Cinquant’anni fa moriva uno dei più grandi scrittori del Novecento, messo al bando dagli intellettuali del suo tempo (primo fra tutti, l’”amico” Sartre) per aver rifiutato ogni ideologia. Abbiamo riletto le sue opere. Trovandoci «un’apertura indomita» a tutta la realtà. E una lotta appassionata per non censurare nulla dell’umano. A cominciare dal bisogno di perdono
Ero incerto tra due frasi di Albert Camus, tratte dai suoi Taccuini, con cui cominciare questo articolo dedicato ai cinquant’anni dalla scomparsa prematura e improvvisa del grande scrittore, avvenuta il 4 gennaio 1960 a causa di un incidente stradale.
Alla fine ho deciso di usarle tutte e due, i lettori capiranno bene il perché.
La prima è del 1951 e dice così: «Cominciare a donare sé stessi significa condannarsi a non dare mai abbastanza anche quando si dà tutto. E non si dà mai tutto».
La seconda è di qualche anno successiva: «La letteratura dei Paesi totalitari non muore tanto per il fatto di seguire una via obbligata, quanto perché viene separata dalle altre letterature. Un artista impossibilitato ad aprirsi alla realtà intera è mutilato».
Basterebbero queste due frasi per definire l’importanza insostituibile di Albert Camus non solo nella letteratura del Novecento, ma in tutta la letteratura.
Una grande chance. Camus è stato uno degli artisti - non molti, ma nemmeno pochi, per fortuna - che nel secolo più nichilista e tragico di tutta la storia, nel secolo in cui l’uomo è stato spesso considerato meno di niente (e in questo carnefici e intellettuali si sono trovati spesso d’accordo tra loro), si sono più fieramente opposti a questa tendenza: non in nome di una religione che non avevano potuto conoscere adeguatamente, men che meno in nome delle ideologie, ma in nome dell’esperienza umana, noi diremmo - senza timore di fare alcuna forzatura -: dell’esperienza elementare. L’homme révolté, l’uomo “in rivolta” dell’omonimo saggio.
In quelle due frasi viene espressa, con la semplicità di cui solo i grandi sono capaci, la duplice legge della vita. Innanzitutto, infatti, per Camus (come per noi) un uomo non è un uomo fino in fondo se non si apre «alla realtà intera», totale. Questa è la nostra vera vocazione, la vera natura della ragione: «Un artista (ossia un uomo) impossibilitato ad aprirsi alla realtà intera è mutilato».
L’abbiamo sempre detto, ma forse qualche volta l’abbiamo ripetuto senza farlo nostro, senza coscienza delle sue conseguenze: ed ecco che uno scrittore non credente ce lo ripete con la forza della semplicità. In un secolo in cui la ragione è stata usata per contare, dividere, raggruppare, calcolare, misurare, in un secolo in cui la ragione è stata lo strumento astratto di una computisteria e di una burocrazia dell’anima che ha condotto allo sterminio, Albert Camus, nella sua solitudine intellettuale sempre più grande e indesiderata, afferma che la ragione è un’altra cosa. Ma c’è un secondo elemento che emerge dalle due frasi sopra citate: il fatto che l’uomo non è capace di questa totalità, non sa stare all’altezza della propria vocazione. Si chiama peccato originale, ed è qualcosa di cui non tutti abbiamo coscienza: bisogna aver cercato di salire molto in alto, oppure aver avuto una grande chance, fortuna, come dice Camus, per toccare questo limite.
Se non cerchi di andare fino in fondo, non capirai mai nemmeno il tuo limite. Il più grande dei crimini per Camus non è Auschwitz o Hiroshima, ma questa mutilazione anticipata della possibilità di fare esperienza del nostro desiderio e del nostro limite.
Da Mondovi a Parigi. Basterebbe questo a farci dire con certezza che in nessun modo si può pensare alla letteratura del Novecento senza fare i conti con Albert Camus.
Camus appartiene a una generazione di scrittori che non ha potuto esprimersi in grandi opere, come la generazione precedente.
Se paragoniamo le opere uscite negli anni Dieci, Venti, Trenta del Novecento (i vari Kafka, Joyce, Mann, Proust, Musil, Hemingway, fino a Faulkner, ultima propaggine di quell’epoca) e quelle degli autori più giovani, nati in pieno Novecento - da Pavese a Camus all’americano Saul Bellow - non possiamo non constatare una frattura, una diversità radicale, che giunge fino al cuore della forma.
È come se la libertà umana fosse stata ridotta e l’uomo si stesse abituando a questa riduzione. Gli scrittori più anziani, pur avendolo radicalmente modificato nella struttura, credevano ancora nel romanzo così come lo avevano ereditato dall’Ottocento. Joyce è un autore sperimentale, ma non - io credo - come Honoré de Balzac, e nemmeno come Alessandro Manzoni.
Per la generazione di Camus non c’è tempo per il romanzo, non c’è tempo per le belle storie d’amore o per le grandi epopee storiche (che spesso nascondono quintali di ideologia). La letteratura è al servizio di una riflessione bruciante sull’uomo e sul suo destino, sull’uomo nudo, de-contestualizzato, sradicato. Nell’età del totalitarismo - che non è affatto finita - l’uomo appare senza radici, perché la storia stessa, il potere che fa la storia non vuol saperne di radici. E mette al bando le radici cristiane perché esse sono, oggi, le radici umane.
Albert Camus, nato nel 1913 a Mondovi, in Algeria, conservò sempre l’Africa come il luogo delle radici, come sponda nativa, custode dell’origine, della sua complicatissima patria, la Francia. L’Africa fu la sua rive gauche.
In Africa si svolgono le vicende dei suoi romanzi più famosi, Lo straniero e La peste.
Lo straniero è forse il capolavoro letterario di Camus. L’incipit è fra i più celebri di tutta la letteratura del Novecento, «Oggi è morta mia mamma. O forse ieri, non so», e da questo incipit scaturisce, per un atto di obbedienza assoluta, tutta la storia di Mersault, un uomo a cui muore la madre, che dopo il funerale allaccia una relazione senza amore con una donna, che uccide un arabo, viene condannato a morte, rifiuta la visita di un prete e al processo non si difende, subendo alla fine la condanna a morte.
Mersault è una novità assoluta nella letteratura. Mai era apparso sulla scena un personaggio come lui. La sua indifferenza non ha nulla da spartire con quella di Moravia, che riguarda in sostanza la noia dei ricchi borghesi che hanno tutto e non sanno più provare passioni. La sua indifferenza è radicale: Mersault esce dalla storia, che all’improvviso sente come estranea, e la sua vita si trasforma in una serie di istanti staccati tra loro, di atti che non nascono da nulla e non portano a nulla.
La ragione di questa uscita è ben illustrata nel saggio che Charles Moeller dedicò a Camus in Letteratura moderna e cristianesimo (edita in forma antologica da Rizzoli-Bur, nella collana diretta da don Giussani), e che lega la vicenda di Mersault alla ricerca di uno stato di pura innocenza.
Il realismo e l’impossibile. Le azioni di Mersault sono azioni pure, il suo omicidio è leggero, Mersault non prova alcuna colpa, il sangue versato sembra non riguardarlo.
Tutto questo è assurdo, ma l’assurdo, sembra dire Camus, è diventato la sola via, la sola anche se impossibile, attraverso cui l’uomo del Novecento, coevo di tutti gli orrori, può cercare di recuperare il senso della propria nascita.
Della stessa epoca è il suo testo teatrale più famoso, Caligola, che svolge una tematica simile: più il protagonista si rende conto che l’uomo è fatto per l’infinito, più comprende che ottenere questo è impossibile, perciò diviene folle. In una delle prime versioni del testo - più volte rimaneggiato - compare la famosa espressione: «Siate realisti, chiedete l’impossibile», a noi molto cara.
La peste è una grande metafora della guerra e della follia che ha contagiato uomini e nazioni. Nella città algerina di Orano si diffonde, lentamente, una peste che finirà per sterminare la gran parte della popolazione. Ad essa fanno fronte pochi uomini che risponderanno al dolore apparentemente senza fine con la tenacia della loro concreta solidarietà.
Ciò che colpisce, rileggendo oggi questo grande libro, è l’opposizione strenua di Camus a ogni ideologia. La solidarietà che lui propone è solida, non nasce da teorie, ma solo dalla realtà del bisogno che obbliga gli uomini che possono farlo a rispondere, non per senso del dovere ma per la necessità di fare i conti con la propria umanità.
Camus scrisse molti testi rubricabili sotto la voce “saggio filosofico”, tra cui Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta. Eppure, nonostante l’importanza oggi unanimemente riconosciuta di queste sue opere, Camus conobbe un periodo di dimenticanza a causa della sua non-adesione all’invito che Jean-Paul Sartre, il più celebre intellettuale francese, rivolse alla cultura del suo Paese. Per Sartre l’intellettuale non può più considerarsi al di fuori della cronaca e della politica, deve s’engager, impegnarsi sui temi più caldi, non far mancare la propria voce davanti alle ingiustizie, far sentire la propria indignazione: Auschwitz e Hiroshima non si dovranno più ripetere.
Questo invito coincise con l’adesione (temporanea) di Sartre al Partito Comunista, del quale lo stesso Camus aveva fatto parte tempo addietro e soprattutto con l’adozione dell’ideologia comunista e dell’analisi marxista come strumento di quell’impegno. Fu, vista col senno di poi, una grande operazione di potere, nata sull’onda del fascino della propaganda sovietica e poi proseguita per forza propria, fino - si può dire - ai giorni nostri. Anche oggi l’intellettuale è, quasi per definizione, di sinistra. E i tanti eccidi, dalla Cambogia a Srebrenica, dimostrano che fu soprattutto, come detto, una questione di potere e di casta.
La prima telefonata. Camus non ebbe bisogno del senno di poi, capì immediatamente l’inganno. Anche perché una delle prime battaglie combattute da questa nuova classe intellettuale francese fu rivolta contro la colonia algerina, che in quel tempo si ribellò alla dominazione francese. Sartre e compagni si schierarono apertamente a favore degli insorti, mentre Camus si dissociò dicendo che nessuna causa, per quanto giusta, avrebbe mai potuto metterlo contro sua madre.
Camus pagò a caro prezzo questa presa di posizione. Tanto che nemmeno il premio Nobel, attribuitogli a sorpresa nel 1957 (e fu forse l’ultimo atto di vero coraggio dell’Accademia di Svezia), spezzò la cortina di silenzio intorno a lui. Alla notizia del Nobel, la prima persona alla quale Camus telefonò fu il suo vecchio maestro elementare: questo dice molto sull’uomo e sull’intellettuale.
In una delle sue ultime opere, La caduta, Camus esprime una nuova, geniale sintesi del proprio umanesimo. In un bar di Amsterdam un uomo, un avvocato di nome Jean-Baptiste Clamence racconta a un conoscente occasionale il fallimento della propria vita e l’episodio che lo ha determinato.
Una notte, a Parigi, attraversando la Senna, Clamence nota una figura affacciata al parapetto del ponte. È una ragazza, che sentendolo passare si gira, mostrandogli un volto completamente disperato. Clamence è tentato di dirle qualcosa, poi la timidezza, il timore di apparire ambiguo, un malinteso senso della discrezione lo inducono a proseguire senza dire nulla. Dopo diverso tempo, quando la ragazza è ormai lontana, Clamence, nel silenzio della notte, sente un grido seguito da un tonfo: per chissà quale dolore insopportabile, quella ragazza si è gettata nel fiume, e ormai è troppo tardi per salvarla.
Di qui la riflessione. Come può un uomo aderire all’ideologia pensando che grazie a quella potrà fare giustizia? La sola giustizia, la sola impossibile giustizia per l’avvocato Clamence sarebbe quella di poter tornare indietro nel tempo, fino a quel momento, e rivedere quella ragazza affacciata sul fiume buio, e rivolgerle la parola, cercare di salvarla. Questo miracolo impossibile è ciò che si chiama perdono, nient’altro che questo. E questa è la vera giustizia.
Ecco, per me Albert Camus significa questo: un’apertura indomita a tutta la realtà, una rivolta contro tutto ciò - ideologia in testa - che riduce il suo orizzonte (quella che don Giussani chiama la “dimensione” di un gesto umano), la necessità di una solidarietà concreta tra gli uomini e un inesauribile bisogno di perdono.
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