«Eminenza, perché i preti nelle loro infinite omelie (più di 25.000 ogni domenica nella sola Italia) non parlano più dell'aldilà e, soprattutto, rifuggono dal pronunciare una parola che è diventata tabù: inferno?». Alla domanda, l'allora Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, Joseph cardinal Ratzinger, mi guardò un po' ironico: «Il fatto è che oggi tutti, anche nel clero, ci crediamo talmente buoni da non poter meritare altro che il paradiso. Siamo impregnati di una cultura che, a forza di alibi e di attenuanti, vuol togliere agli uomini il senso della loro colpa, del loro peccato.
Lo osservi: tutte le ideologie della modernità sono unite da un dogma fondamentale.
E, cioè, la negazione di quella realtà che la fede lega all'inferno: il peccato».
Ben consapevole che si tratta di una realtà misteriosa e sgradevole ma non rimovibile (parola di Gesù stesso: «I malvagi se ne andranno all'eterno supplizio») Ratzinger, prima come cardinale e ora come papa, non pratica sconti sul Credo e anche di inferno ha parlato e parla, con quel suo tono didattico e zelante e quel suo volto da fanciullo ottantenne. Lo ha fatto anche ieri nella parrocchia della periferia romana, mettendo in guardia chi amasse il peccato, chi volesse chiudere le porte a Dio. Chi insomma, all'inferno proprio volesse andarci. Perché, in effetti, proprio qui sta il problema: non Dio ci condanna, siamo noi stessi a farlo, a respingere — per qualche autodistruttività enigmatica — il perdono, la salvezza, la gioia.
C'è qualcosa di sospetto nella reazione spesso violenta del «mondo», quando la Chiesa riafferma la sua convinzione dell'esistenza di un realtà che non può rimuovere, essendo su questo troppo recisa e chiara la Scrittura. Per il non credente anche, soprattutto l'inferno dovrebbe rientrare nei miti oscurantisti di una fede da respingere con uno scuotimento di spalle. E, invece, proprio qui certa cultura sembra reagire, come turbata ed inquieta, non con l'ironia ma con l'invettiva. Tanto che in quel Perché non sono cristiano, che è una sorta di summa delle ragioni del rifiuto del moderno Occidente, Bertrand Russell finì col restringersi a uno scandalo supremo, inaccettabile fra tutti: l'inferno, appunto.
Simili reazioni dimenticano che il vangelo si chiama così — «buona notizia » — perché annuncia in Gesù il perdono di Dio, la redenzione, la salvezza. Ciò che la Chiesa predica, sulla scorta di quel vangelo, è il paradiso, è l'eternità di vita, di gioia, di luce in cui il Padre attende ciascuno. L'inferno non è creazione di quel Dio di misericordia, bensì dell'uomo. Dio lo ha forgiato libero, non ha voluto degli schiavi ma dei figli, non impone la Sua presenza proprio per rispettare la loro totale autonomia. La rispetta sino in fondo: sino, dunque, alla possibilità del rifiuto, ostinato e pervicace, della proposta di alleanza e di amore; sino alla possibilità di preferire le tenebre alla luce, il male al bene. Come ha detto qualcuno, con un paradosso non infondato, «senza l'inferno, il paradiso sarebbe un lager». Sarebbe, cioè, un luogo (o, meglio, un misterioso «stato», non essendovi nell'aldilà il tempo e lo spazio), un luogo di destinazione obbligata cui nessuno potrebbe sottrarsi. La vita come una linea ferroviaria con un solo capolinea. Con l'abolizione conseguente della libertà di scegliere in tutta autonomia la propria destinazione. Foss'anche suicida.
A conferma del rispetto del mistero, la Chiesa, facendo beati e santi, impegna la sua autorità nel proclamare che un defunto è certamente in paradiso. Ma mai ha fatto, né mai farà, «canoni», cioè elenchi, di dannati. Certo, malgrado ogni spiegazione, la prospettiva di una punizione eterna, senza riscatto, ha provocato e provoca interrogativi e reazioni nella Chiesa stessa. Qualche teologo ha ipotizzato che l'inferno esista sì, ma che sia vuoto. Eppure, non a torto qualcuno gli ha replicato: «Potrebbe anche essere vuoto. Ma ciò non toglie che proprio tu ed io potremmo essere i primi ad inaugurarlo».
Corriere della sera, 26 marzo 2007