DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Le due eresie della Cina. Vittorio Messori


Diceva Napoleone a Sant’Elena: «Quando la Cina si sveglierà il mondo tremerà». Negli anni’70 il critico francese Alain Peyrefitte riprese questa previsione in un libro che si chiamava proprio Quando la Cina si sveglierà. Ricordo che appena uscì molti scossero il capo dicendo che fosse pura utopia.

In realtà oggi vediamo come la Cina si sia svegliata davvero. È diventata il maggior esportatore del mondo e detiene la maggioranza del debito pubblico americano: gli Stati Uniti sono il paese più indebitato del mondo, se la Cina si rifiutasse di comprare i loro buoni del tesoro gli Usa dichiarerebbero bancarotta.

La Cina oggi è un posto terribile, forse il peggiore dal mondo. In politica persiste un ipocrita comunismo, per cui i ritratti di Mao continuano a campeggiare sugli edifici pubblici. E in economia predomina un liberismo selvaggio da Europa dell’800: un liberismo senza leggi, senza sindacati per cui i cinesi sono ancora degli schiavi al servizio di una spaventosa crescita economica.

La Cina ha un miliardo e 300 milioni di abitanti. Il Cristianesimo è marginale, riguarda solo pochi milioni di individui e tra l’altro, come sappiamo, la Chiesa cattolica è stata divisa in due: lo Stato ha voluto rifondare una Chiesa allineata. Eppure anche in Cina ha vinto l’Occidente, e quindi in qualche modo ha vinto l’eredità cristiana.

Oggi infatti la Cina è dominata da due eresie di derivazione biblica. Da una parte il marxismo in politica non è altro che il giudeo-cristianesimo secolarizzato. E dall’altra, il liberismo cinese non è altro, in fondo, che l'attuazione esasperata della parabola evangelica dei talenti da trafficare.

In Occidente abbiamo tuttora degli eccentrici che seguono le dottrine orientali, il confucianesimo, il buddismo tibetano o l’induismo. Ma in realtà l’Oriente vero si è occidentalizzato e quindi in qualche modo cristianizzato. Ha vinto un giudeo-cristianesimo stravolto, mutilato. E tuttavia malgrado lo stravolgimento il messaggio di Gesù ha agito da lievito. Il mondo anche nei suoi drammi moderni ha in fondo delle radici cristiane.

(testo raccolto dalla redazione e non rivisto dall’autore)


© Copyright La Bussola

Gli abusi dei sacerdoti come "frecce e pallottole". Di Vittorio Messori

Corriere della Sera 12 maggio 2010
di Vittorio Messori

Adesso, nella schiera vasta, talvolta inquietante dei «fatimisti» ci sarà fermento per mostrare che papa Benedetto XVI si è tradito, che ha smentito il cardinal Ratzinger quando fiancheggiò Giovanni Paolo II nella rivelazione del mitico Terzo Segreto.


In effetti, molte parole si sono accumulate da quel 2000 in cui il Segretario di Stato, Sodano, diede lettura del testo, accanto al Papa che aveva appena beatificato i piccoli Francisco e Giacinta.

Libri, pamphlet, articoli, inchieste televisive hanno sostenuto, con scialo di argomentazioni, che il duo Wojtyla-Ratzinger ci ha ingannati, che il Segreto era ben altro e riguardava la crisi della Chiesa dopo il Concilio.

Qualcuno, per attenuare la responsabilità degli illustri «falsari» — il Pontefice, il Prefetto della fede, suor Lucia stessa che confermò per scritto la loro versione — hanno ipotizzato, più che un inganno, una reticenza.

Il testo, cioè, sarebbe stato amputato. Vera la parte rivelata, ma un’altra esiste ed è stata nascosta, per non appannare il prestigio del Vaticano II, per non farlo responsabile della catastrofe ecclesiale.

Catastrofe venuta dall’interno, dunque, mentre si vorrebbe farci credere, con il testo pubblicato, che i nemici della Chiesa siano solo all’esterno. Si ricorderà, in effetti, la scena drammatica descritta da suor Lucia: «Il Santo Padre, prostrato in ginocchio ai piedi della grande Croce, venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri i Vescovi Sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni».

Ecco che ora, rispondendo alle domande dei giornalisti, Benedetto XVI mette lo scandalo della pederastia clericale tra ciò che in qualche modo sarebbe stato predetto nel messaggio di Fatima. Un attentato al Vangelo ma venuto da dentro, dal clero, talvolta dalla Gerarchia stessa: dunque, una crisi di fede, un disastro frutto della Catholica devastata dal Concilio. Proprio ciò che starebbe nel Terzo Segreto «vero» e che ci sarebbe stato nascosto.

Chi darà questa lettura non avrà visto le parole di papa Ratzinger nella loro interezza. La persecuzione di cui parla Fatima, rileva il Papa, può venire da fuori, come è annunciato nel testo noto, ma anche dall’interno. Le sofferenze della Catholica, a cominciare dallo strazio del Papa, sono inflitte da chi sta «fuori» ma pure da chi sta «dentro».

Questi abusi di sacerdoti sono per il Capo della Chiesa comparabili alle «pallottole e alle frecce» tirate dai miscredenti. I persecutori sono spesso quei sedicenti seguaci del Vangelo che in realtà lo tradiscono, sfidando le parole di Gesù. Dunque, dice papa Ratzinger, proprio la parola «penitenza» ripetuta per tre volte dagli angeli del Terzo Segreto, è un appello alla Chiesa perché non tema soltanto i nemici esterni ma provveda pure a purificare se stessa.

Parole di precisazione vane, per i sostenitori della mistificazione vaticana. Mi si permetta allora, per capire il milieu, una testimonianza personale. Durante le 24 ore di colloquio a tu per tu da cui nacque Rapporto sulla fede, chiesi all’allora cardinal Ratzinger se avesse letto il Terzo Segreto.

«Sì, l’ho letto», fu la risposta secca e immediata. Come naturale, su questo lo incalzai, non ottenendo, ovviamente, la rivelazione del contenuto ma alcune frasi significative. Il libro uscì nel giugno del 1985, ma nel novembre precedente alcune anticipazioni — tra cui quella su Fatima — comparvero sul mensile Jesus. Nel passaggio dal giornale al volume, rividi tutto il testo e lo feci completamente da solo, in piena libertà, visto che il Cardinale avrebbe esaminato con attenzione ogni riga prima dell’imprimatur. Così, anche a proposito di Terzo Segreto, a vantaggio dello stile e della leggibilità cambiai un aggettivo, soppressi una parola, un’altra la aggiunsi, inserii un particolare e così via.

Alla fine, Ratzinger lesse, si riconobbe, approvò e, nel caso specifico, senza alcun ritocco. Ebbene: molti anni sono passati da allora e ancor oggi cresce una massa di libri, inchieste, articoli in molte lingue dove infinite pagine sono dedicate al confronto tra le parole del cardinale stampate sul giornale e la versione delle stesse sul libro. Differenze che rivelerebbero strategie, trame, occultamenti, vendette, da parte di potenti «cupole»… È solo un esempio. Fatima attira devoti ma anche visionari, complottardi, dietrologi. Finendo, così, per dimenticare che tutto, alla fine, è molto semplice e si riassume in due sole parole: «Preghiera, penitenza».

Vittorio Messori Il secolarismo ha vinto, ma io non rimpiango lo zelo Dc. Meglio una minoranza creativa. Come quella di Pannella

Una realtà sgradevole e misteriosa ma necessaria alla libertà dell'uomo di VITTORIO MESSORI

«Eminenza, perché i preti nelle loro infinite omelie (più di 25.000 ogni domenica nella sola Italia) non parlano più dell'aldilà e, soprattutto, rifuggono dal pronunciare una parola che è diventata tabù: inferno?». Alla domanda, l'allora Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, Joseph cardinal Ratzinger, mi guardò un po' ironico: «Il fatto è che oggi tutti, anche nel clero, ci crediamo talmente buoni da non poter meritare altro che il paradiso. Siamo impregnati di una cultura che, a forza di alibi e di attenuanti, vuol togliere agli uomini il senso della loro colpa, del loro peccato.
Lo osservi: tutte le ideologie della modernità sono unite da un dogma fondamentale.
E, cioè, la negazione di quella realtà che la fede lega all'inferno: il peccato».

Ben consapevole che si tratta di una realtà misteriosa e sgradevole ma non rimovibile (parola di Gesù stesso: «I malvagi se ne andranno all'eterno supplizio») Ratzinger, prima come cardinale e ora come papa, non pratica sconti sul Credo e anche di inferno ha parlato e parla, con quel suo tono didattico e zelante e quel suo volto da fanciullo ottantenne. Lo ha fatto anche ieri nella parrocchia della periferia romana, mettendo in guardia chi amasse il peccato, chi volesse chiudere le porte a Dio. Chi insomma, all'inferno proprio volesse andarci. Perché, in effetti, proprio qui sta il problema: non Dio ci condanna, siamo noi stessi a farlo, a respingere — per qualche autodistruttività enigmatica — il perdono, la salvezza, la gioia.
C'è qualcosa di sospetto nella reazione spesso violenta del «mondo», quando la Chiesa riafferma la sua convinzione dell'esistenza di un realtà che non può rimuovere, essendo su questo troppo recisa e chiara la Scrittura. Per il non credente anche, soprattutto l'inferno dovrebbe rientrare nei miti oscurantisti di una fede da respingere con uno scuotimento di spalle. E, invece, proprio qui certa cultura sembra reagire, come turbata ed inquieta, non con l'ironia ma con l'invettiva. Tanto che in quel Perché non sono cristiano, che è una sorta di summa delle ragioni del rifiuto del moderno Occidente, Bertrand Russell finì col restringersi a uno scandalo supremo, inaccettabile fra tutti: l'inferno, appunto.
Simili reazioni dimenticano che il vangelo si chiama così — «buona notizia » — perché annuncia in Gesù il perdono di Dio, la redenzione, la salvezza. Ciò che la Chiesa predica, sulla scorta di quel vangelo, è il paradiso, è l'eternità di vita, di gioia, di luce in cui il Padre attende ciascuno. L'inferno non è creazione di quel Dio di misericordia, bensì dell'uomo. Dio lo ha forgiato libero, non ha voluto degli schiavi ma dei figli, non impone la Sua presenza proprio per rispettare la loro totale autonomia. La rispetta sino in fondo: sino, dunque, alla possibilità del rifiuto, ostinato e pervicace, della proposta di alleanza e di amore; sino alla possibilità di preferire le tenebre alla luce, il male al bene. Come ha detto qualcuno, con un paradosso non infondato, «senza l'inferno, il paradiso sarebbe un lager». Sarebbe, cioè, un luogo (o, meglio, un misterioso «stato», non essendovi nell'aldilà il tempo e lo spazio), un luogo di destinazione obbligata cui nessuno potrebbe sottrarsi. La vita come una linea ferroviaria con un solo capolinea. Con l'abolizione conseguente della libertà di scegliere in tutta autonomia la propria destinazione. Foss'anche suicida.
A conferma del rispetto del mistero, la Chiesa, facendo beati e santi, impegna la sua autorità nel proclamare che un defunto è certamente in paradiso. Ma mai ha fatto, né mai farà, «canoni», cioè elenchi, di dannati. Certo, malgrado ogni spiegazione, la prospettiva di una punizione eterna, senza riscatto, ha provocato e provoca interrogativi e reazioni nella Chiesa stessa. Qualche teologo ha ipotizzato che l'inferno esista sì, ma che sia vuoto. Eppure, non a torto qualcuno gli ha replicato: «Potrebbe anche essere vuoto. Ma ciò non toglie che proprio tu ed io potremmo essere i primi ad inaugurarlo».

Corriere della sera, 26 marzo 2007

I preti evangelizzatori e le insidie di Internet. Di VITTORIO MESSORI

Sbaglierebbe chi si allarmasse dopo aver dato un'occhiata ai titoli dedicati ieri al messaggio di Benedetto XVI per la Giornata delle comunicazioni sociali: cyber-preti, digital Church, web-gospel. Anche tra non praticanti - la maggioranza, ormai, degli italiani, eppure, in fondo, contenti che una Chiesa esista e che conservi il suo aspetto di sempre - qualcuno si è inquietato, pensando che un freddo schermo sostituirà il volto rubizzo del parroco o che le confessioni saranno via chat.
Non sarà così. Come diceva André Frossard , «il Dio cristiano sa contare solo sino a uno»: il messaggio di Gesù non è una ideologia come quelle moderne, rivolte alle masse, alla umanità, alla classe, alla nazione, al popolo, al partito. È una parola calibrata per ciascuno, non conosce l'anonimato, vuole venire in soccorso a figli di un Padre per il quale tutti hanno un nome, un cognome, una storia unica.
Il contatto umano, il tête-à-tête, l'ascoltare e il parlare, sono essenziali per la vita della Chiesa e non verranno mai meno.
È, tra l'altro, un aspetto del cristianesimo che è assai caro proprio a Benedetto XVI, grande intellettuale ma nemico della astrattezze ideologiche e fautore della riscoperta di una fede incarnata, concreta, «tattile»: a cominciare dalla liturgia che, per lui, deve tornare a dare emozioni e sensazioni del Sacro.
Ciò che il papa ribadisce, con questo documento, è che «anche nel cyberspazio Dio ha diritto di cittadinanza», che c'è qui una grande occasione di evangelizzazione, offerta da un nuovo strumento in grado di valicare ogni frontiera e di giungere subito a tutti.
Per secoli la Chiesa ha utilizzato il pulpito (soprelevato e munito di apposita tettoia per fare giungere la voce più lontano) e le pergamene vergate dai monaci negli scriptoria; subito, poi, si impadronì della stampa a caratteri mobili; appena la tecnologia lo permise munì le chiese di altoparlanti elettrici; utilizzò più a fondo possibile il cinema, tanto che la rete delle sale parrocchiali fu la più vasta in Italia; radio e, poi, televisione furono impiegati quanto possibile...
Non ci si è sgomentati di certo per l'arrivo di Internet: anzi, il fervore di iniziative è stato tale che ormai solo poche parrocchie non hanno un loro spazio apposito nella Rete ed è impressionante il continuo aumento dei «siti cattolici» schedati dai motori di ricerca.
Il tradizionale volontariato dei credenti si è riversato qui, mettendo a disposizione competenze e talenti per una presenza capillare.
È di questo lavoro che il papa si compiace, esortando a non diminuire l'impegno e ribadendone l'importanza per l'apostolato e, in generale, per i rapporti tra le persone.
Certo, come ogni cosa umana, Internet ha due facce: è possibile ad esempio, seguire ogni giorno il rosario in diretta, in molte lingue, dalla grotta di Lourdes o si può dialogare tra membri delle molte Confraternite di san Giuseppe. Ma, con il clic su un diverso indirizzo, si accede al maggior spazio pornografico del mondo e della storia, per giunta in parte gratuito, tanto da avere costretto alla chiusura giornali e sale cinematografiche hard.
La natura bifronte della Grande Rete è esemplificata dalle statistiche delle visite, per le quali hanno tre sole lettere le due parole più cliccate dagli internauti: God e Sex. Ma, per tornare alla prospettiva cattolica, vi è un aspetto che sembra sfuggire agli osservatori: Internet ha favorito un impetuoso ritorno a una «scienza» che sembrava dimenticata nella Chiesa stessa, mentre sin dagli inizi aveva avuto una grande parte nell'evangelizzazione. Parliamo della apologetica, intesa come difesa dell'accordo tra fede e ragione, tra storia e Bibbia, tra Chiesa e vangelo.
Dopo il Vaticano II erano spariti, nei seminari stessi, i vecchi manuali apologetici, giudicati inutili in un mondo dove la verità della fede si sarebbe testimoniata con l'impegno sociale e non con le dimostrazioni logiche o storiche. In realtà anche queste erano - e sono più che mai - necessarie e alla loro riscoperta ha dato grande incremento la Rete.
Qui, infatti, molti siti e molti blog e forum sono dedicati alla demolizione delle basi storiche delle Scritture e alla polemica sulla storia della Chiesa. Si va da studi universitari a sparate da Bar Sport, da insidiose critiche a bestemmie triviali.
Sta di fatto che, punti sul vivo, gli internauti cattolici (clero e laici, questi in gran numero) hanno reagito, rispolverando i testi apologetici per replicare al vecchio ma sempre rilanciato elenco di accuse: vangelo come mito orientale, miracoli come superstizione, Galileo, inquisizione, crociate, massacro dei catari, notte di San Bartolomeo, conquista delle Americhe, condizione della donna, simonia, rapporti tra cattolicesimo e totalitarismi...
E via sgranando il rosario consueto ma che ora ha una nuova, straordinaria visibilità. Ferve, sul web, la difesa dell'accordo tra fede e ragione, tra fede e storia: un rilancio di cui si compiace Joseph Ratzinger che proprio a questi temi ha dedicato la vita, prima come professore, poi come Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, infine come Pastore della Chiesa universale.

© Copyright Corriere della sera, 25 gennaio 2010

Ebrei e Cristiani, una disputa (e un mistero) in famiglia VITTORIO MESSORI

In questi giorni, torrenti di parole per la visita di Benedetto XVI alla Sinagoga romana, eretta là dove sorgeva il ghetto e orientata in modo da fronteggiare, quasi a sfida, la basilica, la più grande del mondo, che copre il sepolcro di un tal Simone.
Un pio giudeo, costui, un oscuro pescatore sul lago di Tiberiade, rinominato Kefas, Pietro, da un certo Gesù, colui che, storicamente, altro non è se non un predicatore ambulante ebraico dell'epoca del Secondo Tempio, uno dei tanti che si dissero il Messia atteso da Israele. Il solito esaltato, all'apparenza (e tale apparve a un burocrate di Benevento, della famiglia dei Ponzi, chiamato controvoglia a giudicarlo), un visionario. Punita con la più vergognosa delle morti, quella riservata agli schiavi. Un illuso di cui si sarebbe perso il ricordo se i suoi discepoli tutti circoncisi e fedeli alla Torah non avessero cominciato a proclamare, con una testardaggine intrepida, che quel rabbì finito in malo modo era risorto ed era davvero l'Unto annunciato dai profeti. Quel gruppetto di ebrei riuscì a convincere altri ebrei, prima a Gerusalemme e poi nelle sinagoghe dell'emigrazione, dove si recarono ad annunciare che l'attesa millenaria di Israele aveva avuto compimento. La messe maggiore tra i correligionari la fece un credente entusiasta, un altro figlio di Abramo, un Saulo detto Paolo che, perché le cose fossero chiare, precisava subito ai correligionari di essere «circonciso l'ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo, figlio di ebrei». Anch'egli, come Pietro, finì ucciso dai pagani a Roma e anche sul suo sepolcro fu costruita una gigantesca basilica. Se da tutta l'Europa, per tutto il Medio Evo, folle di pellegrini convennero salmodianti e penitenti sul Tevere, è proprio per venerare la sepoltura di quelle due «colonne della fede»: entrambe, costituite da giudei sino al midollo.
A lungo, i pagani non si preoccuparono di distinguere, dividendo sbrigativamente gli ebrei in due gruppi, quelli che alla loro fede aggiungevano questo esotico Cristo e quelli che lo rifiutavano: noiose dispute, querelles teologiche viste tante volte all'interno di ogni religione.
Benedetto XVI, leggo in una cronaca, aveva con sé una piccola Bibbia che ha posato sul sedile dell'auto, scendendo davanti alla sinagoga. Ebbene, tra i 73 libri che compongono quel Testo su cui si fonda la fede della Chiesa solo Luca e, forse, Marco non sono figli di Israele.
Tanto che si preferisce oggi sostituire l'indicazione di «Antico» e «Nuovo» Testamento con quella di «Primo» e «Secondo» Testamento, per sottolineare la continuità e l'omogeneità del messaggio. Perché ricordiamo tutto questo, e molto altro ancora che potremmo allegare?
Ma perché numerosi commentatori, anche in questi giorni, sembrano dimenticare che, qui, vi è una storia in famiglia e, al contempo, un mistero religioso. È una storia di fede, e di fede soltanto: il «laico» può soltanto intravederne, e spesso in modo fuorviante, i contorni esterni. È un confronto tra figli di Abramo, sia per nascita che per adozione. E anche questo aspetto familiare ne spiega le asprezze, non unicamente da una parte: gli Atti degli Apostoli e le lettere di Paolo mostrano quanto dura sia stata la reazione del giudaismo ufficiale nei confronti degli «eretici».
Ma chi ignora che i contrasti più aspri sono proprio quelli tra parenti stretti, che le guerre più temibili sono quelle civili? Fratelli, coltelli. Il cristianesimo è da duemila anni la fede in un Messia di Israele annunciato e atteso nei duemila anni precedenti da quello stesso Israele che poi in parte ma solo in parte non lo ha riconosciuto. Per l'ennesima volta, molte delle analisi e opinioni di questi giorni non sembrano consapevoli che qui siamo al di là delle categorie della storia, della politica, della cultura. I rapporti interni al giudeo-cristianesimo non sono un «problema» affrontabile con le consuete categorie: sono, lo dicevamo, un Mistero. Parola di Saulo-Paolo, e proprio ai Romani: «Non voglio, infatti, che ignoriate questo Mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte d'Israele è in atto fino a quando saranno entrate tutte le genti. Allora, tutto Israele sarà salvato, come sta scritto».
In ogni caso, anche gli «induriti», sono «amati a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili».
Del tutto insufficienti, qui, le sapienze di politologi e intellettuali che non siano consapevoli che il confronto tra ebrei e cristiani appartiene non alla storia, ma alla teologia della storia. Solvitur in Excelsis: qui vi è un enigma, troppo spesso doloroso, che trova spiegazione solo nei Cieli, per dirla con quel grande filosofo e insieme grande cristiano che fu Jean Guitton.

© Copyright Corriere della sera, 19 gennaio 2010

Quel film di Verdone troppo nichilista per essere cattolico. Vittorio Messori

La rimpatriata del missionario è disastrosa, al punto da costringerlo a rientrare subito in Africa

Carlo Verdone in «Io, loro e Lara» (Ansa)
Carlo Verdone in «Io, loro e Lara» (Ansa)
Non è difficile avere un pregiudizio positivo verso Carlo Verdone. Non è difficile, dico, in un mondo dello spettacolo dove i comici si trasformano in demagoghi giustizialisti e in capipopolo giacobini. Dove registi pensosi, sprezzanti del pubblico, lanciano i loro «messaggi» e le loro «denunce sociali» in film finanziati coi soldi pubblici e che, dopo una fugace apparizione in qualche festival, non raggiungono gli schermi. Dove — me lo raccontava un amico — l’imprudenza di qualcuno portò sul set di una pellicola veri cani antidroga della Finanza, invece dei finti previsti, e gli animali impazzirono, non sapendo quale attore, o attrice bloccare per primi.

Il look e, a quanto mi dicono, l’ordinatissimo stile di vita di Verdone, sono quelli di un direttore di ufficio postale o di un professore di scienze alle medie. Eppure, quel suo volto tondo e apparentemente anonimo sa trasformarsi e contorcersi come fosse di caucciù e la battuta lo trasforma in una sorta di Woody Allen de noantri, dove il sulfureo umorismo ebraico è sostituito dalla arguta bonarietà romanesca. Non andando molto spesso al cinema, non ho visto tutti i film di un regista e attore che, proprio in questo 2010, compie trent’anni di carriera. Non potevo perdere, però, questo Io, loro e Lara anche per la segnalazione fattami da un monsignore amico che ha partecipato a una proiezione in anteprima. «Non ci sono scene pornografiche, tranne qualche seno che spunta a metà. C’è, è vero, una quantità impressionante di parolacce: ma non fermiamoci lì, oggi tutti parlano così ed è proprio un ritratto nudo e crudo della società italiana che Verdone voleva darci. Ma, sotto certo macchiettismo in fondo autoironico, per non prendersi troppo sul serio, c’è il vecchio romano che ha studiato dalle suore e dai preti, che ha di certo uno zio o una cugina religiosi e che, dunque, non può non essere permeato sin nelle ossa di cattolicesimo». Così mi diceva quel sacerdote, suggerendomi di andare a vedere il film per, poi, scambiare opinioni.

La prima— confortante— sorpresa riservatami dalla pellicola è stata la sala esaurita, in una sera di neve in un multiplex sperduto tra le vigne delle colline moreniche del Garda. La seconda è stata un pur timido e breve tentativo di applauso al termine della proiezione. Avevo con me un taccuino, per segnare qualche critica ma, alla fine, l’ho deposto nella tasca. In bianco. Certo: a giustificare un simile «nulla da eccepire» in questioni teologiche (per usare un termine troppo impegnativo) conta anche la mancanza di approfondimento scelta da Verdone. La crisi del missionario in Africa nasce da motivazioni scontate, da cose dei tempi della bagarre postconciliare. Per dirla con le parole di don Carlo, il protagonista omonimo dell’attore e regista: «Ho l’impressione che, laggiù, la gente abbia bisogno di protezione civile più che di protezione divina». Il prete, soprattutto se missionario, come agente di promozione economica e politica e non come annunciatore della vittoria della morte nella Risurrezione di Gesù. Un déjà vu. Nulla di nuovo né di «scavato», dunque, dietro la crisi di identità di don Carlo. Quanto alla sue reazioni davanti al «puttanaio», parole sue, che trova dopo dieci anni di Africa nella sua famiglia, nella sua Roma: beh, alla sorpresa, all’incapacità di capire che stia succedendo, seguono reazioni da prete di sempre che, pur alternando il turpiloquio alle giaculatorie, non si allontana dalle classiche esortazioni alla solidarietà, alla comprensione, all’accoglienza. Tutto molto edificante, pur sotto le forme più che laiche dell’attore e regista; tutto unito, tra l’altro, ad altre edificazioni, come la reazione violenta ai tentativi di seduzione sia di tardone che di ragazze.

Ha detto Verdone: «I vertici della Conferenza episcopale, al termine di una proiezione privata, mi hanno detto: "Ci hai fatto una carezza"». Non sappiamo se fosse davvero la «cupola» della Conferenza episcopale a visionare Io, loro e Lara, ma è plausibile che il giudizio sia stato sostanzialmente positivo, come già accennavo. Ma l’indubbio marchio cattolico del film di un romano permeato di cattolicesimo sino al midollo, deve fare i conti con il finale, dove qualche critico ha visto un happy end posticcio, un’aggiunta per mandare lo spettatore a casa sereno. Al contrario, è qui la chiave dell’opera e il credente, almeno, non può non allarmarsi per una conclusione di impotenza e di fallimento. La rimpatriata del missionario è stata disastrosa, al punto da costringerlo a rifar subito le valigie e a rientrare in Africa. La «cura» per la sua crisi si è dimostrata ben peggiore del male. Restano intatti, dunque, anzi rafforzati, i suoi problemi che mettono in discussione la fede stessa.

Ma gli auguri di Natale, che giungono alla remota missione via web-cam dalla terribile famigliola, confermano che nulla è cambiato e nulla cambierà neppure lì. Il vecchio padre continuerà a imbottirsi di viagra per fronteggiare le giovani badanti, il fratello affarista continuerà a sniffare coca, le nipoti continueranno a essere schiave di mode assurde, la sorella continuerà con le sue nevrosi devastanti, Lara ha avuto il suo bambino ma continuerà con il suo turbinio di amori. Il mondo è questo, non c’è speranza di mutamento, né per credenti né per non credenti. La sola possibilità sta in quello scrollare il capo, sorridendo tra il malinconico e il rassegnato, con cui Verdone chiude il film, mentre il precario collegamento con Roma si interrompe. È la vita, bellezza, nessuno può farci niente! Realismo, certo. Ma che slitta verso lo scetticismo, se non il nichilismo, se ad esso non si affianca l’afflato di Speranza che deve animare il credente. Problematico definire «cattolica» una prospettiva dove c’è posto solo per il sorriso rassegnato di chi è ormai convinto che nulla cambierà mai, che ogni attesa di un mondo più umano è cosa da riderci sopra. Come, appunto, un comico deve fare. E come Verdone, sia detto a sua lode, sa fare benissimo.

Vittorio Messori
08 gennaio 2010

L'enigma della stella di Betlemme. di Vittorio Messori

Da Storia libera traggo questo interessante brano di Vittorio Messori, tratto da "Ipotesi su Gesù", SEI:

Viene ancora dall'archeologia un'altra serie di strane testimonianze. Noi oggi sappiamo con sicurezza che la più celebre astrologia del mondo antico, quella babilonese,
Adorazione dei Magi - Il Ghirlandaio - Clicca per ingrandire non soltanto era anch'essa in attesa del Messia dalla Palestina. Ma ne aveva previsto la data con una precisione ancor maggiore di quella degli esseni. Ecco qui di seguito la vicenda: libero ciascuno di trarne le conclusioni che gli pare.

Tutto parte dalla stella (il testo non parla mai di cometa, come molti credono) che avrebbe brillato nel cielo di Betlemme alla nascita di Gesù e dal conseguente arrivo di certi magi dall'Oriente. Così, almeno, quanto si racconta nel vangelo di Matteo.

Non si è naturalmente raggiunta la certezza che le cose si siano davvero svolte come raccontato da Matteo, né si giungerà mai a questa sicurezza: è però certo che l'ipotesi che si tratti di un racconto simbolico deve fare i conti con una serie di scoperte effettuate nell'arco degli ultimi tre secoli.

Pare intanto provato ormai scientificamente che gli astrologi babilonesi (quasi certamente i magi di Matteo) attendevano la nascita del «dominatore del mondo» a partire dall'anno 7 a.C. Questa data, con l'anno 6 a.C., è tra quelle che gli studiosi danno come più sicure per la nascita di Gesù. Il monaco Dionigi il Piccolo, infatti, calcolando nel 533 l'inizio della nuova era, si sbagliò e posticipò di circa 6 anni la data della Natività.

In questa luce, acquistano nuovo suono i due versetti del secondo capitolo di Matteo: «Nato Gesù in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco dei magi arrivare dall'oriente a Gerusalemme, dicendo: "Dov'è nato il re dei Giudei? Abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti ad adorarlo"».

Ecco le tappe che avrebbero portato a chiarire il perché dell'arrivo e della domanda dei magi. Una vicenda che ha quasi il sapore di un «giallo».

Nel dicembre del 1603 il celebre Keplero, uno dei padri dell'astronomia moderna, osserva da Praga la luminosissima congiunzione (l'avvicinamento, cioè) di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci. Keplero, con certi suoi calcoli, stabilisce che lo stesso fenomeno (che provoca una luce intensa e vistosa nel cielo stellato) deve essersi verificato anche nel 7 a.C. Lo stesso astronomo scopre poi un antico commentario alla Scrittura del rabbino Abarbanel che ricorda come, secondo una credenza degli ebrei, il Messia sarebbe apparso proprio quando, nella costellazione dei Pesci, Giove e Saturno avessero unito la loro luce.

Pochi diedero qualche peso a queste scoperte di Keplero: prima di tutto perché la critica non aveva ancora stabilito con certezza che Gesù era nato prima della data tradizionale. Quel 7 a.C., dunque, non «impressionava». E poi anche perché l'astronomo univa troppo volentieri ai risultati scientifici le divagazioni mistiche.

Oltre due secoli dopo, lo studioso danese Münter scopre e decifra un commentario ebraico medievale al libro di Daniele, proprio quello delle «settanta settimane». Münter prova con quell'antico testo che ancora nel Medio Evo per alcuni dotti giudei la congiunzione Giove-Saturno nella costellazione dei Pesci era uno dei «segni» che dovevano accompagnare la nascita del Messia. Si ha così una riprova della credenza giudaica segnalata da Keplero che, con le «date» di Giacobbe e di Daniele, può avere alimentato l'attesa ebraica del primo secolo.

Nel 1902 è pubblicata la cosiddetta Tavola planetaria, conservata ora a Berlino: è un papiro egiziano che riporta con esattezza i moti dei pianeti dal 17 a.C. al 10 d.C. I calcoli di Keplero (già confermati del resto dagli astronomi moderni) trovano una conferma ulteriore, basata addirittura sull'osservazione diretta degli studiosi egiziani che avevano compilato la «tavola». Nel 7 a.C. si era appunto verificata la congiunzione Giove-Saturno ed era stata visibilissima e luminosissima su tutto il Mediterraneo.

Infine, nel 1925 è pubblicato il Calendario stellare di Sippar. E' una tavoletta in terracotta con scrittura cuneiforme proveniente appunto dall'antica città di Sippar, sull'Eufrate, sede di un'importante scuola di astrologia babilonese. Nel «calendario» sono riportati tutti i movimenti e le congiunzioni celesti proprio del 7 a.C. Perché quell'anno? Perché, secondo gli astronomi babilonesi, nel 7 a.C. la congiunzione di Giove con Saturno nel segno dei Pesci doveva verificarsi per ben tre volte: il 29 maggio, il 1° ottobre e il 5 dicembre. Da notare che quella congiunzione si verifica soltanto ogni 794 anni e per una volta sola: nel 7 a.C., invece, si ebbe per tre volte. Anche questo calcolo degli antichissimi esperti di Sippar fu trovato esatto dagli astronomi contemporanei.

Gli archeologi hanno infine decifrato la simbologia degli astrologi babilonesi. Ecco i loro risultati: Giove, per quegli antichi indovini, era il pianeta dei dominatori del mondo. Saturno il pianeta protettore d'Israele. La costellazione dei Pesci era considerata il segno della «Fine dei Tempi», dell'inizio cioè dell'era messianica.

Dunque, potrebbe essere qualcosa di più di un mito il racconto di Matteo dell'arrivo dall'Oriente a Gerusalemme di sapienti, di magi, che chiedono «Dov'è nato il re dei giudei?».

E' ormai certo, infatti, che tra il Tigri e l'Eufrate non solo si aspettava (come in tutto l'Oriente) un Messia che doveva giungere da Israele. Ma che si era pure stabilito con stupefacente sicurezza che doveva nascere in un tempo determinato.

Quel tempo in cui, per i cristiani, il «dominatore del mondo» è veramente apparso.

Il segreto dell'armonia. Quel numero divino che scorre nel sangue. Di Vittorio Messori

Ne ha dato notizia, di recente, anche questo giornale. Stando ai risultati di una vasta inchiesta di un’università austriaca (ben 150.000 soggetti di entrambi i sessi controllati e seguiti per anni), hanno miglior salute e speranza di vita più elevata coloro che hanno un rapporto tra pressione arteriosa massima e minima pari a 1,618. Il curioso è che, a quanto pare, i medici che hanno pubblicato i dati dell’indagine non erano consapevoli del fatto che non si tratta di un rapporto numerico “qualunque“ e si sono sorpresi quando qualcuno ha rivelato loro di che si trattava. Che cos’è, infatti, questo 1,618? Gli strumenti elettronici ne mostrano sempre più la presenza, a era già ben noto agli antichi, che lo legarono al Sacro, chiamandolo “ proporzione divina“ o “sezione aurea“ . Per spiegarsi con l’esempio più semplice : da un bastone di un metro se ne taglino 38,2 centimetri, lasciandone dunque 61,8 centimetri. I due pezzi sono così in una dimensione armonica tra loro: in effetti, il rapporto tra il pezzo più lungo e il più corto è eguale al rapporto tra il pezzo più lungo e il bastone quando era intero. Questo rapporto è costante ed è sempre di 1,618, per dare solo i tre primi decimali . Questo numero è ancor più enigmatico per noi di quanto apparisse agli antichi che non conoscevano, pare, la “successione di Fibonacci“, dove ogni cifra è data dalla somma delle due precedenti: 0,1,1,2,3,5,8,13….Sin dall’inizio, il rapporto tra due numeri successivi della serie si avvicina al valore esatto e, a partire da 34, diviene pari alla “sezione aurea“ e tale resta all’infinito, diventando sempre più preciso. E’ certo che scultori, pittori e architetti greci e romani – e, forse, ancor prima egizi - si servirono largamente della “proporzione divina“, tanto che secondo molti critici starebbe qui il segreto dell’armonia inimitabile di quelle opere d’arte. Forse la Grande Piramide di Cheope , certamente il Partenone di Atene, l’Arco di Costantino il Pantheon di Roma , l’acquedotto di Segovia e del Gard e molto altro hanno dimensioni calcolate in 1,618 . Le Corbusier, forse il più celebre costruttore del secolo scorso , pur comunista e ateo . si fece apostolo della “proporzione divina“, sostenendo che era il segreto per ritrovare una architettura a misura d’uomo. Partendo da quella dimensione armonica voleva disegnare case da abitazione e città intere, certo di contribuire così alla “pacificazione interiore“. Comunque, gli artisti antichi non facevano che rifarsi al Creato che li circondava, secondo la legge classica : natura magistra artis, la natura maestra dell’arte. In effetti era noto ai sapienti dell’era classica quanto siamo in grado di stabilire oggi con gli strumenti elettronici : quel rapporto che fa sì che una parte sia in proporzione armonica col tutto è presente nella fisica, nella botanica , nella zoologia, nella mineralogia, nella chimica. Come mostrò Leonardo con il celeberrimo disegno ispirato a Vitruvio, lo stesso corpo umano, quando le sue proporzioni sono perfette, è tagliato alla vita secondo il “numero d’oro“ e nel medesimo rapporto stanno le varie parti tra loro, dal naso all’alluce. Secondo valori che coincidono o si avvicinano all’1,618 (o secondo dimensioni che rispettano la “sequenza di Fibonacci“, legata direttamente a quel rapporto) sono molti altri organismi viventi, dai pesci, agli uccelli, alle farfalle. Sino al caso particolarmente evidente della stella di mare a cinque punte che non per nulla, con il pentagono che ne deriva, è antichissimo simbolo religioso –e poi massonico- perché tutto basato su questa misura. Così come molte conchiglie, cioè spirali logaritmiche rette dagli stessi rapporti presenti pure in botanica, a partire dalle foglie le quali, tra l’altro (lo si è scoperto di recente) con questa disposizione godono della migliore insolazione. Il caso più sorprendente, analizzato al computer, è il fiore di girasole, con le sue migliaia di gialli semi disposti in perfetta successione “alla Fibonacci“. E chi ha insegnato alle api a costruire quel capolavoro di ingegneria che è il loro alveare, con le sue cellette, tutto eseguito secondo sezione aurea e Fibonacci? Bisogna guardarsi, certo, da forzature apologetiche e riconoscere che non tutto, nella natura, è misura ed armonia. L’ordine sembra convivere con il disordine, almeno apparente. Ma c’è da capire coloro che, dai tempi pagani sino ad oggi -in ambienti non solo cristiani ma anche ebraici, musulmani, buddisti, non dimenticando la tradizione delle Logge- dicono di scorgere nella “sezione aurea“ le impronte digitali del Deus absconditus, del Dio che si cela e al contempo si rivela, lasciando tracce , indizi, segnali nella Sua creazione. La scoperta attuale dei ricercatori austriaci della presenza del “numero divino“ nella circolazione del sangue , simbolo stesso della vita umana, sarà ulteriore conferma per chi crede di scorgere qui un enigma su cui indagare e meditare.

Messori: "Via dagli uffici la foto di Napolitano"

«Seguendo questa logica pericolosa e settaria, dovendo rispettare anche i sentimenti politici oltre che quelli religiosi, perché non chiedere che dagli uffici pubblici sia tolta l’effigie del presidente Napolitano?». Vittorio Messori è in Spagna, per l’uscita del suo ultimo libro, ma non rinuncia a ragionare anche provocatoriamente sul tema del giorno.

Come reagisce alla sentenza di Strasburgo?
«Sono rattristato, amareggiato ma non scandalizzato. L’amarezza nasce da questa considerazione: da molto tempo ormai il crocifisso non è più soltanto un segno religioso, ma è diventato un simbolo umano per eccellenza, il simbolo dell’ingiustizia e della resistenza al male».

Volerlo cancellare è un’offesa alla religione cristiana?
«No, è un’offesa, anzi un peccato contro la storia. Il cristianesimo, la croce, ha a che fare con le origini della civiltà europea e dunque questa sentenza non va contro la religione, ma va contro la nostra storia e il senso della realtà».

Perché è importante il riferimento alle radici cristiane dell’Europa?
«Senza il cristianesimo il nostro continente non esisterebbe o nel caso esistesse, sarebbe assolutamente diverso. Nel V-VI secolo l’Europa non esisteva più, invasa da popoli nuovi provenienti dal Nord. L’amalgama tra la romanità e i barbari fu soltanto la Chiesa cattolica. Furono quelle ventimila abbazie che costellarono il continente, dalla Scozia a Pantelleria, da Lisbona fino a Kiev. I monaci hanno dato un contributo essenziale alla formazione della nostra civiltà».

Perché ha detto che non si scandalizza per la sentenza?
«Perché Gesù Cristo e la sua croce sono più grandi dei burocrati europei. Credo dovremmo smetterla con la pretesa di vivere in un’epoca di cristianità e renderci conto che siamo diventati un piccolo gregge, dunque non mi scandalizzerei a dover esporre la croce solo nei luoghi dove la religione cristiana è praticata. Per i cristiani la croce è ben di più di un simbolo culturale o di un riferimento storico».

Dunque lei toglierebbe i crocifissi?
«Non ho detto questo. L’esposizione dei crocifissi nelle scuole pubbliche, se non vado errato, venne disposta dalla legge Lanza nel 1857, mentre per gli uffici pubblici la disposizione risale al 1923, dopo i Patti Lateranensi. Nel 1988 il Consiglio di Stato ha definito la croce “simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente dalla specifica confessione religiosa”. Vorrei ricordare che anche Palmiro Togliatti decise di far confluire nella Costituzione tutti i Patti Lateranensi e che non si oppose mai all’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici».

Ora però l’Europa sentenzia e legifera...
«Ma allora, scusatemi, potrei chiedere anche di togliere la fotografia del capo dello Stato».

Che cosa fa, provoca? Non è la stessa cosa...
«Non esiste mica solo il sentimento religioso. Esiste anche il sentimento politico, e anche questo può essere offeso, non crede? Il presidente della Repubblica non è un alieno, giunto da Marte il giorno della sua designazione al Colle. Ammettiamo che io mi riconosca in una delle forze politiche che non hanno votato per lui fino all’ultimo. Sulla base del mio sentimento, potrei sentirmi offeso nel vedere la sua fotografia negli uffici pubblici. E chiedere di toglierla».


Il presidente rappresenta la nazione, rappresenta tutti, ed è un’istituzione laica.
«Certo, ma se offende il mio sentimento politico, non ho forse diritto di chiedere la rimozione della sua effigie dal municipio o dalla prefettura? La mia, ovviamente, è una boutade, e non mi sognerei mai di fare una richiesta del genere. Non ho nulla contro il presidente. L’ho detto soltanto per far comprendere che se cominciamo con questa logica, non ci fermiamo più. Abbiamo parlato di sentimento religioso e di sentimento politico. E quello sportivo dove lo mettiamo?».

Chi vuole togliere la croce dalle aule e dagli uffici si appella alla laicità dello Stato e al pluralismo religioso.
«Ribadisco: si tratta di una logica che personalmente trovo aberrante. Il crocifisso è da secoli simbolo di umanità e al contempo di speranza di resurrezione. Oltretutto, dà noia soltanto a qualche laicista nostrano, ma non, ad esempio, ai musulmani, che non mi risulta si siano lamentati».

Come, non ricorda il caso clamoroso di Adel Smith?
«Un caso isolato. Smith non rappresenta alcuna comunità islamica».

Vittorio Messori «A Londra regna il caos dottrinale»

Vittorio Messori è uno dei più noti giornalisti e scrittori su tematiche relative alla Chiesa e alla religione cattolica. È tra l'altro autore del celebre libro- intervista al cardinale Joseph Ratzinger Rapporto sulla Fede.

Prosegue l'opera di rientro nella casa cattolica di fasce di fedeli, in questo caso di tradizionalisti. Un successo per la Chiesa di Ratzinger?

Benedetto XVI è sicuramente contento di questo ritorno, non so quanto lo siano gli ambienti dell'ecumenismo: se tutti tornano cattolici viene a mancare l'oggetto del confronto.

Significa che non c'è stata una spinta da parte di Roma?

La Chiesa cattolica non ha fatto nulla, la richiesta è venuta da gruppi di anglicani, peraltro in buona parte fuori dall'Inghilterra,dove maggiore è il dissenso.

È il sintomo delle difficoltà interne agli anglicani?

Quella Chiesa è sempre stata una sorta di confederazione, contrassegnata da caos dottrinale, che non ha resistito alla nuova ideologia egemone del politically correct, andando peraltro contro la Bibbia. E così sono arrivate le donne sacerdote, poi i gay, che sono addirittura diventati vescovi. È diventato un luogo di ipocrisia.

Da qui la rivolta dei tradizionalisti

Questo andazzo è stato accettato dagli inglesi, ma non da quei fedeli sparsi nelle altre aree del mondo dove sono presenti, che poi sono i paesi dell'ex impero. Da qui la riunione progressiva con Roma.

Ma il rientro dei preti sposati creerà problemi all'interno della Chiesa cattolica?

Assolutamente no. Ci sono già sacerdoti con famiglie nelle chiese orientali. Il problema potrebbe riguardare i vescovi, ma come hanno detto saranno riportati allo stato sacerdotale.

Ci saranno tensioni nel dialogo tra le due Chiese?

Non credo proprio. Quella anglicana è una Chiesa ad esaurimento: basti pensare che a Londra sono più numerosi i musulmani che vanno a pregare in moschea che gli anglicani che la domenica vanno in chiesa.
L'uscita di mezzo milione di persone non avrà alcuna influenza in questo trend, ormai segnato.

Eppure ha cinque secoli di storia alle spalle...

Nacque perché Enrico VIII si voleva risposare, e lo scisma peraltro portò a delle pesanti persecuzioni per i cattolici, e questi sono fatti che spesso vengono dimenticati.
È una chiesa non missionaria, una istituzione imperiale che deve discutere alla Camera dei Comuni e in quella dei Lords le questioni dottrinarie, che alla fine del percorso deve avere l'approvazione formale della Regina.

Insomma, sembra che per la Chiesa anglicana ci sia sullo sfondo una sorta di riunificazione progressiva con Roma?

Di certo sono molti che nel tempo sono tornati al cattolicesimo. Primo fra tutti il cardinale John Henry Newman, che io considero uno dei più grandi pensatori mai esistiti.
Ca.Mar.

© Copyright Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2009