04/02/2010 - A 400 anni dalla morte, al Centro Culturale di Milano padre Cervellera ha ripercorso la vicenda del missionario gesuita. Che, ancora oggi, mostra una possibilità reale di dialogo e di incontro con l'altro
«Un ponte di amicizia con l’Oriente, valido oggi più che mai». Così Bernardo Cervellera, missionario del Pime e direttore dell’agenzia AsiaNews, definisce padre Matteo Ricci, il gesuita pioniere delle missioni in Cina. In occasione del 400° anniversario della morte, ieri il Centro Culturale di Milano ne ha riproposto la figura nell’incontro “Cina, l’impossibile dialogo? Matteo Ricci e l’amicizia”.
Introducendo la serata davanti ad oltre trecento persone, il giornalista Rodolfo Casadei ha evidenziato la complessità dei rapporti tra l’Occidente e il Paese del dragone: «Nei suoi confronti si sceglie o una politica di appeasement, che chiude gli occhi davanti ai vari problemi, o una critica senza alternative. È come se con l’Impero di Mezzo non esistessero mezze vie. L’esempio di Matteo Ricci, invece, dimostra che è possibile una terza via, che passa per un dialogo reale». Una figura presentata da Cervellera innanzitutto come «un missionario»: «È sbagliato vedere in lui semplicemente un “saggio d’Occidente”. Ha potuto essere un grande innovatore proprio in forza della sua fede».
Nato nel 1552 da una famiglia nobile, Matteo studia al Collegio dei Gesuiti a Macerata. Nel 1571 entra nel noviziato e inizia a seguire al Collegio Romano i corsi di Cristoforo Clavio, detto “l’Euclide del XVI secolo”, che gli trasmette la passione per la matematica, la cartografia e l’astronomia. È padre Alessandro Valignano, maestro dei novizi, a suggerirgli di andare in Cina: «Allora Ricci parte, mosso dal desiderio di annunciare il Vangelo e “farsi degli amici”, come scrive lui stesso». Da Macao, dove approda nel 1582, inizia così la sua avventura in Cina. Dopo anni di studio della lingua, dei costumi e della cultura locale, Ricci riesce a guadagnarsi la stima dei mandarini, cui fa scoprire il resto del pianeta, dimostrando che la terra è tonda: «Ma il suo non era semplicemente un contributo scientifico. Il suo scopo era avvicinare quella cultura, per dire: “Siamo fratelli”». Così, tra la costruzione di orologi meccanici e il disegno di un mappamondo, passando per la traduzione di opere occidentali in cinese, Ricci arriva a Pechino e viene introdotto nella Città Proibita. Qui l’imperatore, colpito dalla sua scienza e dalla sua fede, gli permette di fondare una chiesa - a spese dell’erario - e lo ammette a corte. Fino a concedere alla sua morte, nel 1610, un privilegio mai accordato a uno straniero: un terreno per la sepoltura, proprio all’interno delle antiche mura della città.
Cosa ha permesso a Matteo Ricci di appassionarsi a quella realtà, fino a voler diventare «più cinese dei cinesi»? «L’amore per Cristo. E la simpatia con cui ha potuto abbracciare l’altro. Sbaglia, perciò, chi vede in quel tentativo di “inculturazione” il rischio di smarrire la propria identità. A muovere Ricci era la passione per la verità della Cina: per questo, non ha mai risparmiato le critiche a dottrine radicate come il buddhismo o il taoismo». Ricordando il quarto centenario del suo arrivo in Cina, nel 1982 Giovanni Paolo II aveva osservato: «Come già i Padri della Chiesa per la cultura greca, così padre Matteo Ricci era giustamente convinto che la fede in Cristo non solo non avrebbe recato alcun danno alla cultura cinese, ma l'avrebbe arricchita e perfezionata». Questo lo portò a «comprenderla e apprezzarla pienamente fin dagli inizi».
A lui va il merito, quindi, di aver gettato un seme che continua a dare frutti: «Mentre i mercanti andavano e venivano, mossi semplicemente da interessi commerciali, Ricci e i suoi confratelli hanno voluto offrire a quella gente il tesoro più prezioso: il Vangelo. Hanno abbandonato tutto, per dare la vita. E i cinesi l’hanno avvertito: lo prova il fatto che, nei loro confronti, spariva la radicata “paura dello straniero”». In una lettera all’allora padre generale della Compagnia di Gesù, Ricci scriveva: «Non mi domandi quante persone ho convertito, ma quanti hanno udito la voce del Signore». Alla sua morte, la comunità contava diverse centinaia di convertiti, tra cui anche parenti dell’imperatore.
Per questo la sua lezione è valida ancora oggi: «Negli ultimi secoli, nell’Occidente la Cina ha apprezzato e imitato solo gli aspetti materialistici: l’industria, il commercio, l’esercito... In questo modo è diventata la nostra allieva più grande, addirittura superandoci. La disarmonia e le tensioni - secondo i dati del Ministero degli Interni, sono 87mila le rivolte sociali in un anno - mostrano il limite di questa concezione. Servono più che mai, allora, persone che come Ricci ripropongano un valore più grande degli scambi commerciali». Anche perché, in un Paese che - nonostante il materialismo del neoconfucianesimo prima e del comunismo poi - ogni anno conta milioni di conversioni al cristianesimo, «un dato è certo: la sete di Dio è grande».
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