DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Zapaterismo, autopsia di un sogno «Invece di allargare il consenso ha spaccato la società spagnola»

GIORGIO FERRARI
I
l voto al Senato che ha confer­mato la depenalizzazione del­l’interruzione di gravidanza in Spagna non deve trarre in inganno. Se della deriva zapateriana si colgo­no tuttora gli effetti è il sueño, il so­gno che il premier aveva ven­duto al spagnoli ad essersi in­franto. Il risveglio, come sap­piamo, è stato molto brusco: l’ Hispania Felix che aveva due volte raddoppiato il proprio prodotto interno lordo in do­dici anni, che sventolava or­gogliosa primati politici, eco­nomici, finanziari, ma soprat­tutto di ingegneria sociale, quasi che la sfida della mo­dernità fosse una rincorsa senza fine verso la rottura si­stematica con il passato, la tradizio­ne, gli schemi antichi e in definitiva il buon senso, ora si desta acciacca­ta e malconcia, povera come prima con i suoi otto milioni di indigenti (gli stessi dell’epoca di Felipe González, gli stessi ereditati da José Maria Az­nar, gli stessi che ora turbano i sonni di Zapatero), quasi che il prezzo del­la decantata España Plural fosse lo stesso che pagava l’Atene di Pericle: una casta di abbienti che danzava so­pra una massa di schiavi e di poveri. Le donne, i gay, l’aborto, la famiglia asimmetrica, la sghemba modernità che aveva sedotto Zapatero e a sua volta l’aveva spinto a sedurre con i medesimi incantesimi il proprio e­lettorato ha dato risultati scadenti, e­sigui e certamente non quell’evolu­zione sociale e civile che i colonnel­li del Psoe che avevano fiancheggia­to l’ascesa irresistibile dell’allora 44enne astro nascente di Valladolid si immaginavano. Anzi, il risultato più vistoso è la faglia che taglia a metà l’opinione pubblica spagnola, frat­turandone la solidarietà e il senso ci­vico a favore di una rissosa contrap­posizione. « Uno dei vizi capitali di noi spagnoli – ammette il deputato socialista Gomez Piña – è l’incapa­cità di un confronto sulle idee. Noi prendiamo partito, scegliamo un campo, combattiamo per vincere o per perdere, ma non ci confrontia­mo realmente. Così è stato con Za­patero. È un leader, il nostro leader e non ci sono discussioni».
Fra le file del Psoe si nasconde a fati­ca il malcontento. Non sono pochi i militanti e gli elettori socialisti ad es­ser rimasti disorientati dalla virulen­za anticlericale (e qualcuno – come il numero due del Partido Popular Gustavo De Aristegui, come si vede nell’intervista in questa stessa pagi­na – dice addirittura «anticattolica») del premier Zapatero. La sua è da an­ni una crociata personale, quasi vo­lesse estrarre dal corpo ombroso del­l’elettorato quei fantasmi sepolti nel-
l’orrore della guerra civile, intrave­dendo nella Chiesa cattolica la sua personale pintura negra, l’incubo o­scuro del quale la Spagna moderna dovrebbe liberarsi.
Per un po’ l’elettore spagnolo lo ha seguito. 'Bambi' Zapatero promet­teva una
movida infinita, una Spa­gna all’avanguardia nelle socialde­mocrazie europee, un laboratorio di modernità e di delegittimazione di tutto ciò che sapeva di vecchio, di ol­trepassato. I giovani, soprattutto, hanno intercettato quel messaggio. Le bombe di Atocha hanno fatto il re­sto. Ma lo zapaterismo vincente ha cominciato a inciampare sulla realtà di tutti i giorni. Non senza scivoloni strategici incredibili, come – proprio negli stessi giorni del precipitare del­la crisi immobiliare e oc­cupazionale – l’urgenza del governo di adottare «misure per conseguire la condizione di laicità che la Costituzione riserva al­lo Stato, una laicità che rispetti i religiosi, ma che richiede l’uguaglianza davanti alla legge affinché nessuna confessione possa beneficiare di un trattamento favorevole nei propri rapporti con il potere»; che fra le righe significa: u­niformiamoci alla sentenza della Corte europea di Strasburgo e to­gliamo i crocifissi dalle scuole.
Ora tutti, anche i delusi, gli agnostici, i tiepidi creden­ti convengono che la guer­ra privata di Zapatero alla Chiesa cattolica sia stata un’inutile sciocchezza, che semmai ha avuto la poco onorevole prerogativa di radicalizzare le posizioni di entram­bi. O, come dice il popolare Juan An­tonio Gomez Trinidad, «il Psoe è un autentico campione di incoerenza e
ambiguità: con tutti i problemi che abbiamo nell’istruzione, diamo un’immagine di frivolezza e generia­mo un problema e un conflitto edu­cativo non necessari. Bisogna essere un fanatico o un intransigente per sentirsi aggredito dal crocifisso, dal­la stella di David o dalla Mezzaluna». Trafitta dal male incurabile della di­soccupazione, della catena di falli­menti da parte delle imprese edili, dall’insolvenza di migliaia di im­prenditori e di decine di migliaia di cittadini che non riescono più a pa­gare il mutuo, la Spagna di Zapatero si appresta all’autopsia dell’«ultimo mito socialista d’Europa » facendo l’inventario neanche tanto metafo­rico delle macerie che lo zapaterismo si lascia alle spalle. E non è tanto u­na società divisa e disgregata di cui ci importa, quanto di una società profondamente ferita dalle manipo­lazioni del leader, rivelatosi improvvisamente da uomo di immagine che era un malde­stro improvvisatore e dal pic­colo mago che aveva inventa­to la versione «light» della fa­migerata terza via l’imbaraz­zato condottiero che ha par­lato troppo e troppo a lungo di gay, di adozioni facili e di li­bero aborto e troppo poco di coesione sociale, di educazio­ne, di famiglia, perdendo alla fine l’unico treno importante che avrebbe dovuto prendere, quel­lo di un consenso allargato anche a chi il voto non glielo dava. Come sentimmo dire ammirati a Oviedo qualche anno fa da un signore che elogiava il sindaco per come ammi­nistrava la città ma votava il partito concorrente. Ma quelli erano altri tempi, meno televisivi, meno su­perficiali, meno schiavi dell’imma­gine. Che ora, per contrappasso, pu­nisce il premier Zapatero e lo confi­na nel purgatorio di una popolarità ridotta ai minimi termini. E non ba­sterà un semplice sorriso per ri­montare la china.
La sua politica-movida a un certo punto ha iniziato a inciampare sulla realtà quotidiana


Aristegui: «Già svanita la sua utopia radicale»


DAL NOSTRO INVIATO A MADRID

« I
si l sogno zapateriano è finito. Del resto non era che un sogno, venduto bene, confezio­nato a dovere e che ha sedotto oltre alla si­nistra molti spagnoli delusi, ma pur sempre di sogno trattava»
La vita è sogno, diceva il vostro Calderón de la Bar­ca. Forse voi spagnoli vi innamorate di certi mirag­gi...

«Certo, ma Zapatero venne messo sugli scudi dalle bombe di Atocha. Le bombe del 2004 furono il cata­lizzatore della sua vittoria, perché senza quella i po­chi errori commessi da Aznar non sarebbero stati suf­ficienti
per la vittoria del Psoe». Gustavo de Aristegui sorseggia il suo gin tonic nel bar molto alla moda dell’Hotel Urban, quartier generale ufficioso del Partido Popular, di cui di fatto è il numero due, secondo solo al segretario Mariano Rajoy, e for­se un domani proprio il tipo di figura destinata a pren­derne il posto nella sfida per le elezio­ni politiche del 2012.
Zapatero è al potere da sei anni. Ha rivinto le elezioni. Il suo sembra un sogno che dura un po’ troppo.

«El sueño de la razón produce mon­struos...
»
Già il sonno della ragione di Goya...

Eppure gli spagnoli l’hanno rivotato.

Sì, perché l’economia andava ancora bene. Ma le ra­gioni della rovina di Zapatero non stanno solamente nel cattivo corso della congiuntura economica, che pure esiste e l’ha fatto precipitare sotto il 37 per cen­to dei consensi. Le ragioni sono altre, più sottili.

Proviamo a enumerarle?

Innanzitutto non è un vero socialista. Zapatero è un radicale, un radicale utopista che ha giocato con le pulsioni elementari della gente. Il suo stesso partito lo sta mettendo in discussione proprio perché non rappresenta compiutamente l’ideale socialista.

Poi?

Poi ha un problema personale molto serio. È un an­ticlericale e un anticattolico irriducibile, di una viru­lenza per ritrovare la quale dovremmo tornare indie­tro agli anni Trenta, quando la Spagna era spaccata in due. Pensi che quando si è recato da Obama alla colazione di preghiera ha scelto un passo del
Deute­ronomio
molto elusivo e al posto di Dio ha usato pla­tealmente la parola 'cielo', per non doverlo nominare.

Sembra quasi un problema psicologico. Ma perché tutto ciò? Per tradizione, per 'mala educación', per strategia politica?

Forse non lo sapremo mai. Il risultato è stato quello di spaccare in due l’opinione pubblica spagnola e di inimicarsi quella moderata. Dimenticando comun­que che la sua deriva – alludo ai matrimoni gay, alle
politiche familiari, all’aborto, al tema del fine vita – ha colpito nel profondo un Paese che è e rimane mag­gioritariamente cattolico, nonostante il vento della modernità forzata che Zapatero ha cercato di caval­care.
Zapatero parlava anche di tolleranza di alleanza del­le civiltà, di società aperta a ogni formula di convi­venza...

Una stupidaggine macroscopica, un esercizio in­comprensibile che ha prodotto solo conseguenze ne­gative.
Figlio di un diplomatico rimasto ucciso in un atten­tato a Beirut, Gustavo de Aristegui – anche se non lo vuole ammettere – sta scaldando i motori. Forse sarà lui a succedere a Rajoy. Di idee ne ha. Ed anche qual­che critica nei confronti del suo stesso partito.
«Dobbiamo guarire l’economia – dice – c’è un’emer­genza nazionale. Ma un partito che si propone di go­vernare non può rimanere a guardare gli errori del­l’avversario. Occorre una leadership vera per scon­figgere Zapatero, senso dello Stato, capacità di ascol­tare
la gente».
Anche Obama ha venduto un sogno agli americani.

Vero. Ma dentro il sogno c’era sostanza, decisione, volontà. Quella che in questo momento manca alla Spagna. A tutti, non soltanto a José Luis Rodriguez Zapatero.



© Copyright Avvenire 26 febbraio 2010