di Stefano Pistolini
C’è della paura nell’aria, in America.
E ovunque si parla di sicurezza.
La sicurezza personale. La sicurezza
nazionale. La minaccia dall’esterno.
Si parla e riparla del fanatico
imbarcato sul volo da Amsterdam.
Della prontezza dei soliti eroi per caso
– tipica merce americana. E, di nuovo,
del bisogno della sicurezza. Il neosenatore
Scott Brown ha costruito una
buona fetta del suo successo in Massachusetts
denunciando l’inadeguatezza
dei democratici, e in particolare
della Casa Bianca di Obama, nel confrontarsi
con le questioni della sicurezza
nazionale. Ha fatto il duro, contro
ogni ammorbidimento sulla questione
del dove mettere i reclusi di
Gitmo. E contro l’appiccicoso profluvio
di buona volontà verso l’islam, con
quei discorsi del presidente all’Università
del Cairo, le mani tese, l’ansia
d’interpretare come segnali promettenti
ogni mezza parola pronunciata
da un chierico, salvo sentir risuonare
gli sberleffi di Mahmoud Ahmadinejad.
Dalle parti di Brown e della vitaminizzata
nuova destra postbushiana
si batte sull’argomento, senza requie:
l’America è in guerra. E’ fatta così
la guerra nel XXI secolo e gli americani
non devono dimenticarselo. E
invece non perdono mai l’occasione
per provare a passare oltre, per far
finta di niente, soprattutto se guarda
al di là dei gangli nevralgici del paese.
Rudy Giuliani ha osservato che l’elezione
di Brown è un buon segnale,
perché mostra che anche tra i liberal
del New England, l’“issue” della sicurezza
si è rimessa al centro della discussione.
Cioè che trova crescenti
adesioni l’idea di non abbassare la
guardia, perché gli aeroporti sono il
ventre molle d’America e non ci si deve
far perforare, non si può cadere vittima
d’un altro cavallo di Troia. Le altre
sono chiacchiere, che non servono
quando si tratta d’estirpare il male
dal mondo. Non è questione di falchi
o colombe: di nuovo, è questione di sicurezza.
Riguarda tutti, se si vuole sopravvivere,
in una nazione accerchiata
da nemici.
Ma congeliamo il quadro. Un fatto:
non manca troppo al decennale dell’attacco
alle Torri, l’unico autentico,
devastante gesto terroristico messo a
segno su territorio americano nel XXI
secolo e usato come feticcio, invocato
come moloch, dalla migliaia di appelli
alla jihad. Però, nel cielo di Detroit,
a Natale, il ventitreenne Umar Abdulmutallab
ha provato a far saltare il
Northwest 253, rinfrescando la memoria
agli americani, eccitando i sensori
d’allarme, restituendo attualità al problema.
Poi al Qaida ha rivendicato, la
destra si è inzolfata, la Casa Bianca ha
reagito disordinatamente. Il resto è
cronaca. Quel che interessa fotografare
è una nazione sull’orlo dell’esaurimento
nervoso, di nuovo convinta – o
disposta a credere – d’essere sotto attacco,
senza sapere dove e quando l’evento,
che le teste parlanti in Tv definiscono
“probabile”, andrà in scena
(il nigeriano imbranato a bordo dell’aereo
arriva a un pelo dal riuscirci,
ed è la prova della casualità. Poi Bin
Laden prontamente si annette il gesto.
Non c’è da sorprendersene). Ma tralasciamo
le strategie. Mettiamo il termometro
sotto l’ascella dell’America.
La domanda è: quanto, nelle malconce
famiglie americane, è percepito come
reale e presente il pericolo nei
confronti della propria sicurezza, ad
opera di un’ostile minaccia esterna?
Quanto in alto si colloca questa preoccupazione
nelle priorità dei cittadini?
A quanto ammonta lo scollamento tra
le preoccupazioni di Washington e
quelle del resto della nazione? Ed è
giusto o sbagliato che sia così? E’ giusto
o sbagliato che ciò che i professionisti
della capitale considerano una
tema centrale altrove diventi un tormentone
mediatico, mentre ciò con
cui si fanno i conti sono le preoccupazioni,
i dubbi, i fallimenti, le inadempienze?
Soprattutto: è normale che un
paese di 330 milioni di abitanti venga
quotidianamente stimolato a preoccuparsi
per la sua sicurezza contro letali
attacchi esterni, come se fosse in vigore
una condizione di minaccia permanente?
E’ giusto? In che modo tutto
ciò incide sulla psiche degli americani?
E questi messaggi potrebbero essere
presentati in modo diverso? E se
sì, perché non lo si fa? Tenere la popolazione
in stato di perenne tensione
psicologica – accentuata in chi vive
una vita sociale e mobile – cosa provocherà
nella psicologia di massa degli
americani? E’ così che si deve sentire
la gente della strada, sempre vigile
contro insidie che potrebbero
piombarle addosso da ogni punto del
cosmo? Costruire un impero moderno,
equivale a chiudervi dentro gli abitanti
per proteggerli dai malvagi che
s’assiepano attorno alla gabbia? Se
l’asse di comunicazione gestito da governo,
politici e media, quotidianamente,
su tutti i canali e con una pioggia
di comunicazioni straordinarie, insiste
a ribadire lo stato di allarme, come
si trasforma la vita della nazione?
Quali diventano gli istinti primari? Ed
è giusto praticare il doppio livello di
guardia, ovvero la reciproca sorveglianza,
atta a scoprire chi per primo
cada in tentazione, ovvero abbassi la
guardia – che è ciò che reciprocamente
si rimproverano gli schieramenti
politici?
Sono tutte domande rivolte allo stato
delle cose. Una stato malconcio. Coi
democratici che tacciono e i repubblicani
che dicono ai democratici che sono
sempre indecisi, soprattutto alla
Casa Bianca. Fino a che questi ultimi
sorprendono tutti introducendo nuove
griglie di sicurezza, piuttosto sconsiderate,
come il “racial profiling” negli
aeroporti o i ripensamenti sulla chiusura
di Guatanamo. L’analista liberal
Peter Beinart scrive che è irrealistico
ipotizzare un Obama che vada in Tv a
dire che adesso al Qaida è più debole
che l’11 settembre 2001 e che non è
saggio iper reagire alle sue minacce.
Le Tv invece asseriscono che il panico
ha ripreso a circolare, eccitato prima
di tutto proprio dalla diffusione di
quelle pratiche di sicurezza (i nuovi
scanner, per esempio) che presto verranno
ridicolizzati, non da una possente
organizzazione maligna, ma da
uno squilibrato in vena di prodezze.
Ci si può azzardare a dire: siamo al
cospetto di una nevrosi collettiva, indotta
dall’alto e sostenuta trasversalmente
dai media. Una splendida nazione
è ridotta a difendersi aggressivamente,
guardandosi attorno come
una belva ferita. Mentre il resto del
mondo, attraverso la feroce concorrenza
commerciale, attenta più alla
sua qualità della vita che alla sua sicurezza
nazionale. L’America invecchia,
ma si comporta ancora come una
reginetta di bellezza. Qualsiasi psicologo
vi spiegherà che questa è una
condizione d’infelicità latente, d’insicurezza,
d’ansia, che rimanda all’infinito
il confronto coi problemi veri che
dovrebbero preoccupare la nazione.
E’ dunque barbaro, illogico e ingannevole
mantenere l’America in questo
nebuloso stato di tensione. Si sottopone
il paese allo stesso stress che tocca
al guardiano del ranch, sempre all’erta
perché gli indiani potrebbero arrivare.
Attento a non rilassarsi, fissando
l’orizzonte. Mentre i banditi, silenziosamente,
gli rubano i cavalli, nel recinto
dietro la casa.
* * *
C’è la storia di questo Charles Phillips,
presidente del colosso informatico
Oracle, e del suo problema alto
tre piani. Phillips è un cervellone, al
punto che Obama l’ha voluto nel
dream team della Casa Bianca, membro
del gruppo di consulenza per il
salvataggio economico (Economic Recovery
Advisory Board. Attenzione,
urgente cambiare nome). Per otto anni
questo principe della Silicon Valley
s’è concesso un’amante, tale Ya-
Vaughnie Wilkins, con la quale però
qualche tempo fa ha deciso di chiudere
la relazione. Lei, per vendicarsi,
ha piazzato in tre grandi città, tra cui
New York – a Times Square, non in un
angolo del Queens – degli enormi cartelloni
con effigiati i suoi bei tempi
con Charles, insomma foto di coppia
in atteggiamenti intimi. YaVaughnie –
che con questo nome ci porterebbe
dritti dentro un’altra sacca della nuova
barbarie americana: quella che
raccoglie coloro che hanno creduto
fosse ora di dare una rinfrescata ai
nomi disponibili da quelle parti, dove
un tempo tutti si chiamavano Joe, Peter
o perfino Ryan, ma adesso si chiamano
Galahad, Kohinoor, Lettice,
Majella, Parsifal, Ralphina, Somerled,
Urban, Ximun, Yorick o appunto
YaVaughnie – sostiene d’essere una
scrittrice e questo lo si evince anche
dalla scritta sul cartellone innalzato,
a caro prezzo, nell’ombelico del mondo:
“Sei la mia anima gemella”, recita.
Quelli del NY Post l’hanno notato
e ci hanno fatto uno strillo di prima
pagina come si deve: “Neanche all’inferno
c’è una furia paragonabile a
una donna incavolata. Ancora più in
là troverete questa donna”. Capita
l’antifona? (al titolista, tra l’altro, dovrebbero
raddoppiare lo stipendio).
Immaginate la contentezza con cui
Phillips ha ricevuto la notizia. Lui è
un ex marine che s’è fatto largo nel direttivo
della casa fondata da Larry Ellison,
figura mitica della Valley, del
quale alla fine ha preso il posto, con
uno stipendio miliardario e una villa
da 20 milioni. Phillips ha divorziato
dalla moglie Karen nel 2008, ma adesso
i due si sarebbero ritrovati e la cosa
avrebbe scatenato l’ira di YaVaughnie.
Phillips ora starebbe muovendo
i passi necessari per uscire dalla
pozzanghera nel quale l’ha cacciato
l’ex amante, servendosi addirittura di
“crisis management specialists”, un
manipolo di specialisti delle porcherie
– mestiere che ha delle prospettive,
dopo gli inciampi di divi come Tiger
Woods o di politici come il governatore
della South Carolina Mark
Sanford, quello che aveva l’amante in
Argentina ma in ufficio lasciava detto
di andare a fare trekking negli Appalachi.
“In una situazione del genere
bisogna assumersi subito le proprie
responsabilità. Parlare una volta, ammettere
e poi tacere per sempre”, sostiene
Chris Lehane, veterano del
campo, già al servizio del presidente
Clinton e delle sue malefatte sessuali.
“Gli investitori in una compagnia come
la Oracle vogliono guadagnare. Se
chi è al comando li fa guadagnare,
quel che combina in privato non li interessa
granché”. Insomma Phillips
non deve apparire distratto dallo
scandalo. Il resto sono tecniche per
addetti ai lavori. E anche in questo caso,
il quadro è raccapricciante.
Intanto i cartelloni sono stati smontati
da Times Square e la Wilkins è
partita al contrattacco, dicendo che
l’amante vera è l’ex moglie e non lei.
Phillips si è chiuso in un silenzio blindato.
Davila, sorella di YaVaughnie,
va in giro per talk show dicendo: “Lei
voleva soltanto mostrare al mondo
quanto era importante nella vita di
Charles. Voleva dire a tutti di andare
sul sito a guardare le foto. Non pensava
a effetti del genere”. Dunque siamo
di nuovo alle prese con la “trasparenza
digitale”, la stessa che ci
informa che Tiger adesso è in Mississippi
in una clinica per “dipendenti
dal sesso”, incastrato nell’incantesimo
dello show business contemporaneo,
quello che muove i vip come figurine
di un reality show, e può anche
decidere di eliminarle dal gioco. Intanto
alla Nbc hanno appena trasmesso
un episodio di “Law and Order”
incentrato sul ricatto ai danni di
David Letterman per la tresca con
un’assistente. Scandali reali che evidentemente
sono più succulenti di
quelli inventati. E ottimi risultati di
ascolto. Perché la trasparenza digitale
fa sì che tutto ciò che facciamo finisca
per essere visto, registrato e magari
riusato, laddove qualcuno ne
tragga dei vantaggi. E naturalmente il
sesso è schizzato in testa ai campi d’utilizzo
di questa trasparenza. Tutti, a
cominciare dagli americani, sono interessati
a come vadano le cose nelle
libido altrui. Sentire Tiger che lascia
un ansioso messaggio nella segreteria
dell’amante, chiedendole di far sparire
le tracce della loro relazione (sarà
un campione con le mazze, ma nella
giungla del gossip è un pivello) ci dà
un brivido che non vediamo l’ora di
condividere col vicino di scrivania.
Un talk show è autorizzato a dedicare
un paio di puntate al dibattito relativo.
Per non parlare del fatto che poi
siamo tutti connessi, no? Non si parla
d’altro, descrivendo il lifestyle del
presente. I social network etc etc.
Luoghi dove lasciamo spaventose
tracce digitali. Ergo, qualunque vip
stia attento, perché proprio quelle
tracce sono il combustibile del gossip,
ovvero della penetrabilità della privacy,
dopo che la privacy stessa è stata
inventata, codificata e blindata. Il
gioco più popolare in città, la trasgressione
condivisa, oggi è penetrare
la privacy degli altri. E il discorso
vale anche per i non vip: attenti a
quel che fate su Facebook, su Twitter,
o a ciò che dite nella casella vocale
della segretaria. Tutto è registrato e
può essere istantaneamente rimesso
in circolo. Insomma, anche nel vostro
modesto, insignificante giro, potrete
essere rovinati, esattamente come Tiger
o Phillips. E vostra moglie scoprirà
tutto.
In America questa paura ha contaminato
l’universo delle relazioni. Ha
disseminato sospetti. Un fugace bacio
per strada diventa l’inizio della fine.
Un pensierino su una chat, è l’anticamera
dell’inferno. Gli americani assorbono
queste nozioni malate, le digeriscono
e si risvegliano con un nuovo
peso sullo stomaco: la libertà ormai
è un sogno. Perfino la libertà d’esternare
i sentimenti. Scordatevelo. Parlate
soltanto se appartati. Non lasciate
segni. Tante persone di mestiere
cercano quei segni e sanno come usarli,
in modo devastante per voi e per il
vostro futuro. Tradimenti, peccati, irregolarità
oggi sono merce pregiata,
ed esistono diversi mercati, grandi e
piccoli. E il mercato principale ha sede
esattamente nella piazza mediatica
della società americana, che sopra ci
sta edificando un disastroso cambiamento.
Ma lo show business ha investito
su questo trash, a corto com’è di
novità. Il sesso sarà pure ripetizione,
ma se diventa gossip, non stanca mai.
Anzi: accelera i battiti dell’America
d’oggi. E il posto principale da dove
ormai arriva tutto questo orrore l’hanno
chiamato “la rete”. Forse adesso
cominciamo a capire perché.
(Le prime due puntate sono state
pubblicate il 20 e il 29 gennaio 2010)
IL Foglio 2 febbraio 2010