di Nicoletta Tiliacos
Sono capitato a Lourdes in un giorno
di pioggia, di pioggia battente,
in un albergo dove tutte le buone camere
erano occupate. Mi venne il desiderio,
pieno di malumore com’ero,
di andarmene il mattino dopo!”. Così
– si legge nel diario di Edmond de
Goncourt – il suo amico Émile Zola
rievocava il pessimo impatto con la
piccola città dei Pirenei. Scenario,
trentatré anni prima (Zola ci arrivò la
prima volta per caso, nel settembre
del 1891), delle diciotto apparizioni
dell’Immacolata Concezione alla piccola
Bernadette Soubirous, nella grotta
di Massabielle.
A Lourdes, in seguito, Zola tornerà
di proposito, nell’agosto del 1892, deciso
a raccogliere materiale per un romanzo
(“Lourdes”, pubblicato due anni
dopo) il cui protagonista è un prete,
Pierre Froment, che ha perso la fede.
Non la ritroverà nemmeno di fronte
alla guarigione – nella grotta delle apparizioni
– di Marie, una sua amica
d’infanzia paralizzata. Quel romanzo,
nelle intenzioni del padre del naturalismo,
doveva rappresentare i pericoli
del ritorno al passato, sotto forma di rivincita
del sacro. E doveva mostrare la
verità sui pretesi miracoli che avvenivano
a Lourdes, patria ideale di un
nuovo medioevo – incanaglito rispetto
all’originale – nella quale si facevano
affari a spese dei creduloni, e dove la
mescolanza di vera sofferenza e di
sfacciate promesse era il sintomo di
una crescente sfiducia nei confronti
del pensiero scientifico, ormai conclamata
nello scorcio declinante del secolo:
“Questa deve essere la spiegazione
filosofica del mio libro. Non sono
credente, non credo ai miracoli, ma
credo al bisogno del miracolo per
l’uomo”, scriveva Zola nei suoi appunti
(che escono martedì prossimo, per la
prima volta tradotti in italiano, con il
titolo di “Viaggio a Lourdes”, Medusa).
A scorrerli, troviamo la stessa mescolanza
di triviale e di sublime che, a
quanto pare, colpisce tutti coloro che
si sono avventurati e si avventurano a
Lourdes per “capire”. Perfino la scrittrice
americana Flannery O’Connor,
fervente cattolica e affetta da un lupus
che la ucciderà a trentanove anni, così
scherzava con gli amici, dopo essere
stata a Lourdes, nel 1958: “Avevo le più
belle stampelle d’Europa”. Anche lei,
con il suo humor proverbiale, aveva
constatato come santi e fanti giochino
a confondersi, a Lourdes. Effetto, probabilmente,
di quell’ordinaria e
straordinaria bruttezza da luna park
del sacro che troviamo magistralmente
rappresentata da Jessica Hausner
nel suo film appena uscito (intitolato,
come il romanzo di Zola, “Lourdes”,
semplicemente). Sullo sfondo di quella
bruttezza, però, nel film finisce per
diventare ancora più misteriosa la
guarigione di Christine, la ragazza immobilizzata
su una carrozzella dalla
sclerosi multipla. Nella notte dopo la
visita alla grotta dell’Immacolata, Christine
si alza dal suo letto, cammina,
muove di nuovo le braccia. “Mi sono
ricordata come si faceva”, spiega a chi
le chiede come sia accaduto. Ma l’infermiera
volontaria che la Hausner ci
mostra mentre flirta con un barelliere
non è che la versione contemporanea
delle feroci descrizioni d’epoca di Zola.
Il quale stigmatizzava quelle signore
che nel pellegrinaggio trovavano
l’occasione per incontrare indisturbate
il proprio amante, o le ragazze che a
Lourdes andavano soprattutto a cercarsi
un marito, o il fiorire della prostituzione
attorno alle folle dei devoti.
Di miracoli non ce ne sono, ammonisce
Zola, per il quale tutto si riduce
a fenomeni isterici guariti dall’atmosfera
esaltata di Lourdes. Sulla scorta
degli studi del luminare Jean-Martin
Charcot, che alla Salpe´`trière – l’ospedale
parigino delle prostitute, dei pazzi
e dei derelitti – studiava le donne
classificate come “isteriche”, il futuro
autore di “J’accuse” aveva elaborato
una sua interpretazione razionale e
positivista di quanto avveniva a Lourdes.
Di quanto, oltretutto, era avvenuto
anche sotto i suoi occhi. Zola non
nega, infatti, di aver assistito a guarigioni,
ma le spiega con l’autosuggestione.
Così propiziata, stando ai suoi appunti:
“L’orrenda tristezza di tutto questo.
L’odore nauseante di sudore, di
fiati guasti, di miseria e di sporcizia.
Le voci diverse, forti, acute, profonde.
I canti ossessivi, sempre gli stessi, continuati,
che vi restano addosso, che vi
cullano, che si sentono di notte. In capo
a tre giorni, ci si trova in uno stato
di esaltazione nervosa. L’allenamento
per i fenomeni delle guarigioni: tutto
questo non si può fare altrove”. E ancora:
“Se le visioni di una ragazzina
nervosa hanno fatto sbocciare una
città dal suolo, hanno fatto piovere i
milioni, hanno condotto qui popoli interi,
è perché rispondevano all’immenso
bisogno di meraviglioso che ci
divora, alla necessità che abbiamo di
essere ingannati e consolati. Lei ha
aperto l’ignoto in un momento storico
sicuramente favorevole, e tutti quanti
vi si sono precipitati”.
Ma in quello che Zola classifica come
abbaglio collettivo prodotto dalla
confusione reazionaria dei tempi, anche
lui sembra cedere, a tratti, al fascino
di quella “ragazzina nervosa”.
Mai irriguardose, le pagine che la descrivono
rivelano una non scontata
simpatia: “Bernadette non ha mai
cambiato la sua descrizione. Ma non
ne parlava mai di sua iniziativa, bisognava
che le facessero domande e allora
si limitava a rispondere alla domanda.
Molto laconica. Senza orgoglio
alcuno. Le apparizioni sono durate
due mesi meno sei giorni. I due giorni
in cui la Vergine non è stata fedele all’appuntamento,
Bernadette ne ha
avuto il presentimento. Si è recata alla
Grotta di malavoglia, come a malincuore,
mentre le altre volte vi correva,
come attratta, quasi avesse le ali. Per
il resto continuava le sue abituali occupazioni”.
In ogni caso, la ragazzina
di Lourdes rimane per Zola un caso
clinico, “un’irregolare dell’isteria”.
Quasi cinquant’anni dopo, un altro
pellegrino (per forza più che per caso,
stavolta), lo scrittore austriaco Franz
Werfel, si farà rapire a sua volta, e con
tutt’altro esito, dalla storia di Bernadette.
Stabilitosi a Parigi dal 1933 per
sfuggire ai nazisti, nel 1940 Werfel era
stato costretto, incalzato dall’arrivo
dell’esercito tedesco, a riprendere la
fuga con la moglie Alma, vedova del
musicista Gustav Mahler. Arrivati senza
visti sui passaporti al confine dei
Pirenei, accettano il consiglio di nascondersi
per qualche tempo a Lourdes,
dove trovano accoglienza. L’ebreo
Werfel – colui che, con terribile preveggenza,
tra i primi aveva usato il termine
“genocidio”, riferendolo agli armeni,
ai quali dedicherà il suo libro
più famoso, “I quaranta giorni del
Mussa Dagh” – lì, nella cittadina visitata
dal dolore e dalla speranza dei
malati di mezzo mondo, si appassionerà
alla storia di Bernadette e raccoglierà
moltissime testimonianze sulla
sua vicenda. Arrivato finalmente in
America, per prima cosa e quasi a
sciogliere un voto, scriverà “Il canto di
Bernadette”, pubblicato nel 1942 con
immediato successo. Un romanzo, anche
in questo caso, basato su un lavoro
di inchiesta talmente minuzioso
che, ancora oggi, rappresenta una fonte
essenziale per ricostruire la storia
della primogenita della povera famiglia
di François Soubirous e Louise
Castérot, e per chi volesse attingere
alle voci di coloro che la conobbero
direttamente. E’ dal libro di Werfel,
nel 1943, che fu tratto il celebre film di
Henry King, “Bernadette”, con Jennifer
Jones protagonista.
Ma torniamo agli appunti del “Viaggio
a Lourdes” di Zola, e al suo malumore
iniziale che, nei dieci, frenetici
giorni trascorsi come etno-antropologo
sul campo della cittadina pirenaica,
più volte rischia di trasformarsi in
rabbia: “Ma l’altra cosa che ci devo
mettere è la straordinaria conversazione
tra i credenti. Parlano delle guarigioni,
dei miracoli, con una facilità,
una tranquillità inaudita. I fatti più
stupefacenti li lasciano sereni. Ancora
un miracolo, e raccontano storie assurde
con un sorriso, senza che la loro
ragione protesti minimamente. Vivono
in questa atmosfera, niente li stupisce
più. E non sono solo dei cretini,
degli illetterati, ma ci sono uomini come
Lasserre, come Boissarie, come
tanti giovani che ho visto. E’ inimmaginabile.
Ed è quello che spesso ha finito
per mettermi a disagio, gettarmi
in una sorda collera che avrebbe finito
per farmi scoppiare. La mia ragione
si dibatteva. Immagino che la gente
che finisce per convertirsi debba
passare da questa condizione, prima
del definitivo naufragio della sua ragione,
del suo bisogno di esame. Da tenere
presente per il mio medico”.
Zola, morto nel 1902, non visse abbastanza
per spedire dal medico il
suo amico e allievo Joris-Karl Huysmans,
letterato sopraffino e spirito
brillante (oltre che uno degli autori,
con lo stesso Zola, e con Maupassant,
Céard, Hennique e Alexis, della raccolta
di racconti “Le serate di Médan”,
considerata il manifesto del naturalismo).
Sarebbe toccato a Huysmans,
infatti, dopo due soggiorni a
Lourdes, nel 1902 e nel 1904, scrivere
una piena e appassionata confutazione
della teoria di Zola, che riduceva a
poveri sogni i miracoli dell’Immacolata.
Già nel 1891, mentre Zola capitava
per caso nella cittadina pirenaica e
decideva di smontarne la fama di luogo
miracoloso, Huysmans si era incamminato
sulla strada opposta a
quella del maestro. In senso letterale,
perché Huysmans (all’epoca quarantatreenne)
nel ’91 era andato in pellegrinaggio
al santuario mariano della
Salette, sulle Alpi, nel Delfinato. Lì
completò la conversione al cattolicesimo,
dopo un’esistenza di inquieto e
sulfureo ateismo, e dopo aver incarnato,
con il suo “À rebours” (1884), la
quintessenza di un decadentismo che
avrebbe ispirato Oscar Wilde e Gabriele
D’Annunzio. Il personaggio
principale del romanzo, l’ossessivo
Des Esseintes, rimane il prototipo di
un male di vivere che rifugge la medietà
e si alimenta di ogni eccesso.
Huysmans era da tempo diventato
oblato benedettino e aveva fissato la
propria dimora in una trappa, quando,
a pochi mesi dalla morte, avvenuta
nel 1906, diede alle stampe “Le folle
di Lourdes” (lo ha tradotto sempre
Medusa, nel 2008). Nella bella prefazione
di Mario Porro (che introduce
anche l’edizione italiana del “Viaggio”
di Zola) si descrivono la genesi
della conversione di Huysmans e lo
sfondo storico e culturale del duello a
distanza ingaggiato con il suo antico
maestro. Un duello che parte dalla visione
del mondo e tocca l’idea di letteratura,
essenziale per entrambi.
Scrive Porro che “il passaggio al cattolicesimo
è segnato per Huysmans da
una duplice resa dei conti, nei confronti
di Zola e di Schopenhauer.
Quando nel 1904, a vent’anni dalla prima
edizione, Huysmans compone la
prefazione alla ristampa di ‘À rebours’,
vi ritrova in germe tutti i suoi
libri successivi, e la sua opera cattolica
in particolare. Zola, ‘una gran brava
persona’, era ‘un artista un po’ massiccio,
ma dotato di polmoni potenti e
pugni duri’; gli eroi dei suoi romanzi
sono però privi d’anima, ‘diretti solo
da impulsi’ viziosi. Insomma, erano
proprio i naturalisti a ignorare quasi
tutto di quell’animo umano che pure
si prefiggevano di analizzare. Allora,
scrive Huysmans, ‘ignoravo totalmente
la mia religione. Non mi rendevo
conto che tutto è mistero’. Al pensiero
di Schopenhauer – la cui rinascita è
uno dei segnali più netti della caduta
dei miti progressisti – faceva riferimento
l’appello religioso delle ultime
righe di ‘À rebours’, l’invocazione di
chi cerca scampo dal naufragio a cui
ci condanna la scuola del pessimismo:
‘Signore, abbiate pietà del cristiano
che dubita, dell’incredulo che vorrebbe
credere, del forzato della vita che
s’imbarca solo, nella notte, sotto un
firmamento che non è più rischiarato
dai consolanti fari dell’antica speranza’.
Un tempo, Huysmans aveva creduto
che il pessimismo potesse essere il
consolatore degli animi elevati: Schopenhauer
condivide le premesse dell’Ecclesiaste
e del Libro di Giobbe, riconosce
l’atrocità della vita e la stupidità
del mondo, ma non propone soluzioni.
La chiesa è il solo porto dove
possano trovare rifugio i naufraghi
dell’esistenza; offre spiegazioni, indica
cause e rimedi del male di vivere”.
Il personaggio di un altro romanzo di
Huysmans, “En route”, lo dice chiaramente:
la chiesa “non si accontenta di
darvi un consulto spirituale: cura e
guarisce mentre il mediconzolo tedesco,
dopo avervi ben dimostrato che la
malattia di cui soffrite è incurabile, vi
volta le spalle sogghignando”.
Ma a rendere unico il libro di Huysmans
su Lourdes, rispetto ad altri
trattati agiografici che si impegnano
ad approfondirne il mistero a partire
da una posizione credente, è l’umore
che lo pervade. Nelle pagine delle
“Folle di Lourdes” si aggira ancora,
come scrive Porro, “un Des Esseintes
con la sensibilità morbosa di un esteta
della compassione”. E’ lo stesso
Huysmans a farlo capire, a mo’ di premessa:
“Se c’è uno che non mai è stato
preso dal desiderio di vedere Lourdes
quello sono io. Prima di tutto non
mi piacciono le folle in processione
che bramiscono cantici, e sono del parere
di san Giovanni della Croce, che
scrive nella sua Salita al Carmelo:
‘Approvo fortemente colui che, per
non unirsi alla folla dei pellegrini, intraprende
pellegrinaggi fuori dall’epoca
prefissata, quando le moltitudini
vi si accalcano, non gli consiglierò mai
di mescolarsi a esse; si rischia di tornarne
più distratti di quando si è partiti!’.
In secondo luogo non ci tengo a
vedere miracoli; so benissimo che la
Vergine ne può fare a Lourdes o altrove;
la mia fede non si fonda né sulla
mia ragione, né sulle percezioni più o
meno certe dei miei sensi, dipende da
un sentimento interiore, da una sicurezza
acquisita con prove interne; non
me ne vogliano i primi della classe
della psichiatria e i pedanti maestrucoli
saputi che, non potendo spiegare
niente, classificano alla voce ‘autosuggestione’
o ‘demenza’ i fenomeni della
vita divina che loro ignorano, la Mistica
è una scienza decisamente esatta;
ho potuto verificare un certo numero
dei suoi effetti e non ne chiedo altri
per credere; tanto mi basta”.
Ma Huysmans va a Lourdes, e naturalmente,
rabbrividisce di raccapriccio
davanti alla bruttezza che vi alligna.
Nemmeno gli appunti di Zola raggiungono
le sue vette di disgusto, perché
il credente Huysmans si sente
doppiamente offeso da certi spettacoli:
“La bruttezza di tutto quel che si vede
qui finisce per essere innaturale,
perché va oltre i livelli consueti; l’uomo
da solo, senza una suggestione sorta
dalle gemònie dell’aldilà, non arriverebbe
a disonorare Dio fino a questo
punto; a Lourdes si assiste a una
tale pletora di bassezze, a una tale
emorragia di cattivo gusto che si impone
necessariamente l’idea di un intervento
del Bassissimo. Tralascio la basilica
che trema di freddo, magra come
una pertica, sotto il suo cappello
da Pierrot, nel suo sottile vestitino di
pietra, sul piano umido della sua roccia,
ma che dire del Rosario, questa
conca idropica il cui ventre panciuto
si inarca sotto i suoi piedi? Come definire
questa costruzione la cui forma
interna ricorderebbe vagamente quella
di un asso di fiori, con cinque altari
disposti nella circonferenza di ognuna
delle sue foglie? Ci piacerebbe sapere
a che stile si richiama, perché c’è di
tutto lì dentro, ha un che di bizantino
e romanico, lo stile di un ippodromo e
di un casinò; ma soprattutto, guardandolo
bene da vicino, ha le sembianze
di un deposito di macchine, di una rimessa
di locomotive; mancano solo le
rotaie e la piattaforma girevole al centro,
al posto dell’altare maggiore, per
permettere alle vetture di uscire dai
binari e spingersi sulle vie della spianata,
fischiando al semaforo”.
Huysmans ha occhi per vedere e
aborrire quello che ritiene frutto del
divertimento del diavolo, ispiratore di
manufatti spaventosi là dove si manifesta
la sua più grande nemica, la Madonna.
Una spiegazione da tenere in
considerazione, soprattutto al momento
di approvare certi progetti di nuove
chiese, non solo sui Pirenei. Ma nemmeno
per un attimo l’ateo diventato
oblato benedettino dubita dei miracoli
che l’Immacolata dispensa a Lourdes.
Anche lui, certo, come certi personaggi
del film di Jessica Hausner si
chiede perché la guarigione sia negata
a chi sembra meritarla di più – a occhi
umani, naturalmente. Huysmans
vede correre all’impazzata un bambino
di sette anni, paralizzato fino al
giorno prima. Ma poi lo rivedrà ancora,
di nuovo immobile su una barella,
in procinto di risalire sul treno che lo
riporterà a casa, malato come prima.
Perché l’illusione? E perché c’è chi
guarisce e chi no? Ma il miracolo vero,
conclude, è “la fede di questo popolo
riunito per implorare la Vergine, una
fede che da nessuna parte zampilla in
lava incandescente come qui; e non c’è
mai cedimento; oggi Nostra Signora resta
sorda alle suppliche, volge la testa
e tace; nessuno si lamenta; tutti continuano
a pregare e a credere”.
© Copyright Il Foglio 19 febbraio 2010