DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Noveipocondriacheconfessionisucome si fa a vivere temendo sempre di morire

Molière morì poco dopo aver recitato
nel “Malato immaginario”. Al contrario
del suo personaggio Argante, in ottima
salute ma persuaso di essere spacciato,
fingeva di essere sano e mascherava gli attacchi
di tosse in scena con qualche risata.
Comportamento deplorevole, soprattutto
alla luce della medicina preventiva che
impone di curarsi anche da sani. Non è comunque
dimostrato che l’ossessiva manutenzione
abbia qualche effetto sulla lunghezza
della vita. Anzi. Glenn Gould e
Andy Warhol – due tra gli ipocondriaci
esaminati da Brian Dillon in “The Hypochondriacs:
Nine Tormented Lives” (Faber
& Faber) – morirono entrambi a età
non da Matusalemme. Eppure il pianista
si misurava la pressione ogni ora (riempiendo
quaderni con i dati e le statistiche),
mangiava solo gallette di farina ricavata
da una certa pianta tropicale, si autoprescriveva
antidolorifici e tranquillanti. Il
pop artist era ossessionato dalla pelle butterata
e negli ultimi anni dalla paura dell’Aids:
il timore per le minacce venute da
fuori gli impedì di debellare una comune
infezione.
L’ipocondriaco non riesce ad allungarsi
la vita. Riesce però a usare bene quella
che gli tocca in sorte. E’ questa la tesi dell’irlandese
Brian Dillon, ipocondriaco
confesso fin dalla più tenera età, quando
rimase orfano di entrambi i genitori. Vale
per la scrittrice Charlotte Brontë e per
l’infermiera Florence Nightingale, che in
questo modo si ritagliarono uno spazio
per fare esattamente quel che volevano.
Scrivere romanzi senza sottostare agli obblighi
imposti alle donne dalla società vittoriana,
o riformare (dopo l’esperienza
della Crimea) le cure mediche per i militari.
La crocerossina, che si autoimpose
una lunghissima quarantena in albergo,
riuscì ad avere la meglio su parecchi avversari.
Tra un’insinuazione e l’altra,
Brian Dillon ricostruisce la storia della
malattia, che fino a un paio di secoli fa
era considerata poco più di un’indigestione,
in grado però di affliggere tutto il corpo,
e via via diventa sempre più impalpabile.
James Boswell nella Londra seicentesca
curava la sua ipocondria scatendandosi
in venti minuti di danze mattutine,
Daniel Paul Schreber viene curato da
Freud (c’era di che: il presidente era convinto
di essere prescelto da Dio per dare
origine a una nuova razza di esseri viventi,
e quindi si stava trasformando in una
femmina).
“Leggera”, “considerevole”, “acuta”,
“eccessiva” erano i gradi della flatulenza
darwiniana, che il naturalista annotava
scrupolosamente su un quadernetto, prima
di sottoporsi a ogni possibile e assurdo
trattamento: cura dell’acqua pura, cura
dei panni freddi bagnati. La famiglia,
per affetto e simpatia, lo circondava temendo
a sua volta molte malattie. L’altro
grande ipocondriaco era Marcel Proust,
che soffriva di asma ed era tanto allergico
che la sua biancheria poteva essere lavata
solo in una certa lavanderia di Parigi.
Patimenti aggravati dall’esistenza di un
fratello Proust praticamente indistruttibile
e da colleghi crudeli: James Joyce, salito
in taxi con lui l’unica volta che si incontrarono,
prima abbassò il finestrino e poi
si accese una sigaretta. Degno compagno
dei nove prescelti, manca Giovanni Pascoli,
così come lo abbiamo conosciuto grazie
ad Alberto Arbasino che in “La Belle
Époque per le scuole” riferisce nei diari
annotazioni siffatte: “Ore sei e mezza andato
di sopra, ore sei e tre quarti fatto tutto”.
E manca Thomas Mann, così come lo
racconta Javier Marías in “Vite scritte”,
facendo lo slalom tra “indisposto”, “leggeri
dolori addominali”, “voltastomaco”. Per
sua fortuna, nelle stesse pagine troviamo
registrati anche parecchi attacchi “di natura
sessuale”.

Mariarosa Mancuso

Il Foglio 2 febbraio 2010