DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Lumi Si spegne il mito. di Edgar Morin

Dopo l’esplosione del Rinascimento, il secolo dei Lumi è un momento capitale nella storia del pensiero europeo. La grande dialogica che si apre dopo il Rinascimento, vale a dire la relazione antagonista e complementare tra la fede e il dubbio, la ragione e la religione, trova il proprio centro in Pascal, uomo di ragione e di religione, uomo di fede e di dubbio. Questa grande dialogica è contraddistinta, nel secolo dei Lumi, da una preponderanza (probabilmente una egemonia) della ragione. È certo che il Rinascimento, che ha stimolato la resurrezione di una filosofia non più ancella della religione, ha ristabilito e ritrovato il tema dell’autonomia della ragione derivata dai Greci, e ha permesso lo slancio della scienza su basi empirico­razionali con Galileo, Descartes e Bacone.
Questo slancio della scienza permette di conoscere, ma separando gli oggetti di conoscenza gli uni dagli altri e separandoli dal soggetto conoscente, insomma dissolvendone la complessità. Questa ragione, che si manifesta già nelle scienze, diventerà sovrana nel corso del XVIII secolo francese. In quel momento si svilupperà la ragione in quanto ragione costruttiva delle teorie e ragione critica; la ragione critica metterà in discussione i miti, le religioni, in un modo che definirei miope, poiché essa non percepisce il contenuto umano dei miti e della religione. Questa ragione, in qualche modo, costruisce le sue teorie – in particolare teorie scientifiche – e costruisce l’idea di un universo completamente accessibile alla ragione e l’idea di una umanità guidata dalla Ragione. Questa Ragione
Sovrana assume il carattere provvidenzialistico di un mito pseudo-religioso. In questa prospettiva, la scienza è produttrice dell’autentica conoscenza, vale a dire della verità. È un’epoca in cui le scienze fisiche, chimiche, biologiche spiccano il volo. S’impone allora questa idea che l’universo sarebbe completamente intelligibile (è questa intelligibilità che esprime il demone di Laplace. Egli immagina che un demone dotato di facoltà mentali superiori sarebbe capace di conoscere non solo tutti gli eventi del passato, ma anche tutti gli eventi del futuro). La Ragione guida l’umanità verso il progresso e il Progresso diventa così la legge ineluttabile della storia.
Questa idea di legge ineluttabile è formulata da Condorcet. Il futuro diventerà radioso e l’umanesimo stesso si schiuderà sotto due aspetti. Il primo aspetto è – essendo stato soppiantato Dio – considerare l’uomo come il soggetto dell’universo che deve, a tale titolo, finalmente dominare (è proprio la missione del dominio della natura che Descartes, Buffon, Marx assegnano alla scienza). Ma il secondo aspetto dell’umanesimo è l’uguale dignità di tutti gli esseri umani. Chiunque siano, essi meritano tutti il medesimo rispetto; questa teoria porta in sé non solo la libertà ma anche l’emancipazione. E il 1789, con l’espressione dei diritti dell’Uomo, il momento nascente della Rivoluzione Francese carica di promesse, può essere effettivamente definito, così come diceva Hegel, «una splendida aurora». Già con Rousseau, il tema dell’affettività (della sensibilità) diventa un tema che si oppone alla ragione e indica che essa, da sola, ha un carattere astratto e quasi disumano. Rousseau mostra a suo modo il carattere astratto della frattura tra l’umano e il naturale, attribuendo alla natura una importanza quasi materna, originaria. Voltaire, in modo sarcastico, diceva di Rousseau: «Vuole farci camminare a quattro zampe». In Rousseau c’è anche il tema secondo cui la civiltà comporta un degrado umano. Egli formula il mito dell’uomo naturale, che non suppone che esistesse una umanità idillica all’origine in una sorta di giardino dell’Eden, ma che esistono potenzialità umane che sono inibite nelle civiltà, represse nelle nostre società. Di qui un interrogativo sul progresso.
Il progresso non è concepito come una sorta di raggiungimento permanente del meglio. La domanda diventa: che cosa si perde quando si raggiunge un progresso, un progresso tecnico, un progresso materiale, un progresso urbanistico? Problema di fatto estremamente attuale nella nostra crisi di civiltà. La Rivoluzione Francese si è fondata contemporaneamente sul trionfo e sulla crisi dei Lumi. Il trionfo, con il messaggio di emancipazione del 1789. La crisi, con quel terrore, quel culto della ragione (penso a Alejo Carpentier, nel suo splendido romanzo
Il secolo dei lumi , in cui ci dice che i Lumi arrivano ai Caraibi con la ghigliottina).

Q
uanto al Romanticismo, è in qualche modo l’esplosione di quello che è stato soffocato dai Lumi. Lo spirito di comunità, il rapporto mistico con la natura, la virtù del religioso, sono cose che effettivamente ricompaiono, con una sorta di riabilitazione del Medioevo. È anche, per alcuni versi, un sentimento profondo della natura che implica la bellezza del notturno (Edward Young aveva già scritto
Le Notti , nella metà del XVIII secolo). E poi c’è la promozione della passione in rapporto alla ragione. Ma il tardo Romanticismo, o piuttosto il Romanticismo dei Romantici diventati vecchi come Hugo o Lamartine, o il Romanticismo dei giovani della seconda metà del XIX secolo, come Rimbaud, integra in sé il messaggio dei Lumi e si vota al progresso umano che costituisce l’emancipazione degli oppressi. Il socialismo, e soprattutto il pensiero di Marx, ridarà vita all’idea di progresso. Il progresso stesso che non si effettua attraverso una sorta di evoluzione lineare, ma attraverso un conflitto, la lotta di classe. Questa permetterà alla classe sfruttata e maggioritaria, il proletariato, non soltanto di affrancarsi ma di creare la società senza classi e, parallelamente, lo sviluppo delle forze produttive permetterà lo sviluppo della tecnica e l’abbondanza. La rivoluzione socialista universale è in qualche modo il mezzo, la tappa, con cui si realizzerà tale progresso. Come il mito e la religione hanno contaminato l’idea di Ragione alla fine del XVIII secolo, così si può dire che il religioso si è infiltrato in profondità nella promessa marxista, poiché in qualche modo il mondo nuovo si realizza su un vero e proprio messianesimo; dove il messia è il proletariato industriale, l’apocalisse la Rivoluzione, la promessa il trionfo della società senza classi.
Possiamo vedere anche, in seguito alla
Rivoluzione francese, che la laicità repubblicana (senza entrare nella tematica rivoluzionaria) della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo riprende l’eredità dei Lumi. Gli istitutori in particolare sono i portatori di questo messaggio a fronte dei curati dei villaggi. Tale messaggio di laicità è il seguente: il progresso è portato dallo sviluppo della ragione, della scienza, dell’educazione.
Era evidente che la ragione non poteva che progredire, che la scienza e l’educazione non potevano che apportare benefici… Tutte queste prove, o piuttosto queste soluzioni, costituiscono oggi un problema. Sono terribilmente oscurate, poiché vediamo che ognuno di questi elementi che si supponeva fossero del tutto benefici rivelano oggi alcune ambivalenze, un misto di bene e di male. La scienza ha concepito anche l’arma nucleare, Hiroshima e Nagasaki. Ha creato la capacità di produrre la morte di massa dell’umanità.
Nell’ambito biologico, è capace di produrre manipolazioni genetiche che possono servire ai fini migliori come a quelli peggiori. La tecnica stessa può essere usata a fini buoni e a fini cattivi. Le forze scientifiche/tecniche/economiche incontrollate dagli esseri umani portano ugualmente verso forme di degrado irreversibile, a cominciare dal degrado della biosfera che avrà conseguenze estremamente nefaste per la sopravvivenza dell’umanità. Diciamo che il quadrimotore costituito da scienza, tecnica, economia, profitto, e che era ritenuto in grado di produrre il progresso, è oggi il propulsore della navicella spaziale Terra senza pilota che porta con sé una duplice minaccia di morte: morte della
biosfera e morte nucleare. Si tratta dunque di un ribaltamento fenomenale. La scienza è certamente illuminante ma, al tempo stesso, accecante, nella misura in cui non riesce ancora a fare la sua rivoluzione, che consiste nel superare il riduzionismo e la frammentazione del reale che impongono le discipline settoriali. È incapace di restituire visioni d’insieme. Ma si può sperare effettivamente che una scienza nuova possa svilupparsi, rigenerarsi. Analogamente, si può pensare che la tecnica che ha prodotto macchine che obbediscono a una logica puramente meccanica – logica del resto che i tecnocrati e gli economisti hanno applicato all’insieme delle società – produca macchine migliori, più sensibili alle complessità, e che l’economia non sia condannata alla legge concorrenziale del neoliberismo e porti altre possibilità come il commercio equo, l’economia solidale o, semplicemente, l’economia cittadina. Ad ogni modo, il progresso come certezza è morto. Si può persino dire che siamo davanti a una grande incertezza. C’è una possibilità di progresso, ma il progresso ha sempre bisogno di essere rigenerato. Nessun progresso può avere la sicurezza di durare.
Così, per esempio, la tortura era scomparsa dai Paesi d’Europa nel XIX secolo ed è riapparsa in tutti i Paesi d’Europa nel XX secolo. E soprattutto vediamo oggi l’alleanza di due barbarie: l’antica barbarie della guerra che, con le guerre di religione, guerre di etnie, guerre di nazione, guerre civili, ritorna in forza con tutto ciò che essa implica in termini di odio, di disprezzo, di distruzione e di morte… E la barbarie tecnica, la barbarie astratta del
calcolo che ignora l’umano dell’essere umano, vale a dire la sua vita, i suoi sentimenti, i suoi slanci, le sue sofferenze. Tutto ciò ci porta all’idea che bisogna superare i Lumi. Dobbiamo cercare al di là dei Lumi. Quando dico «superare», intendo nel senso hegeliano di aufheben , che vuol dire integrare ciò che è superato, integrare ciò che c’è di valido nei Lumi ma con qualcosa d’altro. Che cosa è questo al di là dei Lumi? Significa innanzitutto che bisogna riesaminare la ragione, bisogna superare la razionalità astratta, il primato del calcolo e il primato della logica astratta. Occorre liberarsi della ragione provincializzata. Occorre prendere coscienza dei mali della ragione. Occorre superare la ragione strumentale di cui parla Adorno, che è al servizio delle peggiori imprese di morte. Occorre anche superare l’idea di ragione pura, perché non esiste ragione pura, non esiste razionalità senza affettività. Occorre una dialogica tra razionalità e affettività, una ragione mitigata dall’affettività, una razionalità aperta. Occorre dare forza a questa corrente minoritaria nel mondo occidentale o europeo, quella della razionalità autocritica che, da Montaigne a Lévi-Strauss, riconosce i propri limiti e implica l’autocritica dell’Occidente. In altri termini, abbiamo bisogno di una razionalità complessa che affronti le contraddizioni e l’incertezza senza soffocarle o disintegrarle. Il che significa una rivoluzione epistemologica, una rivoluzione nella conoscenza. Dobbiamo tentare di ripudiare l’intelligenza cieca che vede soltanto frammenti separati, che è incapace di collegare le parti e il tutto, l’elemento e il suo contesto, che è incapace di concepire l’essere planetario e di cogliere il problema ecologico. Si può dire che la tragedia ecologica che è cominciata è la prima catastrofe planetaria provocata dalla carenza fondamentale del nostro modo di conoscenze e dalla ignoranza che tale modo di conoscenza comporta. È dunque il crollo della concezione luminosa della razionalità (vale a dire quella che comporta una luce accecante e dissipa le ombre con idee chiare e distinte, con la logica del determinismo) che, di per sé, ignora il disordine e il caso. Dobbiamo concepire una realtà complessa, fatta di un cocktail sempre mutevole di ordine, di disordine e di organizzazione. Occorre sapere che esiste un principio di organizzazione ma anche di disorganizzazione nell’universo con il secondo principio della termodinamica. Occorre comprendere che l’universo è complesso e comporterà sempre per il nostro spirito incertezza e contraddizione. Occorre comprendere che «è oscura la fonte stessa da dove nasce la nostra luce», come diceva san Giovanni della Croce. Occorre comprendere che sono l’imprevedibile e l’improbabile a verificarsi più spesso. Occorre sostituire il progresso determinista, il progresso necessario in tutto, vale a dire nella concezione della vita, nella concezione della storia, nella concezione dell’universo. Ci sono due esempi che dimostrano che l’imprevisto accade: in occasione delle guerre persiane, quando la piccola Atene ha saputo per ben due volte ricacciare indietro il gigantesco Impero persiano e in occasione della Seconda Guerra Mondiale, alle porte di Mosca, alla fine del 1941, quando un inverno straordinariamente precoce ha bloccato le armate naziste. Occorre abbandonare l’idea astratta dell’umano che si trova nell’umanesimo. Idea astratta perché si riduce l’uomo a homo sapiens, homo faber, homo oeconomicus. L’essere umano è anche sapiens e demens, faber e mythologicus, oeconomicus e ludens, prosaico e poetico, naturale e metanaturale. Occorre sapere che l’universalismo è diventato concreto nella concretizzazione dell’era planetaria in cui si può scoprire che tutti gli umani hanno non solo una comunità di origine, una comunità di natura attraverso le loro diversità, ma anche una comunità di destino. Allora, l’umanesimo astratto può diventare concreto. Il progresso dipende anche ormai dalla coscienza umana. Il progresso acquisito deve rigenerarsi incessantemente. La possibilità di progresso si trova in quello che Marx chiamava «l’uomo generico», nelle potenzialità inibite dalle nostre società, dalla specializzazione, dalla divisione del lavoro, dalla sclerosi… Questa idea, che si trova in Rousseau, è estremamente importante in Marx. Nelle nostre società, solo i poeti, gli artisti, gli inventori – in quanto esseri devianti – sono capaci di essere creatori e di generare qualcosa. Allora, si intravede una possibilità di andare oltre i Lumi, integrandoli. Occorre coniugare quattro vie che, fino a oggi, sono state separate. La prima via è la riforma dell’organizzazione sociale, che non può essere la sola via del progresso ma che non deve essere abbandonata. La seconda via è quella della riforma attraverso l’educazione, che deve compiersi in profondità perché l’educazione possa aiutare a far evolvere gli spiriti. La terza è la riforma di vita. E la riforma etica propriamente detta è la quarta. Dobbiamo comprendere che se c’è vero progresso, allora c’è possibilità di metamorfosi. Se c’è una società-mondo, essa sarà il prodotto di una metamorfosi, perché sarà una società di tipo nuovo e non una riproduzione gigantesca dei nostri Stati nazionali attuali. Ciò è forse improbabile, ma per tutta la vita ho sperato nell’improbabile e talvolta le mie speranze si sono concretizzate. La nostra speranza è la fiaccola nella notte: non esiste alcuna luce accecante, ci sono solo fiaccole nella notte.
La ragione critica illuministica mise in discussione le religioni in un modo che definirei miope, poiché non percepisce il contenuto umano del sacro Questa intelligenza costruisce le sue teorie – in particolare scientifiche – e l’idea di un universo completamente spiegabile, di un’umanità guidata dalla Ragione Sovrana che assume peraltro il carattere provvidenzialistico di una fede




DIDEROT E D’ALAMBERT RIUNISCONO I COLLABORATORI DELL’«ENCICLOPEDIE»: BUFFON, D’HOLBACH, MONTESQUIEU, ROUSSEAU E VOLTAIRE


Morin IL TESTO E L’AUTORE


Filosofo del moderno

Anticipiamo in queste colonne il capitolo « Oltre i Lumi » inserito da Edgar Morin nel suo
Oltre l’abisso , in uscita da Armando editore ( pagine 126, euro 15,00). Nel volume il filosofo, antropologo e sociologo si interroga sul caos davanti al quale ci troviamo e sull’insufficienza delle tradizionali risorse indicate con termini quali ' riforma' e ' rivoluzione'.
Fondatore nel 1967 con Roland Barthes e Georges Friedmann di
Communications,
Morin è sociologo presso il Cnr francese; tra le sue opere,
Amore, poesia e saggezza ( 1999); Educare nell’era planetaria ( con Emilio Roger Ciurana e Raul Domingo Motta, 2005); L’anno I dell’era ecologica
( 2007). La sua opera capitale è
Il metodo, in sei volumi editi tra il 1977 e il 2004.




© Copyright Avvenire 11 aprile 2010

La cena dei cretini. La Francia rivoluzionariaFrancia rivoluzionaria si macchiò 200 anni fa degli stessi crimini che si è soliti associare al nazismo

di Marco Respinti



Si apprestava il Bicentenaire della rivoluzione di Francia e Jean Dumont – storico scomparso nel 2001 di cui la Francia farebbe bene a menare più vanto – pubblicò un pamphlet urticante, Pourquoi nous ne célèbrerons pas 1789 (ARGÉ, Bagneux 1987). Fu tradotto come I falsi miti della Rivoluzione francese (prefazione di Giovanni Cantoni, Effedieffe, Milano 1990), ma è il titolo originale a essere significativo: perché sarebbe meglio non celebrare l’Ottantanove come l’alba del “mondo nuovo”.
Dumont si permise l’invettiva perché era un vero topo di biblioteca, uno studioso carico di importanti scoperte documentali. E così, dettagliate le proprie affermazioni lungo un’intera carriera, sciorinò in questo opuscolo “di battaglia” le inibizioni derivate alla società occidentale dalla rivoluzione francese e fortificate dalla cultura che ne derivò nei secoli seguenti.
Ovvero: il falso mito della “modernizzazione decisiva” rispetto ai presunti cascami del passato, quello del “popolo al potere” e quello della sua finalmente conquistata “felicità”. Poi mise in luce l’incapacità della cultura postrivoluzionaria di garantire le libertà sociali e le autonomie per colpa di uno statalismo opprimente e di un nazionalismo aggressivo. Infine la falsità egualitaristica e l’invenzione del terrore poliziesco come strumento di governo quotidiano.
Talché le parole proferite nel 1989 dall’arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi – la rivoluzione francese ci ha lasciato solo il sistema metrico decimale – sono di più di una semplice boutade.
Il “secolo lungo”
Ma se l’Ottantanove ha prodotto macerie, la philosophie che lo precedette lungo il “secolo francese”, dichiarandosi lume venuto a rischiarare l’antro tenebroso e fetido della superstizione e del servaggio (per dirla con Edgar Quinet), ha invece consegnato alla posterità retaggi profondi e purtroppo duraturi sull’intera cultura progressista, cioè, quella che per lo più oggi domina. Così che, nonostante la definizione di «secolo breve» di Eric Hobsbawm, il Novecento dei noti abissi appare, in verità come “secolo lungo”, apertosi più di 200 anni fa in Francia.
E tra le molte venature di questo lascito, tra le pieghe del suo razionalismo, nei solchi del suo democraticismo, nelle filière del suo egualitarismo, nei meandri del suo statalismo e tra le ans(i)e del suo laicismo, spunta pure, orrendo e raccapricciante, il razzismo.
Sì, il razzismo: quello che, anche ammesso di voler perdonare tutto ai Lumi e alla rivoluzione, mai si penserebbe di collegare al Settecento francese. Perché cozza con la triade libertè, egalitè, fraternitè; perché contrasta con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino; perché in urto con la sua retorica emancipazionista, liberazionista e universalista.
Ma non è così. Già da qualche anno in Francia lo storico Jean de Viguerie (cfr. il Domenicale 16 ottobre 2004) e oggi in Italia Marco Marsilio con il volume Razzismo, un’origine illuminista (prefazione di Gianni Scipione Rossi, Vallecchi, Firenze 2006) documentano il contrario. Il razzismo fece parte a pieno titolo del pensiero illuminista, non ne contraddice affatto i canoni e anzi fu un perno centrale di quel “pensiero nuovo” che mirò a travolgere duemila anni di riflessione culturale.
Fu infatti la philosophie che, tra sensismo, meccanicismo e materialismo incipienti, ridusse l’essere umano a specie tra le specie, inserendone la vicenda temporale nell’ambito della mera storia naturale e quindi sottoponendolo a classificazioni e tassonomie quasi fosse una pianta o una bestia qualsiasi. A ciò si accompagnò una critica sempre più serrata della narrazione biblica. E così l’idea di una comune origine dell’umanità lasciò presto il posto ad arzigogolate e aberranti teorie eziologiche che hanno finito per ridurre le “specie” umane a miceti spuntati qua e là per caso, belli o brutti, intelligenti o deficienti, così come i funghi sono eduli o velenosi.
Fu questa la vera rivoluzione, quella che incoronò l’uomo-materia detronizzando l’antico essere umano imago Dei. A essa contribuirono un po’ tutti i padri nobili dell’illuminismo, da Voltaire al conte di Buffon, da Jean-Baptiste-Claude Delisle de Sales a Guillaume-Thomas-François Raynal, da Denis Diderot a Baptiste-Henri Grégoire. Il resto fu conseguenza pratica.
La riduzione dell’essere umano alla semplice dimensione materiale e naturalistica venne poi rielaborata “scientificamente” nell’Ottocento, che dotò il razzismo di basi “oggettive” e biologiche. La strada per Auschwitz era aperta.
Evoluzionismo ed eugenetica
Ma non solo. Da quel pensiero discende anche l’“eugenetica democratica”, e su questo si possono leggere con profitto Piero S. Colla, Per la nazione e per la razza. Cittadini ed esclusi nel modello svedese (Carocci, Roma 2005), Luca Dotti, L’utopia eugenetica del welfare state svedese, 1934-1975 (Rubbettino, Soveria Mannelli 2004) ed Edwin Black, The War Against the Weak: Eugenics and America’s Campaign to Create a Master Race (Four Walls Eight Windows, New York 2003).
In più, sempre da quel pensiero, derivò l’idea secondo cui si può fare qualsiasi cosa dell’uomo, se ciò serve, sin dal suo stadio embrionale. Per esempio, «rigenerarlo» come l’abbé Grégoire, prete giacobino, prospettava per gli ebrei «degenerati».
L’eugenetica, del resto fu inventata, termine e idea, dallo psicologo Francis Galton, il quale introdusse l’evoluzionismo del proprio cugino Charles Darwin nel biologismo “scientifico” con cui poi auspicò la manipolazione umana (tutto da leggere è Richard Weikart, From Darwin to Hitler: Evolutionary Ethics, Eugenics, and Racism in Germany [Palgrave MacMillan, New York 2004]).
200 anni fa, il Terzo Reich
Ora, gli orrori della Shoà hanno prodotto una valanga di riflessioni, ma la cultura occidentale – come bene scrive Marsilio – per non voler essere mai più razzista ha cercato di non esserlo mai stata, rimettendo ogni responsabilità al solo nazionalsocialismo, folle e improvviso.
Eppure la malapianta aveva radici più profonde. Forte delle teorie eugeniste e malthusiane che gli provenivano dai padri illuministi, la Francia rivoluzionaria si macchiò ben 200 anni fa degli stessi crimini che si è soliti associare al nazismo. Dai massacri del settembre 1792 con cui si eliminarono anche deboli e perversi prefigurando l’Operazione T4 realizzata nel 1939 dal Reich hitleriano, al primo genocidio della storia, quello praticato in Vandea tra il 1793 e il 1794 con tanto di camere a gas ed esecuzioni anzitutto di donne e di bambini, onde estirpare una «race maudite», una razza maledetta, di oppositori.
Insomma solo in virtù della sua memoria corta, certo Occidente può ancora gloriarsi dell’illuminismo.

Il Domenicale N. 12 - DAL 25 AL 31 MARZO 2006

Chi è il visionario che ha preso a sportellate i vecchi teorici dell’illuminismo

Qualsiasi manuale insegna che nel 1766
Kant produsse un’opera dal titolo farraginoso:
“I sogni di un visionario spiegati
coi sogni della metafisica”. All’epoca l’illuminismo
era ormai pienamente maturo
e consapevole; Montesquieu, Voltaire e
Rousseau avevano già pubblicato le loro
opere fondamentali e strati sempre più
ampi di lettori guardavano con favore al
trionfo della ragione in ogni campo. L’attacco
di Kant era diretto contro Emanuel
Swedenborg, ex cartesiano diventato sempre
più scettico riguardo al meccanicismo
razionale e sempre più convinto che il cervello
dell’uomo fosse la chiave per trascendere
il corpo e comunicare con un’anima
individuale e collettiva dalle possibilità
teoricamente infinite. Un visionario,
appunto; ma se Swedenborg era una pittoresca
eccezione nel panorama razionalistico
del Settecento, perché un fuoriclasse
come Kant si mosse contro di lui con tanta
acrimonia?
La risposta arriva da un volume appena
pubblicato a cura di Dan Edelstein, professore
a Stanford, dal significativo titolo
“The Super-Enlightenment: daring to
know too much” (Studies on Voltaire and
the Eighteenth Century, Oxford 2010). In
poco più di duecento pagine viene dimostrato
come Swedenborg fosse l’esponente
più celebre di un Settecento inconsueto e
ignoto, nel quale affondano le radici grandi
movimenti irrazionali – o troppo razionali
– come la teosofia, la massoneria, la fisiocrazia
e perfino l’astrologia modernamente
intesa.
Come la storia anche la filosofia viene
scritta dai vincitori, quindi nell’attuale
concezione del Settecento non trova spazio
la serie di emuli di Swedenborg sui
quali si snoda il volume. Alcuni sono relativamente
noti, come François Quesnay,
fondatore della fisiocrazia, che auspicava
di sintetizzare ogni possibile movimento
economico in una tabella che rispecchiasse
“le varie idee e i loro rapporti così come
si presentano all’intuizione del nostro
spirito”; o come Victor de Mirabeau, suo
seguace nonché autore di romanzi pornografici,
che intendeva l’economia come “la
luce che deve guidare tutti i membri di
una società nella loro condotta privata”
compresa l’attività sessuale. Ma ci sono anche
Claude-Nicolas Ledoux, architetto che
aveva presentato al ministro Turgot il progetto
di una città ideale “in cui tutte le arti
e tutte le professioni potessero trovare
spazio una di fianco all’altra, ognuna nella
situazione più congeniale”, e il poeta
Louis-Claude de Saint-Martin, che distingueva
fra la “parola” comunemente intesa
e il “verbo” la cui etimologia poteva essere
indagata fino a risalire al primigenio
linguaggio universale insegnato da Dio ad
Adamo quando lo chiamò a dare un nome
agli animali (Genesi 1, 19).
Soprattutto c’è Charles François Dupuis,
uno dei più arrabbiati teorici della
Rivoluzione francese, che introdusse in
Francia la mania per l’antico Egitto prima
ancora delle imprese africane di Napoleone:
sua fu l’idea di coniare delle monete
sulla quale la Marianna sarebbe apparsa
bardata nei tipici vestimenti delle divinità
egizie; sua la decisione di imbastire il calendario
rivoluzionario sulla scansione
dei segni zodiacali, facendo coincidere la
nascita della Repubblica, 22 settembre
1792, con l’equinozio d’autunno; sua l’intuizione
di includere il culto della dea ragione
nel saggio La religione universale
(1794), il cui frontespizio schierava una ridda
di candelabri ebraici, statue greche,
simboli dei Vangeli e inevitabili segni zodiacali.
Il volume curato da Edelstein è decisivo
perché dimostra l’esistenza di una massiccia
corrente teorica che fu parte integrante
dell’illuminismo, in continuo dialogo
coi philosophes nel suo tentativo di spingere
l’uomo verso la ricerca di un “oltre”
che non poteva essere raggiunto con le sole
forze della ragione; un illuminismo metafisico
duro a dichiarare partita persa. Se
ne accorse lo stesso Kant, ormai campione
del razionalismo, quando nel 1796 Samuel
Thomas Sömmering gli chiese una prefazione
per un saggio in cui dimostrava di
aver scoperto la sede fisica dell’anima nel
fluido ventricolare. Kant dovette pensare
che il suo motto “sapere aude!” fosse stato
preso troppo alla lettera.

Antonio Gurrado

Il Foglio 2 febbraio 2010

ANCHE I LUMI CREDEVANO IN DIO. Lo storico David Sorkin spiega il volto sconosciuto dell’Illuminismo religioso

di Amy Rosenthal
Tanto negli ambienti accademici
quanto nell’immaginario popolare,
l’Illuminismo rappresenta un fenomeno
squisitamente laico – anzi l’origine
della stessa cultura laica moderna.
Questo assioma, tuttavia, “è troppo
simplicistico e storicamente inaccurato”,
dichiara David Sorkin, Frances
and Laurence Weinstein Professor of
Jewish Studies nonché professore di
storia presso la University of Wisconsin-
Madison. Sfidando questa tesi dominante,
nel suo ultimo libro, “The
Religious Enlightenment: Protestants,
Jews and Catholics from London to
Vienna” (Princeton University Press)
Sorkin cerca non soltanto di ridefinire
la nostra concezione dell’Illuminismo,
ma anche di dimostrare che “era
non semplicemente compatibile con
la fede religiosa ma addirittura un
elemento per la sua promozione”.
Spiega: “l’Illuminismo ha reso possibili
nuove formulazioni della fede.
Con l’affermazione dell’Illuminismo,
la religione hon ha perso né il proprio
posto né la propria autorità tradizionale
nella società e nella cultura europea.
Se è vero che rintracciamo le
radici della cultura moderna nell’Illuminismo,
dobbiamo anche renderci
conto che esso aveva un fondamento
sostanzialmente religioso. Perciò, dobbiamo
ampliare il panorama dei pensatori
e dei letterati illuministi, includendovi
anche i teologi”.
Per illustrare la sua tesi dell’Illuminismo
religioso, David Sorkin conduce
i lettori attraverso un tour delle città
più importanti dell’Illuminismo del Diciottesimo
secolo. Ogni fermata corrisponde
a un capitolo, e ciascun capitolo
si concentra sul pensiero di un unico
“illuminista religioso”: l’anglicano William
Warburton (1698-1779) a Londra, il
calvinista Jacob Vernet (1698-1789) a Ginevra,
il luterano Siegmund Jacob
Baumgarten (1706-1757) ad Halle, l’ebreo
Moses Mendelssohn (1729-1786) a
Berlino, e i cattolici Joseph Eybel (1741-
1805) a Vienna e Adrien Lamourette
(1742-1794) a Lione. Ecco come lo stesso
Sorkin giustifica la necessità di questo
studio: “Innanzitutto, l’Illuminismo religioso
non fu ristretto a una sola religione;
fu invece qualcosa di comune ai
protestanti, ai cattolici e agli ebrei. Per
i cristiani, significò una rinuncia alla
militanza riformista e controriformista,
una concreta alternativa a due secoli di
dogmatismo e fanatismo, intolleranza e
guerre religiose. Per gli ebrei, rappresentò
lo sforzo di superare l’inconsueto
isolamento culturale del periodo postriformistico
attraverso la riappropriazione
di elementi trascurati della propria
eredità culturale e il confronto con
le altre culture”. Sorkin, sottolinea inoltre
come questo processo non fu ristretto
nemmeno a una sola regione
dell’Europa, ma “si diffuse attraverso
tutta l’Europa occidentale e centrale in
una fitta rete di influenze e derivazioni
transconfessionali e transnazionali”.
Descrivendo le somiglianze che legano
i sei illuministi religiosi studiati,
Sorkin afferma: “In primo luogo, tutti
loro erano in cerca di una via mediana
per una fede religiosa fondata sull’idea
della ‘religione naturale’ e sul principio
esegetico della reciproca concordia.
Secondo, erano tutti sostenitori
della tolleranza, fondata sul principio
della legge naturale. Terzo, la sfera
pubblica aveva per essi un’importanza
decisiva, e si occuparono tutti non soltanto
di teologia, ma anche di storia,
geografia, filosofia, belles lettres e politica,
in quanto non riconoscevano alcun
ostacolo tra questo tipo di ricerche
e il mantenimento della propria fede
religiosa. Quarto, scrissero tutti nella
propria lingua nazionale anziché in latino
o in ebraico. Quinto, nessuno di loro
propose mai alternative radicali allo
Stato confessionale, come la separazione
di Chiesa e Stato o la religione civica”.
Ma nonostante queste somiglianze,
Sorkin ammette che il suo scopo principale
è stato quello di “mostrare che
queste oscure figure – con l’eccezione
di Moses Mendelssohn – non soltanto
esercitarono una grande influenza ai
loro tempi, ma che le loro costruzioni
intellettuali continuano ad essere affascinanti
e convincenti ancora oggi”.
Uno degli aspetti più “affascinanti”
sta proprio nel loro consapevole tentativo
di trovare un equilibrio tra fede e
ragione mediante il concetto di “ragionevolezza”.
Come ci spiega lo stesso
Sorkin, “il concetto di ragionevolezza è
fondamentale per comprendere l’Illuminismo
religioso, proprio perché gli
studiosi normalmente parlano dell’Illuminismo
come promotore dell’idea di
razionalità e pongono tale idea in aperto
contrasto con le autorità delle scritture
e della rivelazione. Gli illuministi
religiosi partivano da un diverso punto
di vista: concepivano le cose in termini
di ragionevolezza e non ragionevolezza.
A loro giudizio, la ragionevolezza significava
una ragione coordinata e compatibile
con la fede. Essere ‘ragionevole’
significava riconoscere l’autorità della
ragione, della scienza e della filosofia e
allo stesso tempo anche l’autorità delle
scritture, della rivelazione e dei miracoli.
Per essi, accettare una parte senza
l’altra avrebbe portato a una ‘fede senza
conoscenza’ e, di conseguenza, al fanatismo,
oppure a una ‘ragione senza
fede’ e, di conseguenza, all’immoralità
e alla miscredenza. Gli illuministi religiosi,
perciò, proposero la seguente distinzione:
la rivelazione non può contenere
verità in contraddizione con la ragione
(contra rationem), e include invece
verità al di sopra della ragione (supra
rationem), vale a dire, verità rivelate
non accessibili alla ragione ma in
perfetta armonia con essa”.
Gli illuministi religiosi sostennero
apertamente che le idee della religione
naturale erano il suggello del loro reciproco
rapporto: “La religione naturale
consisteva nelle verità accessibili alla
ragione senza aiuti esterni, il che normalmente
significava fede in Dio, nella
sua provvidenza e nella grazia o punizione
della vita dopo la morte. Già nel
Diciassettesimo secolo, libertini e deisti
– in particolare Herbert of Cherbury
(1583-1648) – avevano promosso l’idea
della religione naturale in aperta opposizione
a quella di religione rivelata.
Questa idea fu accolta da quasi tutti i
pensatori illuministi, in quanto, trascendendo
i limiti delle diverse confessioni,
poteva garantire una comune
concezione della moralità e costituire il
fondamento di una società multiconfessionale.
Gli illuministi religiosi del
Diciottesimo secolo, tuttavia, saldarono
insieme i principi della religione naturale
e della religione rivelata, trasformando
in opinione convenzionale quella
che nel Diciassettesimo secolo era
stata un’idea estremamente radicale. In
altre parole, ciò che sostennero era che
la maggior parte della gente non è in
grado di agire moralmente soltanto sulla
base della religione naturale, e quindi
ha bisogno di una religione rivelata”.
Ribadendo i motivi per cui nel canone
dei pensatori illuministi debbano
essere inclusi anche i teologi, Sorkin ci
parla del più illustre teologo protestante
di Prussia negli anni 1720-1750, Siegmund
Jacob Baumgarten. “Se chiedete
alla maggior parte degli studiosi che si
occupano di Illuminismo o Diciottesimo
secolo se hanno mai sentito parlare
di qualcuno chiamato Baumgarten, la
risposta sarà quasi immancabilmente
questa: ‘Oh, sì, certo, Alexander Baumgarten,
il fondatore dell’estetica come
disciplina’. Ciò detto, se si guarda più in
profondità, si scopre che Alexander
Baumgarten era in realtà il fratello minore
di Siegmund. Vissero nella stessa
casa, frequentarono l’Università di
Halle negli stessi anni e divennero entrambi
seguaci della filosofia di Christian
Wolff (il più illustre filosofo tedesco,
nel periodo che va da Leibniz a
Kant). “Ma”, esclama Sorkin con un certo
tono di suspense, “se si esamina attentamente
il momento storico in cui
vissero, ci si accorge che la persona non
soltanto più nota al tempo ma anche
quella considerata ‘il pilastro dell’Illuminismo
prussiano’ era Siegmund Jacob
Baumgarten. Insegnò nella facoltà
di teologia dell’Università di Halle,
curò la traduzione dall’inglese al tedesco
di una storia universale in diciassette
volumi, per la quale scrisse anche
ampi e dettagliati apparati di commento
e note. Questi apparati riscossero un
tale successo che furono in seguito tradotti
in inglese e pubblicato come supplemento
all’edizione originale. Ben
consapevole degli sviluppi intellettuali
che si stavano affermando in Europa,
Siegmund Baumgarten sapeva che i
deisti e i pietisti avevano fatto della storia
il loro strumento più efficace contro
il cristianesimo. Studiando la storia,
cercava di trovare una ‘via mediana’ tra
l’assalto sferrato dai deisti contro il cristianesimo
e il tentativo dei pietisti di
individuare nuovi modelli di ispirazione
e di giustificare il separatismo. Così,
osservando i due fratelli Baumgarten,
ciò che vediamo è effettivamente il modo
in cui la nostra nozione del canone
classico dell’Illuminismo letterario abbia
travisato la vera natura di questo fenomeno”.
Passando al riformista cattolico
Adrien Lamourette, Sorkin ci racconta
che a “Lamourette viene di solito riservato
un breve accenno nelle storie della
Rivoluzione francese per il suo ‘celebre
bacio’ o un’altrettanto breve menzione
nelle storie del pensiero politico
per avere coniato l’espressione ‘democrazia
cristiana’. In realtà, membro dell’ordine
mauriziano e professore, ebbe
un ruolo alquanto interessante nel formulare
una teologia cattolica riformata
che univa una religione ragionevole e il
sentimentalismo ruousseauiano sulla
base di un moderato scetticismo fideista,
che intendeva superare l’endemica
polarizzazione dell’Illuminismo francese
fra filosofia e cristianesimo. Accogliendo
con favore la Rivoluzione francese,
Lamourette sostenne entusiasticamente
la monarchia costituzionale e
la costituzione civile del clero, perché
nella fusione di fede e politica operata
dalla rivoluzione vedeva il risvegliarsi
di speranze millenarie”. Ciononstante,
questa speranza di Lamourette, e di
moltri altri membri del clero patriottico,
si frantumò ben presto. “Sì”, replica
Sorkin, “l’Assemblea legislativa e la
Convenzione convinsero Lamourette
che l’iniziale promessa della Rivoluzione
si stava dissolvendo nel conflitto tra
controrivoluzione e proseguimento della
rivoluzione”. Questo fu davvero troppo
per Lamourette, il quale “era favore
della monarchia costituzionale, non
della repubblica. Sosteneva la costituzione
civile del clero, ma non gli sforzi
tesi verso un’aperta e completa secolarizzazione.
Infatti, il celebre bacio di
Lamourette, nel luglio del 1792, quando
propose all’Assemblea legislativa che
tutti i delegati si abbracciassero e si
scambiassero un bacio per superare le
proprie differenze e divisione fu in
realtà un tentativo di fermare la rivoluzione
e difendere lo status quo – uno
status quo che Lamourette stesso definisce
come ‘democrazia cristiana’”.
Riflettendo sulla fondamentale influenza
di Lamourette non soltanto sull’Illuminismo
ma anche sul cattolicesimo,
Sorkin aggiunge: “Sono molte le cose
che la Chiesa cattolica può oggi imparare
da lui. Detto questo, penso che
tutte le religioni di cui mi sono occupato
(cattolicesimo, luteranesimo, calvinismo,
anglicanismo e giudaismo) e, anzi
tutte le religioni (o almeno tutte le religioni
occidentali), siano delle specie di
conversazioni. Intendo dire che ci sono
tradizioni concorrenti o alternative all’interno
di tutte queste religioni, soprattutto
nel cattolicesimo, in seno al
quale il riformismo del Diciottesimo secolo
ha rappresentato una visione alternativa
della chiesa, altrettanto legittima
e affascinante rispetto ad altre tradizioni
presenti al suo interno. Dato
che la chiesa esercita ancora oggi una
profonda influenza sulla società italiana,
è estremamente importante che i
cattolici italiani si rendano conto che
esistono concezioni alternative del cattolicesimo,
come appunto quella promossa
da Lamourette”. Per quanto ammetta
che il cattolicesimo sia quasi
completamento estraneo al suo proprio
mondo, Sorkin mostra per Lamourette
una grande e sincera simpatia. “Era un
uomo di assoluta sincerità e genuinità,
che credeva con tutta la sua anima in
una giusta società cristiana. Con la stessa
forza con la quale salutò all’inizio il
motto rivoluzionario di Fraternità,
Uguaglianza e Libertà, Lamourette detestò
sempre la tirannia e l’anarchia,
vero motivo della sua opposizione ai
giacobini. Decisione che pagò con la
propria vita sotto il Terrore”.
Sebbene il suo libro sia dedicato all’Illuminismo
europeo e non a quello
americano, chiediamo a Sorkin quali
differenze si possono osservare nella
concezione che se ne ha sui due continenti.
“Penso che una delle differenze
più fondamentali risieda nella diffusa
convinzione che l’America sia in realtà
l’autentica incarnazione dell’Illuminismo.
Più di trent’anni fa, Henry Steele
Commager disse che mentre l’Europa
aveva semplicemente ‘immaginato’ l’Illuminismo,
l’America lo aveva ‘realizzato’.
Più recentemente Gertrude Himmelfarb,
ha ribadito questa tesi sostenendo
che l’eccezionalismo dell’America
sta proprio nella sua concretizzazione
della ‘politica della libertà’ auspicata
dall’Illuminismo, refrattaria a
qualsiasi utopia razionalista. C’è, in altre
parole, l’idea che l’America, fondata
da un gruppo di persone profondamente
intrise dal pensiero illuministico,
sia diventata il simbolo stesso dell’Illuminismo
nel mondo moderno, ed è
proprio questo che separa l’America
dall’Europa e dal resto del mondo; è
soltanto un mito, ma è un mito davvero
meraviglioso”. Perché lo definisce un
“mito”? “Dunque, se si guarda l’Europa
di oggi, si riscontra che gli stati europei,
sul piano religioso, sono altrettanto pluralistici
dell’America. Perciò, uno dei
grandi miti dell’Illuminismo è che la
tolleranza sia una qualità di natura
strettamente laica. La tolleranza nasce
dalle riflessioni di pensatori e politici
laici. Tuttavia, se si esamina la storia
del Diciottesimo secolo con maggiore
attenzione, ci si accorge che ci furono
anche dei pensatori religiosi che cercarono
di elaborare una precisa concezione
della tolleranza religiosa, da essi
considerata non soltanto compatibile
con la fede religiosa ma addirittura essenziale
e imprescindibile”.
Il libro di Sorkin sembra sostenere
l’idea che l’Europa sia unita da una comune
eredità giudaico-cristiana. Gli domandiamo
se le sue ricerche tendono a
confermare la validità storica e politica
di questa idea. Lo studioso americano
fa cenno di sì con la testa e poi dice:
“Sul piano storico, una delle cose che
cerco di dimostrare attraverso l’analisi
dell’Illuminismo religioso è sostanzialmente
questa: è qui il punto in cui la
tradizione giudaico-cristiana inizia all’interno
del pensiero europeo moderno.
Qui, infatti, protestantesimo, cattolicesimo
e giudaismo convergono insieme,
forse per la prima volta dai tempi
della Riforma. Inoltre, tutti gli esponenti
dell’Illuminismo religioso di cui
ho parlato nel mio libro condividono la
stessa strategia intellettuale, basata sulla
ragionevolezza e i fondamenti della
religione naturale”.
Per quanto riguarda il piano politico,
“osservando la scena attuale”, dichiara
Sorkin, “mi sembra che gli europei siano
sempre più profondamente interessati
all’idea della tradizione giudaicocristiana
perché ora si trovano in una
nuova situazione, in cui non si tratta
più soltanto dei rapporti tra ebrei e cristiani
bensì della convivenza tra giudaismo,
cristianesimo e islam. E nel
contesto di una società multi-confessionale,
la tradizione giudaico-cristiana
appare molto più attraente”. A questo
proposito, Sorkin sottolinea come la
tradizione giudaico-cristiana abbia una
interessante storia politica anche negli
Stati Uniti: “si tratta di una concezione
promossa negli anni Quaranta e Cinquanta
del secolo scorso: prima, durante
la Seconda guerra mondiale, come
baluardo contro il nazifascismo; poi,
durante la Guerra fredda, come baluardo
contro il comunismo”.
Chiediamo a Sorkin quale sia il messaggio
principale che i lettori traggano
dal suo libro. “E’ un messaggio che va
controcorrente rispetto alla visione tradizionale
laica dell’Illuminismo, e che
individua nella cultura moderna anche
fondamentali radici religiose. Poiché
gli illuministi religiosi hanno sostenuto,
partendo da presupposti religiosi,
principi come la ragionevolezza, la religione
naturale, la legge naturale e la
tolleranza, le radici del liberalismo politico
vanno rintracciate tanto nella religione
costituita quanto nell’opposizione
a essa. Perciò, dobbiamo trovare
una via per ricreare un mondo nel quale
laico e religioso non siano due categorie
fisse e separate ma due elementi
inseparabilmente intrecciati”. Sorkin
fa un profondo sospiro e poi conclude
con queste parole: “Il Ventunesimo secolo
è cominciato nel segno di un apparentemente
incolmabile divario tra
laici e credenti. Per rimediare a questa
rischiosa situazione è importante ricuperare
l’idea di un Illuminismo che, includendo
anche il suo aspetto religioso,
trasformi la nostra concezione del ruolo
imprescindibile e costante svolto
dalla fede nell’elaborazione della cultura
moderna”.

Il Foglio 5 gennaio 2010