranno sempre i suoi successori a Mosca e i suoi imitatori alla guida dei vari partiti comunisti al potere o all’opposizione anche dopo la «destalinizzazione». Il senso di «superiorità» ancor oggi presente in certa sinistra risale appunto a questa «tranquillità» stalinista che si autorappresentava come il Bene ed il Futuro. Da un lato l’anticomunista ridicolo-corrotto-fascista e dall’altro il comunista serio-ascetico-antifascista è il cartone animato inventato negli anni Venti dal Komintern e che surrealisti, espressionisti e neorealisti insieme a comici, magistrati e giornalisti «impegnati» hanno continuato a disegnare nei decenni successivi.

La «cultura visuale stalinista» si estese infatti ben al di là della frontiera sovietica e poi della «cortina di ferro» permeando non poca parte della intellettualità anche occidentale. «Il vero stalinismo - ha osservato Vittorio Strada - non fu un fenomeno sovietico (nell’Urss non essere stalinisti era, in tutti i sensi, impossibile), ma europeo, dato che nell’Europa occidentale, almeno dopo la seconda guerra mondiale, tentare qualcosa di diverso non era impossibile». E Victor Zaslavsky lamentava che in particolare in Italia la storiografia abbia «ignorato lo stalinismo “di ritorno” ossia l’influenza conservatrice esercitata dalla sinistra europea sulla dirigenza sovietica». Gli aspetti crudeli e illiberali della società sovietica erano infatti noti e denunciati sin dagli anni Venti. Eppure da Togliatti a Berlinguer si è insistito in modo marmoreo sulla «superiorità» dei regimi comunisti sulle democrazie occidentali.

In questo ventennale della caduta del Muro di Berlino si è molto insistito in Italia sulla differenza tra comunismo al potere e comunismo all’opposizione. Sicuramente lo stare in Italia era ben diverso dal vivere a Mosca. «È bello trovarsi in Italia, Mister Togliatti»: così nei giardini del Quirinale nel 1962 il presidente americano John F. Kennedy salutava il segretario del Pci Togliatti che era davanti al buffet e ammutolì perdendo l’espressione «tranquilla», incapace di reagire al sorriso americano che alludeva agli anni passati a Mosca dal leader del comunismo italiano.

PICCOLE E GIUSTE. Così un gruppo di ragazzine svizzere rimproverò per lettera il Consiglio federale che respingeva gli ebrei in fuga.

di Anna Bravo
Egregi Signori Consiglieri Federali,
non possiamo fare a meno di
dirvi che noi alunne siamo profondamente
indignate che i profughi vengano
ricacciati così spietatamente verso
una sorte tragica. Si è forse dimenticato
completamente che Gesù ha detto:
‘Ciò che avete fatto al più piccolo
tra voi, lo avete fatto a me’. Non ci saremmo
mai immaginate che la Svizzera,
l’isola di pace che pretende d’essere
misericordiosa, avrebbe ributtato
come bestie oltre la frontiera questi
miseri esseri infreddoliti e tremanti.
Non succederà anche a noi quanto è
accaduto al ricco che ha ignorato il
povero Lazzaro? A cosa ci servirà poter
dire: Sì, nell’ultima guerra la Svizzera
si è comportata bene, se poi non
avremo nulla da mostrare di buono
che la Svizzera abbia fatto in questa
guerra, in particolare per gli emigranti?
(…) Quando ci è stato chiesto di
raccogliere contributi siamo state
pronte a farlo per la nostra Patria (…).
Per questo ci permettiamo di pregarvi
di accogliere questi poverissimi
senza patria. Vi salutiamo con stima e
con sentimento patriottico”.
Seguono le firme.
Il Consiglio federale è il governo
centrale svizzero. Gli esseri scacciati
come bestie sono gli ebrei che tentano
di entrare nel paese, le autrici di
questa lettera venti alunne quattordicenni
della II C della Sekundarschule
di Rorschach, una cittadina del
Cantone Sangallo. La data è il 7 settembre
1942, in piena fase di chiusura
dei confini. E’ il primo atto di una
storia imprevista, dove si avvicendano
ministri, poliziotti, insegnanti, autorità
scolastiche, genitori. La racconta
un bellissimo libro in uscita, ricco
di dati e fatti nuovi (Silvana Calvo, “A
un passo dalla salvezza. La politica
svizzera di respingimento degli ebrei
durante le persecuzioni 1933-1945”,
Zamorani), in cui si guarda alle istituzioni
e ai cittadini attraverso la lente
delle normative e dei comportamenti
verso gli ebrei.
Nell’Europa di quegli anni la Svizzera
non rifulge. Certo, è un paese accerchiato
da regimi totalitari o collaborazionisti,
vive di banche, valuta
pregiata, esportazioni, e non può permettersi
di rompere i suoi canali di
commercio e scambio. Non ha un
esercito imponente, e il Terzo Reich
potrebbe invaderla in pochi giorni –
Belgio e Olanda hanno mostrato che
dichiararsi neutrali è una ben povera
difesa. Tutto vero: la Svizzera è un bilico,
può far conto solo su se stessa,
non dispone di risorse infinite. Deve
adattarsi.
L’altra faccia è che si tratta di un
paese dove le istituzioni funzionano,
nessuno fa la fame, si possono trovare
beni di consumo, sigarette, farmaci,
oggetti che altrove sono un ricordo.
Un paese che ha una milizia popolare
addestrata, un sistema di fortificazione
alpina, un popolo con forti sentimenti
patriottici. E una lunga tradizione
di accoglienza agli esuli politici.
Ma non agli ebrei, che premono
dai confini austriaco, tedesco, poi
francese e italiano, e che – sostiene
un documento ufficiale – non sono in
alcun modo assimilabili ai politici,
per i quali la porta è, se non aperta,
socchiusa. Vanno ributtati indietro al
luogo di provenienza, a volte sono letteralmente
passati di mano, da gendarme
svizzero a gendarme tedesco, a
milite di Salò, a poliziotto italiano o
francese. Come agli altri stati europei,
alla Svizzera la sorte degli ebrei
non importa affatto. Storia nota.
Sola, meravigliosa eccezione è la
Danimarca occupata, dove nell’ottobre
1943, appena si viene a sapere
che i tedeschi stanno preparando deportazioni
di massa, scatta l’azione
congiunta delle istituzioni e dei cittadini,
che riescono a traghettare nella
sicura Svezia più del 90 per cento dei
7.695 ebrei danesi, e tedeschi rifugiati
– che fatica trattenersi dal raccontare
la vicenda per intero! Hannah
Arendt scriverà che l’esempio della
Danimarca, unico stato insignito come
tale del titolo di “Giusto tra le nazioni”,
avrebbe dovuto essere proposto
agli studenti di scienze politiche,
per far capire a quali risultati può
arrivare una lotta non violenta, sorretta
da una buona coesione sociale,
dal riconoscimento popolare nelle
istituzioni. E dalla convinzione che
l’uguaglianza non è un principio negoziabile.
In Svizzera finisce invece per esserlo,
se non in linea teorica, nei fatti.
Per una terra d’asilo, è una scelta
stridente, che il governo cerca di far
passare con una campagna di organizzazione
del consenso. Si comincia da
quel caposaldo politico/simbolico che
consiste nel dare un nome alle persone
– per gli ebrei il termine ufficiale
è “emigranti”, non profughi o rifugiati,
che alludono al dovere di accoglienza.
Si continua insistendo sui pericoli
per l’ordine pubblico, sulla
scarsità di risorse, sull’assistenza gravosa,
sul sovraffollamento – ma secondo
i dati raccolti nell’Appendice del
volume, i “profughi civili” sono stati
51.219, di cui 21.304 “profughi ebrei” e
6.654 “emigranti ebrei”; e del loro sostentamento
si sono fatti carico i correligionari
svizzeri.
Si gioca anche la carta degli stereotipi,
e non importa se si contraddicono
a vicenda: gli ebrei sono troppo
legati fra loro, ma nello stesso
tempo straordinariamente abili nell’infiltrarsi.
Peseranno come parassiti
sui bilanci, o all’opposto faranno
carriera e denaro ai danni degli svizzeri
– allo sterotipo dell’ebreo avido
e astuto non si rinuncia neppure in
situazione estrema. Ma il successo è
parziale.
Nonostante le limitazioni introdotte
con la guerra, la Svizzera resta un
paese democratico, dove la stampa
ha buoni margini di libertà e le notizie
circolano. Con il risultato che ormai
si sa a quale destino vadano incontro
gli ebrei respinti; e che nascono
reti di aiuto composte di cittadini,
associazioni ebraiche e non, membri
delle istituzioni – poliziotti, diplomatici,
esponenti dei governi cantonali,
guardie di frontiera. Una piccola minoranza
periodicamente scardinata
dalla polizia, ma capace di salvare
delle vite.
A Rorschach, paese di confine, l’idea
della lettera matura quando le
alunne leggono su un giornale il racconto
di un respingimento particolarmente
brutale; in passato qualcuna
ha assistito a scene simili. Decidono
in fretta, scrivono sentendosi doppiamente
nel giusto. Perché amano la
Svizzera, e perché si richiamano a
una ragione che giudicano superiore
a quelle della politica: “E’ possibile
che voi abbiate ricevuto l’ordine di
non accogliere ebrei, ma questa è certamente
la volontà di Dio, e noi dobbiamo
ubbidire più a Lui che agli uomini”.
Il secondo atto è truce. Gli uomini
del Consiglio federale si scandalizzano,
si allarmano. Con ragione:
una parte dei cittadini sta aiutando
gli ebrei a entrare nel paese in violazione
della legge, altri lo sanno e tacciono.
Ora protestano persino i bambini;
peggio, le bambine. Brucia l’accenno
a ordini venuti dall’esterno,
che ricorda l’espulsione degli anarchici
a fine Ottocento: “Elvezia il tuo
governo schiavo d’altrui si rende”, dice
un verso di “Addio a Lugano”.
Il ministro per la Sicurezza interna
Eduard von Steiger, lo stesso uomo
che aveva coniato la metafora “la barca
è piena”, trasformò la lettera delle
ragazzine di Rorschach in un affare
di stato. Prepara una lunghissima risposta,
squadernando l’intera gamma
dei valori cristiani e civici – tranne il
dovere della solidarietà con i disperati.
La discute con i colleghi, decide
di non spedirla per non dare troppo
rilievo al caso, e di aprire invece
un’inchiesta a Rorschach per scovare
gli istigatori. Ci sono genitori aperti,
forse addirittura socialisti, saranno
loro. C’è un insegnante presunto antimilitarista,
sarà lui, e si progetta di
incriminarlo penalmente. L’ultimo
pensiero è che la ragazzine abbiano
fatto da sole. A conferma – rubo il titolo
a Simona Vinci – che dei bambini
non si sa niente. Vale in parte anche
per la Shoah. Nella letteratura e
nella storiografia c’è molto sui piccoli
prigionieri, quasi il vuoto sui piccoli
soccorritori. Che pure ci sono stati.
Bambini che accompagnavano gli
ebrei alla frontiera, che portavano
messaggi; che nei ghetti polacchi facevano
sopravvivere le famiglie con
piccoli furti e commerci. Bambini che
mentivano alle SS: “Qui non c’è nessuno”.
Alla fine si dovrà riconoscere che
gli istigatori non esistono. Interrogate
pesantemente, alcune ragazzine si
spaventano un po’, altre si scusano
per i termini più severi, ma non
“abiurano” affatto.
La storia viene messa a tacere: ma
dopo questa e altre lettere, il governo
deve ammorbidire per vari mesi la
sua politica – variare le disposizioni
per l’asilo a seconda del clima nazionale
è una costante. Come è una costante
il tentativo di evitare che i respingimenti
avvengano sotto gli occhi
della gente, a costo di lasciare che i
profughi penetrino per qualche chilometro
in territorio svizzero: per passare
dalla norma giuridica alla norma
etica, la spinta decisiva è spesso l’incontro
faccia a faccia con la sofferenza
dei perseguitati.
Decenni dopo, alcune ex ragazzine
rievocano la vicenda con una tranquillità
che sembra la versione adulta
della lucida freschezza di allora.
Sfido chiunque a non innamorarsi di
questa storia.
E un po’ anche dell’autrice, che
non è un’accademica o una giovane
studiosa in carriera, ma una signora
svizzera in pensione da un impiego
pubblico e con un grande amore per
la ricerca. Sebbene non l’abbia mai
vista, la immagino mentre raccoglie
bozze di lettere, lettere, verbali di interrogatori,
commenti della stampa,
dichiarazioni politiche; mentre segue
le tracce delle sovversive di Rorschach.
E mentre impara il mestiere nel
rapporto magistrale con il suo docente.
Che è Fabio Levi, autore di una
quantità di opere di storia degli
ebrei, e ora de “La persecuzione antiebraica.
Dal fascismo al dopoguerra”
(Zamorani, Torino). Una raccolta
di saggi che andrebbero recensiti
uno per uno, ma che nascono tutti dal
desiderio di riconsiderare le cristallizzazioni
più comuni fra gli storici (e
non solo).
Il primo bersaglio è l’identificazione
generalizzata e univoca degli
ebrei con il destino di vittime. Per
quanto esistano, scrive Levi, aspetti
di continuità fra la persecuzione del
1938 - ’45 e le norme discriminatorie
precedenti all’emancipazione, ci sono
state fasi e situazioni relativamente
propizie alla formazione di soggettività
diverse. Con l’affermazione dei
principi liberali, possono moltiplicarsi
i modi di essere e sentirsi ebrei:
osservanti, credenti, agnostici, patriottici
o meno, bendisposti oppure
ostili verso i matrimoni misti. E, non
diversamente dal resto degli italiani,
fascisti, antifascisti, politicamente indifferenti.
Persino nella condizione
di vittime assolute del ’38-’45, ci sono
reazioni e strategie di sopravvivenza
diverse, da chi tiene unita la famiglia
– quel che Bettelheim imputava ai
Frank – a chi sceglie di dividerla perché
da soli o in coppia è più facile
trovare rifugio. Anche se quasi sempre
ci si salva per caso, ogni vittima
ha una storia propria.
C’è poi, ed è ben radicata, una doppia
convinzione: che alla spietatezza
dei vertici abbia corrisposto una relativa
tolleranza delle amministrazioni
periferiche; che l’inefficienza delle
istituzioni abbia giocato a favore degli
ebrei. Visione ottimistica la prima,
pseudoromantica la seconda, che idoleggia
il disordine e che i fatti provvedono
a smentire: l’inefficienza poteva
giovare, così come poteva dare spazio
a ricatti, arbitri, inganni.
Un terzo snodo è la riflessione sulle
diverse letture del rapporto Italia/
Shoah. Il mito nazionale del buon
italiano oggi è moribondo, come è naturale,
visto che al tempo del fascismo
e della guerra erano moribondi
il senso della giustizia e dell’onore:
in Italia hanno vissuto opportunisti,
eroi veri, veri miserabili. Basti pensare
al funzionario che nel 1938 va a
scrutare le lapidi del cimitero ebraico
di Milano per scoprire le quote di
sangue “sbagliato” di un cittadino.
Ma dicono molto anche l’adesione
plebiscitaria dei professori universitari
(1237 su 1250) alla richiesta di
giurare fedeltà al regime, il silenzio
di fronte alle leggi razziste del ’38, la
tranquilla accettazione, salvo casi
isolatissimi, delle cattedre tolte ai titolari
ebrei – il tradimento dei chierici
ha una lunga storia. Del resto, la
stessa resistenza è poco sensibile alla
condizione degli ebrei – e parecchi
ebrei fanno la resistenza sentendosi
in primo luogo antifascisti.
Levi, che non è certo incline a demonizzare
gli italiani e ne valorizza
anzi l’opera di soccorso, mostra però
che a guerra finita il paese non sembra
molto interessato a farsi perdonare.
Dichiarandosi tutt’altra cosa dal
regime, la repubblica rigetta ogni responsabilità
per il passato e centellina
riassunzioni e risarcimenti, seguita
da banche, sindacati, organizzazioni
imprenditoriali. La restituzione dei
beni va a rilento, ai professori rientrati
si nega la vecchia cattedra.
A volte si dice che gli italiani amano
sentirsi buoni piuttosto che giusti.
Questo libro, argomentatissimo e a
tratti sorprendente, suggerisce anche
che la “bontà” dura poco e costa poco:
giusto il tempo e lo sforzo di esternare
quel profluvio di buoni sentimenti
verso le vittime, che all’indomani
della liberazione infastidiva
Giacomo Debenedetti, il primo a raccontare,
in “16 ottobre 1943”, il dolore
degli ebrei italiani.

Il Foglio 30 gennaio 2010

Nell'abbazia di Tre Fontane, ebrei, nazisti, disertori e frati

ROMA, martedì, 12 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di padre Jacques Brière, Abate di Tre Fontane, apparso sul numero di gennaio di Paulus, dedicato al tema "Paolo l'orante" e contenente un dossier centrale sulla Lettera a Tito.




* * *

Chi visita l'abbazia trappista di Tre Fontane e le sue tre chiese, secolare memoria del martirio dell'apostolo Paolo, è costretto a passare sotto il medievale arco di Carlo Magno. E non può non accorgersi di un altorilievo collocato al suo centro, raffigurante la vergine Maria con il Bambino, che regge tra le mani un cartiglio marmoreo con iscritto un nome eloquente: Emmanuel. Sotto, sulla sinistra, è affissa una lapide che ricorda la provvidenziale ospitalità ricevuta da alcuni ebrei durante l'occupazione nazista di Roma nell'ottobre 1943, dopo la razzia nel Ghetto. Per questo gesto di coraggio, l'abate dell'epoca - dom Maria Leone Ehrard - è stato insignito di un'onorificenza che ne esalta pubblicamente la memoria: la medaglia di "Giusto fra le nazioni", conferitagli dall'ambasciata israeliana. La medaglia dei Giusti è il più alto riconoscimento attribuito a cittadini non ebrei dallo Stato di Israele e viene consegnato a coloro che, rischiando la vita e non avendo ricevuto nulla in cambio, hanno salvato uno o più ebrei dalla persecuzione. Le famiglie ebraiche Sonnino (Giuseppe) e Di Porto (Angelo, Settimo e Alberto), attivamente ricercate, riuscirono a salvarsi dalla deportazione grazie al rifugio loro offerto da dom Leone. Giuseppe Sonnino aveva rapporti commerciali con l'abbazia, perché fabbricava i sacchi con cui i frati portavano al mercato i loro prodotti agricoli. La Saccheria Sonnino è ancora oggi in esercizio nella capitale. Tutti i rifugiati testimoniarono di essere stati accolti fraternamente dai frati, i quali offrirono loro rifugio e vitto senza mai chiedere un contraccambio.

Un racconto incredibile

Per conoscere più da vicino alcuni dettagli relativi all'avvenimento, ho sfogliato il secondo volume (inedito) di dom Alfonso Barbiero, testimone oculare dei fatti. Ne riporto alcuni stralci. «La sera stessa di quel memorabile giorno, 10 settembre 1943, dom Leone aveva un lungo colloquio col capitano tedesco Milch il quale, ferito presso la piramide di Cestio, chiedeva alloggio nella nostra foresteria. Era costui una brava e cosciente persona. Si rese conto esatto della situazione dei religiosi. Si mostrò cortese e remissivo, diede ampie assicurazioni di protezione contro eventuali angherie e soprusi, permise che le campane venissero suonate secondo il costume anche di notte, che tenessimo accesa la luce elettrica, che cantassimo il nostro ufficio, e non volle che la vita religiosa dei monaci fosse comunque disturbata [...] Come dissi sopra, al primo comparire delle truppe d'assalto tedesche abbiamo subìto delle perquisizioni ingiuste, soprusi, sopraffazioni, ma per mezzo del bravo Milch, piano piano, con l'andar del tempo egli ci fece restituire ogni cosa. Così stando le cose la vita all'abbazia delle Tre Fontane si svolgeva quasi in piena normalità, benché in casa si vivesse quasi a diretto contatto con i Tedeschi, i quali si servivano del nostro forno e della nostra cucina. Inoltre avevamo circa una quindicina di elementi militari "rifugiati", in attesa di potersi affiancare al Maresciallo Badoglio. Curioso il fatto che tali soggetti vestiti da frati erano veramente creduti tali dai Tedeschi, che avevano occasione di osservarli dalla mattina alla sera, guai se avessero saputo la loro vera identità, perché ne sarebbe andata di mezzo, oltre che i rifugiati stessi, l'intera Comunità! [...] I Colli Albani, in seguito allo sbarco degli Alleati in quel di Nettuno, erano diventati zona d'operazione, e, moltiplicate le spaventose incursioni, giorno e notte gli Alleati non facevano altro che scorrazzare cercando di colpire le truppe germaniche. Si abbassavano rapidamente, mitragliavano all'impazzata e sparivano, gettando così il terrore ed il panico su tutta la zona. Tra i "rifugiati" non bisogna dimenticare che c'erano parecchi ebrei, [...] capitati qui dopo le prime retate che i Tedeschi avevano fatto degli ebrei in città, che s'erano infilati alla spicciolata mischiandosi ai nostri operai avventizi. Dapprima nessuno li conosceva, ed i poveretti ce la mettevano tutta per non farsi scoprire. Anche per loro si succedettero giorni di trepidazione. Non pratici, anzi ignari affatto di come si tenessero in mano gli strumenti di lavoro, s'ingegnarono a imitare i vicini per non tradirsi e per ingannare il tempo. Non era la giornata che dovevano guadagnarsi, ma la vita da salvare. [...] Venne infine pure la loro liberazione, e tanta fu la loro riconoscenza per l'ospitalità fraterna trovata nella solitudine della Trappa, che a perenne memoria dell'incresciosa parentesi offrirono una bella scultura in marmo della Madonna, che tuttora si può vedere nel bel mezzo della facciata del portico di entrata del monastero, con la relativa dedica fissata a sinistra sopra la cornice del pilastro dell'arco» (riportato in A. Barbiero, Storia dell'abbazia delle Tre Fontane dal 1140 al 1950, cap. XXXVI).

"Giusto fra le nazioni"

L'8 ottobre 2002, in occasione della consegna ufficiale della medaglia dei Giusti alla nostra Comunità, espressi nel modo seguente i sentimenti che accomunavano tutti i partecipanti alla cerimonia: «Ciò che ricordiamo oggi è l'orrore di una situazione nella quale i diritti della persona umana sono stati totalmente negati, ciò che ricordiamo oggi è anche la capacità per l'uomo di non accettare l'inaccettabile; infatti ricordiamo il coraggio di una persona che ha saputo accettare grandi rischi per salvare la vita del prossimo. In queste circostanze possiamo dire che dom Leone Ehrard è stato un uomo provvidenziale. Veniva dall'Alsazia, situata alla frontiera tra Francia e Germania, un Paese di cultura e di lingua tedesca, ma la cui gente ha il cuore francese. Più di altri popoli gli Alsaziani sanno che cosa significa essere sottomessi ad un autorità non desiderata, e questo è ancora più vero per le persone della generazione di dom Leone, nati francesi e poi divenuti tedeschi malvolentieri [...] che ha sperimentato cosa significa l'esilio, ha visto membri delle stesse famiglie, appartenenti alla stessa città, combattersi sotto diverse divise [...] Questa esperienza gli ha permesso di sviluppare una grande compassione, una grande capacità per aiutare chiunque si trovi in pericolo. Molto vicino ai tedeschi per cultura e temperamento, dom Leone ha saputo creare le condizioni che permisero di accogliere profughi ebrei e altre categorie di persone ricercate dalla polizia, pur convivendo con truppe tedesche sotto lo stesso tetto».

La Guerra fredda della Chiesa. Lo storico P. Chenaux ricapitola i rapporti tra Vaticano e Paesi dell’Est: Marxismo radicalmente avverso alla Chiesa


DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ


« Si potrebbe parlare di u­na storia tormentata e conflittuale, fatta di a­natemi e persecuzioni, ma anche talvolta di connivenza e compro­messi ». È in questi termini che lo storico svizzero Philippe Chenaux, professore alla Pontificia università Lateranense, riassume i sette de­cenni novecenteschi in cui la Chie­sa fu confrontata alla minaccia co­munista e in particolare sovietica.
Lo storico ha appena pubblicato in Francia, per i tipi di Cerf, un tenta­tivo d’affresco complessivo intito­lato
L’Eglise catholique et le com­munisme en Europe (1917-1989).

Professore, che tipo di reazioni i­niziali produsse nella Curia la ri­voluzione bolscevica?
«La portata esatta di quanto acca­deva in Russia non fu stata misura­ta subito. Esisteva l’idea che la ri­voluzione bolscevica, come ogni rivoluzione, avesse un carattere transitorio e che non fosse fatta per durare. A ciò si aggiunge il fatto che la caduta dello zarismo, pro­tettore tradizionale dell’ortodossia, sembrava aprire spazi nuovi per l’influenza del cattolicesimo in Russia. Quando la Russia sovietica rivelò il suo volto totalitario, diven­ne ancor più importante tentare di strappare alle autorità sovietiche un accordo di tipo concordatario per garantire un minimo di libertà alla Chiesa in quel Paese. Cito que­sta frase di Pio XI che Giovanni XXIII ricorderà al momento di lan­ciare l’Ostpolitik: 'Se si tratta del bene delle anime, sono pronto a trattare col diavolo in persona'».

A livello dottrinale, quando giunse la prima condanna del comuni­smo?

«Si constata un irrigidimento della posizione di Pio XI a partire dal 1930, spiegato soprattutto dall’ina­sprimento della politica antireli­giosa
del Cremli­no con l’arrivo al potere di Stalin.
Questo irrigidi­mento condusse alla pubblicazio­ne, nel marzo 1937, dell’encicli­ca

Divini Re­demptoris

contro il comunismo a­teo. Non è solo la dottrina marxista che è condanna­ta,
ma anche il sistema sovietico, il comunismo reale così come realiz­zato in Russia. Il comunismo vi è definito come un’ideologia 'intrin­secamente perversa'».
La Seconda guerra mondiale se­gnò una svolta nelle relazioni del­la Chiesa col mondo comunista?

«La fine della Seconda guerra mondiale ha significato la sconfitta
del nazismo, l’altro grande perico­lo che minacciava fino ad allora la fede cristiana in Europa. Il Vatica­no di Pio XII non si faceva illusioni sul destino che attendeva i Paesi dell’Est liberati dall’Armata rossa.
Vittima di una terribile persecuzio­ne, la Chiesa si trovava, suo mal­grado, obbligata a entrare 'in guerra fredda'. Nel 1949, il Sant’Uffizio pubblicò un de­creto che proibiva ogni collaborazio­ne dei cattolici col comunismo sotto pena di scomuni­ca ».

Il clima della Guerra fredda consentì il mante­nimento di un filo di dialogo fra il
Vaticano e Mosca?
«All’inizio della Guerra fredda, la propaganda sovietica non cessò di accusare il Vaticano di fare il gioco dell’imperialismo americano. Il to­no cambiò dopo la morte di Stalin, senza che si possa davvero parlare di dialogo. Il Vaticano di Pio XII re­stò
molto diffidente verso i tentati­vi di apertura della diplomazia so­vietica. Occorrerà attendere l’av­vento di Giovanni XXIII per assiste­re all’instaurazione di un clima nuovo nelle relazioni fra Roma e Mosca».
Quali effetti eb­bero le rivelazio­ni sui massacri anticristiani sot­to la bandiera so­vietica?

«La pubblicazio­ne di
Arcipelago Gulag (1974) di A­leksander Solze­nicyn segnò la fi­ne di ciò che chiamo, dopo al­tri come François Furet, 'l’illusione comunista'. La deriva totalitaria e criminale dei regimi comunisti non poteva esse­re considerata come un semplice incidente di percorso, imputabile alla paranoia di un tiranno sangui­nario come Stalin, ma si trovava i­scritta nella logica stessa dell’atei­smo marxista. La fine dell’illusione comunista avrebbe favorito, come in Polonia, il riavvicinamento della Chiesa agli ambienti della dissi­denza e permesso la grande rivolu­zione pacifica verso la democrazia della fine degli anni Ottanta».
Cosa caratterizzò maggiormente la Ostpolitik del Vaticano?

«L’Ostpolitik del Vaticano aveva per scopo garantire, attraverso accordi con i governi comunisti, la soprav­vivenza della Chiesa nei Paesi dell’Est ('
modus non moriendi '). Il grande artefice di questa politica, i cui risultati saranno abbastanza li­mitati (accordo con l’Ungheria nel 1964, protocollo d’accordo con la Jugoslavia nel 1966), sarà monsi­gnor Agostino Casaroli, il futuro segretario di Stato di Giovanni Pao­lo II. Non si dovrebbe nondimeno perdere di vista l’impatto degli ac­cordi di Helsinki (1975) ai quali la Santa Sede prese interamente par­te. Essi diedero una nuova legitti­mità alla dissidenza nella sua lotta per la difesa dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».
Dopo l’elezione di Papa Wojtyla, quale strada seguirono le relazioni fra la Chiesa e il comunismo?

«Giovanni Paolo II non ha voltato pagina a livello diplomatico, la­sciando al loro posto gli uomini dell’Ostpolitik. Inoltre, non ha ali­mentato la corsa al rilancio in ma­teria di anticomunismo. Egli ha semplicemente cercato di ridare fi­ducia ai popoli dell’Est, in partico­lare il popolo polacco, nella loro capacità di riprendere in mano il proprio destino. Il comunismo non era fatto per durare. Era possibile mettere fine all’oppressione totali­taria. L’obiettivo strategico che si e­ra fissato, fin dall’indomani della sua elezione, era di mettere fine all’intollerabile frattura di Jalta e di riunire tutti i popoli della grande famiglia dell’Europa cristiana in u­na
casa comune».
Lei parla del marxismo come 'ul­tima eresia' del cristianesimo.
Perché?
«Riprendo un giudizio di Mari­tain:
credo in ef­fetti che non si possa pensare il comunismo al di fuori di una cul­tura che è quella giudeo-cristiana. Come dice Mari­tain, si trova nei valori del comu­nismo (giustizia sociale, dignità operaia) un 'resi­duo' dell’eredità giudeo-cristiana staccato da tutto il resto e inserito, per così dire, in una concezione materialista ed atea dell’esistenza. È questo residuo che spiega una buona parte del suo formidabile potere d’attrazione sulle masse in Occidente, e in particolare negli ambienti cattolici».
«La Ostpolitik voleva salvare qualche diritto per i cattolici dell’Est. Ma intanto si sosteneva la legittimità della dissidenza»




Philippe Chenaux (Siciliani)



Avvenire 8 gennaio 2010

L’INTELLETTO SANTO DELLA WEIL. E’ lei il più grande filosofo del Novecento, fraintesa perché scriveva come in presenza del giudizio di Dio

di Alfonso Berardinelli
Qualche mese fa un giovane critico
letterario, piuttosto polemico con
le mie opinioni sia politiche che culturali
(secondo lui indecifrabili, se
non aberranti), mi ha chiesto in conclusione
qual è, secondo me, il maggiore
filosofo del Novecento. Non ho
dovuto riflettere molto per rispondere:
Simone Weil. Questa risposta, pur
essendo accolta come un’ulteriore
provocazione, sembrava anche offrire
finalmente un chiarimento: perché
certo Simone Weil la si sente nominare,
ma non si sa mai come prenderla,
non rimanda alle culture dominanti
nel Novecento o le respinge, tiene insieme,
non per moderatismo, ma per
radicalismo, politica e religione, etica
e gnoseologia: e quindi, soprattutto,
non viene letta, esige molto dal lettore
e disturba in particolare gli intellettuali
e la loro categoria oggi prevalente,
quella degli universitari. La
Weil non ha confezionato trattati sistematici
usufruendo di fondi di ricerca,
e per questo dai filosofi di professione,
abituati a rimasticare qualunque
autore, spesso senza ragioni sufficienti,
viene ritenuta a torto un pensatore
non sistematico, teoreticamente inadeguato
perché frammentario.
Niente di meno vero. Simone Weil
non ha costruito sistemi, edifici concettuali
dentro cui ripararsi. La sua
produzione è occasionale, profondamente
motivata dagli eventi della sua
vita e da quelli politici degli anni in
cui è vissuta (il ventennio fra le due
guerre mondiali). Ma i suoi articoli e
saggi, i suoi diari e aforismi configurano
un pensiero straordinariamente
coeso e coerente, originale (parola a
lei non gradita!) nella sua cartesiana
lucidità e in una eroica onestà esistenziale.
Stranamente, faziosamente, accusano
la Weil di non professionalità filosofica
coloro che non battono ciglio
davanti a Nietzsche, conformisticamente
lo ritengono, in questi anni, un
filosofo “epocale” (esagerando), salvo
mettere fra parentesi il punto centrale
e la punta contundente di tutto il
pensiero di Nietzsche: il suo proposito
di pensare filosoficamente fuori
della filosofia tradizionale, delle sue
problematiche e del suo linguaggio.
Perché disturba, perché “non frutta”
Simone Weil? La risposta è che
non viene da Hegel né rimanda a
Nietzsche (dichiarò di non sopportarlo);
fa totalmente a meno di Freud anche
quando parla di psicologia, di passioni
e di desideri; non tiene conto né
del “Tractatus” di Wittgenstein né di
“Essere e tempo” di Heidegger; non
ha niente a che fare né con il Surrealismo
né con altre avanguardie. Le sue
riflessioni politiche non escludono l’esperienza
religiosa, il suo impegno politico
non esclude, anzi implica, un’idea
della mente umana che abbia la
capacità di trascendere i dati immediati
dell’esperienza. Il suo ateismo intellettuale
non nega la possibilità di
concepire Dio, se davvero se ne è capaci,
cioè se si è in grado di vivere, di
convivere con una certezza religiosa in
un mondo costruito sull’assenza di Dio
e la cancellazione del sacro.
Il pensiero della Weil si muove tra
Platone e Marx, fra cultura greca (e in
parte orientale) e un cristianesimo
che a volte affascina i cristiani, li chiama
in causa con la figura di Cristo e
con il simbolo della Croce, ma in definitiva
è giudicato un cristianesimo
inaccettabile perché troppo “personale”.
Dato che rifiuta la Chiesa, deve
pur essere un cristianesimo che ha
qualcosa che non va. Si sospetta che
pecchi di superbia intellettuale o di
un eccesso di umiltà malintesa.
Se poi aggiungessi altre cose che
credo, e cioè che la Weil è anche il
maggiore, o migliore, o più onesto teologo
del Novecento, un teologo esistenziale
e anti-dottrinale; che è uno
dei più grandi saggisti allo stato puro,
cioè senza specializzazioni disciplinari,
come pochissimi altri (penso a Karl
Kraus); ed è, con Orwell, uno dei pochi
e veramente utili scrittori politici – allora
la provocazione sembrerebbe intollerabile.
Anche perché, mettendo
insieme e sommando tutte queste cose,
risulterebbe scandalosa la perdurante
distrazione con cui viene trattato
dagli intellettuali l’insieme dei suoi
scritti.
Intendiamoci, il fatto che la Weil resti
un autore per pochi, se non è un
bene, soprattutto non è un male. Anzi
è del tutto naturale: è una delle poche
cose naturali ed equilibrate che accadono
in quella fiera delle falsificazioni
e delle sproporzioni che è la nostra
cultura. Ci sono autori di valore ingiustamente
ignorati, alcuni di grande
successo ma scadenti, altri giustamente
famosi ma in realtà non letti. La
Weil, almeno, sembra ancora essere
letta solo da chi è disposto a capirla, e
questa credo che sia la prima cosa che
un autore dovrebbe augurarsi.
Ho detto che la Weil è un grande
saggista: questo significa che non è facile,
forse è impossibile riassumere il
suo pensiero, non separabile dalla
forma di scrittura che di volta in volta
lo esprime. Non riesco a pensare a
nessun altro saggista che, come lei, abbia
avuto una così divorante passione
di farsi capire, una vera fobia di risultare
ambigua, di essere fraintesa. Potrei
dire, senza enfasi, che scrivere
per lei era una forma della preghiera,
nel senso che scriveva come in presenza
del giudizio di Dio. E questo lo
si sente, ovviamente, nei suoi scritti
più religiosi, ma anche quando scrive
articoli sull’ascesa del nazismo in Germania
e sul fallimento della politica
operaia dei partiti socialdemocratico
e comunista. Per usare una formula
weiliana, non si tratta di “dire la verità”,
che non è un oggetto definibile e
preesistente al discorso, ma di parlare
e scrivere “in spirito di verità”, cioè
avendo la verità come scopo.
Detto questo, più che riassumere,
farò un breve elenco di temi, illustrato
con qualche citazione. Al primo posto
metterei proprio il tema della verità.
Tema morale, intellettuale, politico,
religioso. Verità, per la Weil, vuol
dire anzitutto incarnare nella vita il
bisogno di verità, che non è limitato al
pensiero e alla parola. Nella “Prima
radice” leggiamo: “Il bisogno di verità
è il più sacro di tutti. Eppure non se
ne parla mai. La lettura fa spavento,
quando ci si sia resi conto della quantità
e dell’enormità di menzogne materiali,
diffuse senza vergogna anche
nei libri degli autori più amati. E così
leggiamo come se si bevesse acqua di
un pozzo sospetto”. Il giornalismo in
queste pagine diventa l’argomento
centrale, e la conclusione attiene già
alla politica: “Non è possibile soddisfare
l’esigenza di verità di un popolo
se a tal fine non si riesce a trovare uomini
che amino la verità”.
Fondamentale per quegli anni e decenni
(1920-1940), nonché per l’intero
secolo e per il culto in generale della
Storia, è la critica che la Weil rivolge
a Marx e al marxismo, alle idee di rivoluzione
e di progresso, alla socialdemocrazia
e ai partiti comunisti della
Terza Internazionale, dipendenti da
Mosca. Tutto il lungo saggio “Riflessioni
sulle cause della libertà e dell’oppressione”
(scritto nel 1934) è dedicato
a questo. Scelgo poche righe: “Del
‘socialismo scientifico’ si è fatto un
dogma, esattamente come è avvenuto
per tutti i risultati conseguiti dalla
scienza moderna (…). Marx supponeva,
senza peraltro provarlo, che ogni
specie di lotta per il potere sparirà il
giorno in cui il socialismo verrà realizzato
in tutti i paesi industrializzati; l’unica
sventura è che, come aveva riconosciuto
Marx stesso, la rivoluzione
non si può fare contemporaneamente
dappertutto; e quando la si fa in un
paese, essa non sopprime, anzi accentua
la necessità per questo paese di
sfruttare e opprimere le masse lavoratrici,
perché teme di essere più debole
delle altre nazioni. Di questo la storia
della rivoluzione russa costituisce
un’illustrazione dolorosa (…) la totale
subordinazione dell’operaio all’impresa
e a coloro che la dirigono poggia
sulla struttura della fabbrica e non sul
regime della proprietà (…) ‘la degradante
divisione del lavoro in lavoro
manuale e lavoro intellettuale’ [Marx]
è il fondamento stesso della nostra
cultura, che è una cultura di specialisti
(…) Lo stesso ‘socialismo scientifico’
è rimasto monopolio di alcuni e gli
‘intellettuali’ purtroppo hanno nel
movimento operaio gli stessi privilegi
che nella società borghese”. Aggiungo
una postilla: “Ma altre forme della
macchina utensile hanno prodotto, soprattutto
prima della guerra, forse il
tipo più bello di lavoratore cosciente
che sia apparso nella storia, cioè l’operaio
qualificato”.
Nel 1937 in un articolo “Sulle contraddizioni
del marxismo” la Weil
parla di un “inconsapevole conformismo”
di Marx di fronte alle “superstizioni
più infondate della sua epoca,
cioè il culto della produzione, il culto
della grande industria, la credenza
cieca nel progresso”. E aggiunge che il
movimento operaio dovrebbe “attingere,
non dico delle dottrine, ma una
fonte di ispirazione in ciò che Marx e
i marxisti hanno combattuto e così follemente
disprezzato: Proudhon, le forme
di organizzazione operaia del 1848,
la tradizione sindacale rivoluzionaria,
lo spirito anarchico” (“Incontri libertari”,
a cura di Maurizio Zani,
Eléuthera).
In un articolo del 1933 sul “Riformismo
tedesco” leggiamo: “Si può affermare
che in Germania l’organizzazione
operaia ha dato nell’ambito della
legalità capitalista la migliore espressione
di sé. I risultati non sono disprezzabili”.
Ma “in questo modo gli
operai si sono incatenati all’apparato
dello Stato”. E quindi le cose cambiano,
i vantaggi conquistati vengono meno
“se la borghesia tedesca fa ricorso
al fascismo” per superare la sua crisi.
Mentre “la politica del partito comunista
tedesco (…) consiste in una propaganda
puramente verbale; si predica
la rivoluzione a della gente che non
chiede se questa è desiderabile, bensì
se è possibile”.
Infine, il testo che riassume la riflessione
politica e morale della Weil
è “La prima radice” (dicembre 1942-
aprile 1943), la cui prima parte è intitolata
“Le esigenze dell’anima”. Invece
che di diritti si parla di “obblighi”
o doveri nei confronti dell’essere
umano. Mi limito a ricordare l’elenco
di questi “bisogni vitali” da rispettare:
l’ordine, la libertà, l’ubbidienza, la responsabilità,
l’uguaglianza, la gerarchia,
l’onore, la punizione, la libertà
di opinione, la sicurezza, il rischio, la
proprietà privata, la proprietà collettiva,
la verità.
Si capisce bene quanto poco fondata,
se non in qualche caso disonesta,
sia stata, a sinistra e a destra, la scelta
di distinguere e separare una Weil politica,
marxista e rivoluzionaria da una
Weil moralista, religiosa, mistica e cristiana,
per valorizzare un aspetto e liquidare
l’altro. Bisogna ripetere invece
che nel pensiero weiliano sono stati
sottoposti a una critica serrata, propriamente
razionalistica e antidogmatica,
tanto il marxismo che il cristianesimo,
in quanto edifici dottrinali adottati
e sostenuti da organizzazioni partitiche
o ecclesiastiche tenute insieme
da un corpo di chierici o di politici
professionali. In saggi relativamente
brevi ma fondamentali come “La persona
e il sacro” (1942-43) e “Nota sulla
soppressione dei partiti politici” (1943,
entrambi in “Écrits de Londres”, Gallimard)
è chiaro che la separazione tra
morale, politica e ispirazione religiosa
è impossibile, sarebbe un vero abuso
interpretativo. Proviamo a leggere:
“C’è nell’intimo di ogni essere umano,
dalla prima infanzia fino alla tomba e
nonostante tutta l’esperienza dei crimini
commessi, sofferti e osservati,
qualcosa che si aspetta invincibilmente
che gli si faccia del bene e non del
male. E’ questo, prima di tutto, ciò che
è sacro in ogni essere umano” (“La
persona e il sacro”).
Affermazioni come questa non si
potrebbero assegnare a nessuna sfera
delimitata e separata: siamo nella psicologia,
nell’etica, nella religione o
nella politica? Qui tutto è connesso,
ed è a queste pietre angolari del pensiero
che Simone Weil si rivolge per
fondare i suoi ragionamenti.
Dall’inizio degli anni Ottanta, con
l’edizione Adelphi dei “Quaderni”,
quattro volumi a cura di Giancarlo
Gaeta usciti fra il 1982 e il 1993, si è periodicamente
riproposta una lettura
di Simone Weil attraverso convegni,
antologie, monografie: se ne sono occupati
Gabriella Fiori (autrice di una
biografia uscita da Garzanti nel 1981),
Domenico Canciani, Roberto Esposito
(nel volume “Categorie dell’impolitico”,
il Mulino 1988), Adriano Marchetti,
Guglielmo Forni, Pier Cesare Bori
(presenti in uno dei quaderni mensili
di “Testimonianze”, intitolato “Le passioni
di Simone Weil. Politica, cultura,
religione”, 1994). Va notato comunque
che il pensiero weiliano non è mai entrato
davvero nel dibattito filosofico e
politico, né in Italia né in altri paesi,
come invece autori molto più astratti,
equivoci e sfuggenti, per esempio gli
studiatissimi e citatissimi Martin Heidegger
e Carl Schmitt. La sinistra ha
di gran lunga preferito autori come
questi, compromessi più o meno direttamente
con il nazismo, a Simone
Weil, che avrebbe permesso di riflettere
a fondo sull’intera vicenda della
sinistra europea in un’ottica diversa
rispetto a quella che oscilla ossessivamente
fra confuse riproposte rivoluzionarie,
speranze progressiste e riscoperte
del pensiero liberale. Parlo
della sinistra. Ma neppure la destra
ha mai osato servirsi seriamente della
riflessione della Weil nel suo insieme,
che evidentemente non attira chi
abbia intenzione di servirsene in funzione
propagandistica.
In tutto il periodo in cui si formò e
agì una Nuova Sinistra a livello internazionale,
tra la fine degli anni Cinquanta
e l’inizio degli anni Ottanta,
della Weil non si parlò. Fu quella, credo,
forse la più grave fra le occasioni
mancate. La Nuova Sinistra di allora
non aveva più come punto di riferimento
l’Unione Sovietica, cosa avvenuta
anche dopo il 1945 e fino allo
scontro che oppose Sartre e Camus in
seguito alla pubblicazione dell’“Homme
revolté”. Ma la Nuova Sinistra nacque
anzitutto come riscoperta del vero
Marx “scientifico” e antihegeliano
e del marxismo rivoluzionario degli
anni Venti: Lukács di “Storia e coscienza
di classe” e Karl Korsch di
“Marxismo e filosofia”. La critica all’Unione
Sovietica lasciò intatto l’impianto
marxista e anzi lo rilanciò e lo
radicalizzò, mettendo da parte anche
revisioni e integrazioni preziose come
quelle di Gramsci e dei Francofortesi.
Per anni dominò l’idea di un’attualità
e urgenza della rivoluzione: questo
sembrò il primo imperativo e fece nascere
rapidamente un’ortodossia neoleninista
che dimenticò di chiedersi
se un’ipotesi rivoluzionaria fosse possibile
e realistica in Europa, negli Stati
Uniti e perfino in America Latina.
Sembravano innominabili gli scrittori
politici degli anni Trenta, le cui esperienze
cruciali erano state la grande
crisi del Ventinove, i fascismi, la guerra
civile spagnola e lo stalinismo. La
Nuova Sinistra nacque ignorando di
proposito che c’era, doveva esserci un
rapporto fra critica allo stalinismo e
critica al marxismo.
Franco Fortini, che pure aveva scoperto
presto Simone Weil, ed ebbe il
merito di tradurre per le edizioni di
Comunità testi tutt’altro che marginali
come “L’ombra e la grazia” (nel
1951), “La condizione operaia” (1952) e
“La prima radice” (1954), non propose
però apertamente il pensiero della
Weil come correttivo o antidoto a quel
“ritorno a Marx” su cui si fondava la
ricerca di “Quaderni rossi”. Un po’ come
i giovani nichilisti russi dell’Ottocento
guardarono con sufficienza o disprezzo
il gran signore cosmopolita e
liberal-socialista Aleksandr Herzen,
così i giovani marxisti antiumanisti o
nichilisti degli anni Sessanta italiani
potevano ridere di Orwell e della
Weil. Nessuno vide allora quanta lucidità
teorica e competenza politica c’era
nel saggio “Oppressione e libertà”
che genialmente Simone Weil scrisse
a venticinque anni.
Fu così che le traduzioni di Fortini
si interruppero troppo presto, non
diedero luogo a nuove traduzioni, né
tantomeno a una considerazione approfondita
del già tradotto. “La prima
radice” era uscita senza un’introduzione
del traduttore ed è negativamente
significativo che in uno dei due
libri di saggi più importanti di Fortini,
“Verifica dei poteri”, uscito nel
1965, il nome della Weil non compaia
mai. Si pensò in quegli anni che tutte
le esperienze degli anni Venti fossero
riproponibili e tutte le esperienze degli
anni Trenta fossero definitivamente
superate. Venne isolata, per esempio
da Elémire Zolla, la Weil mistica e
lo stesso Calasso, più tardi, editore benemerito
di Nietzsche, vide nella Weil
piuttosto un pensatore metafisico, e
non sociale e politico, rendendo poco
comprensibile la sua intera vicenda
umana.
Grande lettrice della Weil, soprattutto
dei “Quaderni”, fu Elsa Morante.
Disse che quella lettura aveva cambiato
la sua vita. E in effetti provocò
una svolta nella sua opera. Chi legge i
saggi di “Pro o contro la bomba atomica”,
i poemi del “Mondo salvato dai
ragazzini” e il romanzo “La Storia”
può avvertire e rintracciare dovunque
la presenza della Weil, pensiero e persona,
che viene definita “l’intelligenza
della santità”. Ma per dire in proposito
qualcosa di più c’è bisogno di
interpretazioni critiche, perché la Morante
su quell’esperienza di lettura
non ha scritto nulla. Per quanto ne so,
il solo studio che affronti il problema
è di Concetta D’Angeli: “La pietà di
Omero: Elsa Morante e Simone Weil
davanti alla storia” (in “Leggere Elsa
Morante”, Carocci 2003). Si trova qui
un’interpretazione della formula morantiana
“l’intelligenza della santità”,
da intendersi come intelligenza del
mondo che può venire solo da una
santità risolta soprattutto in capacità
di capire, in intelletto.
Torniamo con questo alla verità, vocazione
centrale della Weil. In una lettera
da Marsiglia del 15 maggio 1942 a
padre Perrin, che è un vero e proprio
saggio sintetico di autobiografia interiore,
la Weil scrisse tra l’altro alcuni
passi che possiamo leggere come epigrafi
definitive per tutta la sua opera:
“Dopo mesi di tenebre interiori, ebbi
d’improvviso e per sempre la certezza
che qualsiasi essere umano, anche se
le sue facoltà naturali sono pressoché
nulle, penetra in questo regno della
verità riservato al genio, purché desideri
la verità e faccia un continuo
sforzo d’attenzione per raggiungerla:
in questo modo diventa egli pure un
genio, anche se per mancanza di talento
non può apparire tale esteriormente
(…) Il concetto di verità comprendeva
per me anche la bellezza, la
virtù e ogni sorta di bene”. E ancora:
“La funzione propria dell’intelligenza
esige una libertà totale, che implica il
diritto di negare tutto, senza nulla dominare.
Dovunque essa usurpa un comando,
si verifica un eccesso di individualismo.
Dovunque si senta a disagio,
c’è una collettività oppressiva” (in
“Attesa di Dio”, Rusconi 1972).

Il Foglio 10 dicembre 2009