Prima di cianciare della laicità dello Stato italiano, prima di celebrare a sproposito l’Unità d’Italia e di osannare Cavour e Garibaldi – che Wikipedia definisce “il personaggio storico italiano più celebre nel mondo”-, sarebbe opportuno, quanto meno per cultura generale, andarsi a documentare su quella che effettivamente è stata la riunificazione della nostra Penisola.
La memoria mi riporta agli anni della scuola dell’obbligo, nei quali mi feci un’idea davvero entusiasmante di com’era nata l’Italia e dei suoi eroi. Garibaldi, in particolare, esercitò su di me grandi fascino ed ammirazione; e quando visitai, a Caprera, la stanza dove si spense, col letto romanticamente affacciato sul mare, l’eroe dei due mondi mi conquistò del tutto, idealista come me lo immaginavo. Ero completamente assuefatto alla retorica pomposa e mendace che servivano - e forse servono ancora - i programmi scolastici e i relativi sussidiari. Retorica, appunto. Perché la storia dell’Unità d’Italia è ben diversa.
E ci racconta di eventi tutt’altro che felici. Come la resistenza armata, durata sei mesi, di Federico II di Borbone. Di quei mesi molti testi scolastici riferiscono poco o nulla, ma vi furono scontri che costarono alle truppe borboniche qualcosa come 2.700 morti, 20.000 feriti e migliaia di dispersi. Un massacro, questo, dovuto - dicono gli storici - non già alla volontà del popolo italiano di unificarsi, come spesso si vuol far credere, bensì ad un progetto che interessava, a quel tempo, appena il 2% della popolazione. L’Unità d’Italia, dunque, fu un’idea estremamente elitaria. I plebisciti di cui, in proposito, tanti libri scolatici parlano sono dunque a frottole colossali. Ma cominciamo dal principio.
Tutto ebbe inizio nell’incontro segreto che, nel 1858, ebbero a Plombières Camillo Benso di Cavour e Napoleone III. Cavour portò con sé ben tre foglietti di memorie sulle questioni da affrontare; principalmente, questioni di guerre d’annessione. L’idea discussa, in estrema sintesi, era quella della futura tripartizione, sulla scia del modello germanico, dell’Italia: Alta Italia, Regno dell’Italia centrale e Regno di Napoli e Roma. In realtà, rispetto a quelle iniziali intese, le cose andarono molto diversamente.
Ma l’aspetto più inquietante, in tutto questo, fu l’atteggiamento del governo italiano o aspirante tale, disposto a cedere pezzi del proprio territorio – Nizza e Savoia – alla Francia, e a patrocinare matrimoni combinati – quello della figlia di Vittorio Emanuele II con il cugino di Napoleone II – pur di farsi sostenere nel proprio progetto bellico spesso contrassegnato da episodi di gravità inaudita. Come quando, nell’ottobre 1860, si iniziò la guerra d’invasione del Mezzogiorno senza nemmeno una dichiarazione formale. Guerra che, come sappiamo, portò, calpestando in pieno il diritto internazionale, alla conquista del Regno delle Due Sicilie. Il peggio, tuttavia, fu riservato alla Chiesa. E non fu un caso.
Sin dal 1848, all’indomani dell’approvazione dello Statuto di Carlo Alberto, Parlamento e governo subalpino si mobilitano per ostacolare la vita ai gesuiti e agli ordini religiosi. Fanno testo a questo riguardo gli interventi del deputato Cesare Leopoldo Bixio, dichiarato anticlericale. Risultato: il ’48 si concluse col domicilio coatto imposto ai gesuiti e con la conversione dei loro collegi che diventarono caserme, ospedali, manicomi. E fu solo l’inizio di una persecuzione che sarebbe durata molti anni. Toccò infatti a Cavour, pochi anni dopo, attaccare le festività religiose, a suoi dire troppo numerose.
E solo quattro anni più tardi fu presentato in Parlamento un progetto di legge per privare di personalità giuridica gli ordini contemplativi e mendicanti. Una disposizione che coinvolse 335 case per un totale di 5.489 persone, che si ritrovarono – apparentemente senza una motivazione - bersagliati da una legge che tolse loro le proprietà donate dai fedeli, archivi e biblioteche. E pensare che ancora oggi molti considerano Cavour un liberale. Con ogni probabilità senza sapere che proibì la circolazione delle encicliche di Pio IX. Chi avesse dubbi non dovrebbe fare altro che consultare quello che era il Codice penale piemontese che, all’articolo 269, puniva “severamente i sacerdoti pei peccati di parole, d’opere e di omissioni” contro il dogma liberale. Alla faccia del liberalismo.
Ma il personaggio che, nella memoria collettiva, gode più immeritatamente di onore e gloria è lui, Giuseppe Garibaldi. Anticlericale d’assalto, noto massone, corsaro, trafficante di schiavi, ambientalista ante-litteram nonché esempio per Mussolini - che riconobbe in lui il primo dittatore d’Italia -, Garibaldi gode ancora di una fama dorata. Eppure ebbe una vita tormentata al punto che, per scrivere la sua storia fino a conferirgli parvenza eroica, Cavour chiamò ben quattro scrittori tra cui Alexander Dumas. Lo stesso sbarco dei Mille a Marsala fu una farsa, perché non sarebbe mai stato possibile senza il favore di due navi inglesi, “Intrepid” e “H.M.S. Argus”, lì ormeggiate.
Del resto, fu lo stesso Vittorio Emanuele II a ritenere Garibaldi un pericoloso criminale. Sentiamo cosa scrisse di lui a Cavour dopo lo storico “incontro di Teano”:”Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi […] questo personaggio non è affatto così docile né così onesto come lo si dipinge, e come voi stesso ritenete […] Il suo talento militare è modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui, che s’è circondato di canaglie”.
Ovviamente, il cosiddetto ”eroe dei due mondi” odiava a morte il Papa, che arrivò a definire “un metro cubo di letame”. E provò, con un sonoro fallimento, ad invadere Roma. Era il settembre del 1867 e, alla guida di ottomila uomini, dopo aver espugnato Monterotondo, Garibaldi era al ponte Nomentano dove, raggiunto dalla notizia dell’arrivo di un corpo di spedizione francese, se la fece sotto e fece dietro-front. Lo scontro, tuttavia, ci fu. Avvenne a Mentana e fu una catastrofe: ben 1.600 garibaldini furono fatti prigionieri ed entrarono a Roma coi francesi, acclamati dalla città come eroi e vincitori.
Un episodio, questo, che la disse lunga sulla volontà dei romani di diventare italiani. Non per nulla Hübner, ambasciatore austriaco fresco di nomina, in una lettera del 5 ottobre 1867 scrisse:”I giornali italiani, moderati e rivoluzionari, mentono sfrontatamente quando parlando d’insurrezione e di insorti negli Stati del Papa. Non si vede l’ombra di un movimento. Non una città, non un villaggio si è mosso”. Esistono fondate ragioni per supporre che anche i veneti ed i lombardi, in realtà, fossero desiderosi di diventare subito italiani visto e considerato che, già a quel tempo, rappresentavano un’area economicamente produttiva.
Per non parlare del Meridione. Il Regno delle Due Sicilie in campo economico era al primo posto in Italia e al terzo in Europa e disponeva di una eccellente marina mercantile. La Campania, poi, era addirittura la regione più industrializzata d’Europa: poteva vantare l’Opificio di Pietrarsa - dove si producevano motori a vapore, locomotive, carrozze ferroviarie e binari – e cantieri navali all’avanguardia e perennemente sommersi di ordinazioni.
Ma torniamo alla conquista di Roma. Che non fu affatto una pagina allegra: i bersaglieri entrarono nella Città Eterna con una cannonata, e ci furono 49 morti italiani e 19 papalini. Chi dunque pensa la Breccia di Porta Pia una marcia felice sappia che ha in mente un’immagine falsa. Come falsa è l’ormai celebre fotografia – presente in tutti i sussidiari delle elementari - che immortala i bersaglieri col fucile spianato intenti ad entrare a Roma. Fu scattata il giorno dopo, il 21 settembre, coi bersaglieri in posa propagandistica.
Beninteso: con queste rapide e per forza di cose imprecise incursioni storiche, non si ha certo la pretesa né tanto meno l’intenzione di infangare l’Italia. Tuttavia, se si considerano gli episodi sopra richiamati, forse si capiscono meglio le ragioni che stanno alla base di quella che è ancora l’odierna difficoltà, per gli italiani, di sentirsi nazione. L’Unità d’Italia non fu voluta dal popolo. Ed è quindi difficile, anche se sono passati già 150 anni, pretendere per la nostra Penisola un comune sentire equivalente a quello di popoli uniti da un percorso storico molto più grande e meno tormentato.
Bibliografia: Di Fiore, "Controstoria dell'Unità d'Italia", Rizzoli 2007; Fazio - Frescaroli - Totterie - Salvi, "I Grandi enigmi dell'Unità d'Italia", Edizioni di Crémille, 1969; Viglione, "La rivoluzione italiana. Storia critica del Risorgimento", Piemme, 2000; Martucci, "L'invenzione dell'Italia Unita", Sansoni 1999; Pellicciari "L'Altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata", Piemme 2004.
http://www.libertaepersona.org