primo raggio di Di Vincenzo Andraous
Tratto da Avvenire del 10 febbraio 2010
Non si parla più di droga, del suo consumo sempre più smodato.
Non se ne parla e basta, e se proprio siamo obbligati dal chiacchiericcio, lo facciamo quando qualcuno ci lascia le pelle, oppure quando un personaggio famoso, confessa di farne uso accampando i motivi più disparati, mentre si tratta unicamente di un consumo disperato che diventa disperante. Se ne parla per «colpa» di qualche famoso, oppure per qualche sfigato che rimane a terra, esalando un rantolo che somiglia a un crack. Siamo bravissimi ad arrabbiarci, a scandalizzarci, quando a comportarsi così è un nostro «eroe», ma sul problema vero dell’uso e abuso, dell’accessibilità ad ogni angolo di strada, facciamo come gli struzzi, e affermiamo di non conoscerne il dramma, mentre tutti noi, adulti-genitori-educatori, potremmo scrivere un trattato sul pericolo che ne deriva e affonda gli artigli sulla carne dei nostri figli.
Drogarsi è reato, ma dentro una corresponsabilità collettiva; per fare comprendere che tutte le droghe fanno male, serve una comunicazione urgente e delicata, con la domanda: cosa dire e cosa fa più paura a un giovane? Trattare la questione droga equivale a parlare di morte del cuore, della testa, della sparizione di ampie fette generazionali. È incredibile come all’abitudine del «calare giù», al consumo in grande quantità, dalla discoteca all’ufficio, dal fine settimana vissuto da leoni alla festa in casa, non ci mostriamo preoccupati, come se la paura fosse un misero espediente per rimuovere l’angoscia d’impotenza, attraverso la cultura d’evasione, che produce atteggiamenti nullificanti. Non è con la ricerca di parole che spaventano, col terrorismo dialettico che sarà possibile mettere mano all’inquietudine dei giovani, alla loro fragilità quotidiana.
Occorre ridurre il rischio di incappare nelle morali d’accatto, che durano il tempo di una trasmissione, un incontro e una convention ben pagata; è necessario dare di più e parlare di meno, fare di più per le comunità di recupero sul campo da decenni a combattere, a resistere, a consegnare strumenti di aiuto verso chi è imbavagliato dall’inganno delle droghe tutte.
Forse è il caso di dare sembianza e storia alla morte, alle troppe morti che ci portiamo dentro, che abbiamo intorno, forse occorre raccontare la nostra storia personale, quella rapinata di ogni dignità a causa della roba, la nostra storia personale di sconfittisopravvissuti- miracolati dalle mani tese, spesso sconosciute, che ci sono venute incontro. Non è tempo di elargire ulteriori fragilità, ma di affermare che la droga non lenisce la depressione, rimane il maggiore distruttore di persone, di identità; conduce dalla malattia al suicidio, e quando l’inganno è nudo, c’è la morte ad attendere al varco.