Qualsiasi manuale insegna che nel 1766
Kant produsse un’opera dal titolo farraginoso:
“I sogni di un visionario spiegati
coi sogni della metafisica”. All’epoca l’illuminismo
era ormai pienamente maturo
e consapevole; Montesquieu, Voltaire e
Rousseau avevano già pubblicato le loro
opere fondamentali e strati sempre più
ampi di lettori guardavano con favore al
trionfo della ragione in ogni campo. L’attacco
di Kant era diretto contro Emanuel
Swedenborg, ex cartesiano diventato sempre
più scettico riguardo al meccanicismo
razionale e sempre più convinto che il cervello
dell’uomo fosse la chiave per trascendere
il corpo e comunicare con un’anima
individuale e collettiva dalle possibilità
teoricamente infinite. Un visionario,
appunto; ma se Swedenborg era una pittoresca
eccezione nel panorama razionalistico
del Settecento, perché un fuoriclasse
come Kant si mosse contro di lui con tanta
acrimonia?
La risposta arriva da un volume appena
pubblicato a cura di Dan Edelstein, professore
a Stanford, dal significativo titolo
“The Super-Enlightenment: daring to
know too much” (Studies on Voltaire and
the Eighteenth Century, Oxford 2010). In
poco più di duecento pagine viene dimostrato
come Swedenborg fosse l’esponente
più celebre di un Settecento inconsueto e
ignoto, nel quale affondano le radici grandi
movimenti irrazionali – o troppo razionali
– come la teosofia, la massoneria, la fisiocrazia
e perfino l’astrologia modernamente
intesa.
Come la storia anche la filosofia viene
scritta dai vincitori, quindi nell’attuale
concezione del Settecento non trova spazio
la serie di emuli di Swedenborg sui
quali si snoda il volume. Alcuni sono relativamente
noti, come François Quesnay,
fondatore della fisiocrazia, che auspicava
di sintetizzare ogni possibile movimento
economico in una tabella che rispecchiasse
“le varie idee e i loro rapporti così come
si presentano all’intuizione del nostro
spirito”; o come Victor de Mirabeau, suo
seguace nonché autore di romanzi pornografici,
che intendeva l’economia come “la
luce che deve guidare tutti i membri di
una società nella loro condotta privata”
compresa l’attività sessuale. Ma ci sono anche
Claude-Nicolas Ledoux, architetto che
aveva presentato al ministro Turgot il progetto
di una città ideale “in cui tutte le arti
e tutte le professioni potessero trovare
spazio una di fianco all’altra, ognuna nella
situazione più congeniale”, e il poeta
Louis-Claude de Saint-Martin, che distingueva
fra la “parola” comunemente intesa
e il “verbo” la cui etimologia poteva essere
indagata fino a risalire al primigenio
linguaggio universale insegnato da Dio ad
Adamo quando lo chiamò a dare un nome
agli animali (Genesi 1, 19).
Soprattutto c’è Charles François Dupuis,
uno dei più arrabbiati teorici della
Rivoluzione francese, che introdusse in
Francia la mania per l’antico Egitto prima
ancora delle imprese africane di Napoleone:
sua fu l’idea di coniare delle monete
sulla quale la Marianna sarebbe apparsa
bardata nei tipici vestimenti delle divinità
egizie; sua la decisione di imbastire il calendario
rivoluzionario sulla scansione
dei segni zodiacali, facendo coincidere la
nascita della Repubblica, 22 settembre
1792, con l’equinozio d’autunno; sua l’intuizione
di includere il culto della dea ragione
nel saggio La religione universale
(1794), il cui frontespizio schierava una ridda
di candelabri ebraici, statue greche,
simboli dei Vangeli e inevitabili segni zodiacali.
Il volume curato da Edelstein è decisivo
perché dimostra l’esistenza di una massiccia
corrente teorica che fu parte integrante
dell’illuminismo, in continuo dialogo
coi philosophes nel suo tentativo di spingere
l’uomo verso la ricerca di un “oltre”
che non poteva essere raggiunto con le sole
forze della ragione; un illuminismo metafisico
duro a dichiarare partita persa. Se
ne accorse lo stesso Kant, ormai campione
del razionalismo, quando nel 1796 Samuel
Thomas Sömmering gli chiese una prefazione
per un saggio in cui dimostrava di
aver scoperto la sede fisica dell’anima nel
fluido ventricolare. Kant dovette pensare
che il suo motto “sapere aude!” fosse stato
preso troppo alla lettera.
Antonio Gurrado
Il Foglio 2 febbraio 2010