DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

IL DRAMMA DI HAITI Wharf Jeremie, lo slum dove vivono «gli ultimi»

Nella baraccopoli alla periferia di Port-au-Prince regnano violenza e miseria: l’Onu non ci entra. La gente si ciba dei rifiuti


Sono cominciate le piogge e l’e­mergenza raddoppia. Oltre un mi­lione di persone vive in strada a Port-au-Prince in condizioni che ri­chiedono un intervento assisten­ziale urgente prima dell’intensifi­carsi della stagione degli uragani nei Caraibi in estate. A lanciare il dram­matico appello è stato a New York l’ambasciatore di Haiti presso le Na­zioni Unite: intervenendo al Consi­glio di Sicurezza, Leo Merores ha detto che il sisma del 12 gennaio ha provocato la morte di 270mila per­sone, ha causato la distruzione di 250mila edifici, ed ha lasciato oltre un milione di haitiani senza casa: «Le cifre parlano da sé».

DAL NOSTRO INVIATO A PORT-AU-PRINCE

CLAUDIO MONICI

N
on c’è luogo come questo dove si può cadere più in basso di così, con la vita e i piedi che sprofondano in una palu­de di cloaca. I bassifondi di Wharf Je­remie, al margine estremo della ca­pitale, si tuffano nella baia portan­dosi con loro tutto quello che la gran­de città scarta, la sua immondizia e i suoi rifiuti, compreso il dolore u­mano della malattia e della solitudi­ne di chi ci vive. Più appropriato sa­rebbe dire che è una vita che arran­ca. Come quella degli “uomini ca­vallo”, padri di famiglia, con la fron­te che quasi sfiora terra, mentre trai­nano enormi e pesanti carri, resi an­cora più gravosi dal carico che tra­sportano. Prima che il molo venisse spezzato dal terremoto, scaricavano dalle navi, adesso trasportano sac­chi di carbone ammonticchiati sul pianale, mentre la pancia resta sem­pre per metà vuota. È la miseria che tormenta se stessa e che crea altra miseria, ancora più emarginata, ancora più povera. Una periferia stracciona di uno slum do­ve non entra nessuno che non sia l’a­bitante di quelle catapecchie di la­miera arrugginite che stanno in pie­di come una teoria di carte da gioco. Una accostata all’altra e che sem­brano lì per lì pronte a crollare da un momento all’altro. Ma è un gioco che dentro non ha nulla perché non c’è nulla che si possa portare, quando i pochi spiccioli raccimolati servono per nutrirsi di pietanze preparate sulla strada, non si sa bene con qua­li ingredienti e soprattutto come sia­no stati conservati. Spesso per giaci­glio c’è solo il pavimento e i suoi e­normi insetti, oppure una vecchia rete senza materasso, anche questa mangiata dalla ruggine.
Nessuno, nemmeno i Caschi blu del­la missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite “Minustah”, in massa sull’isola dal 2004 per sradicare le bande criminali che hanno violato
Haiti per anni, entrano a Wharf Jere­mie. L’ordine è chiaro questo luogo resta da Codice rosso.
Tranne che per una suora italiana, di Busto Arsizio, che qui vive da quat­tro anni e che prima del terremoto mandava avanti un piccolo ambu­­latorio e un centro educativo. Mis­sionaria della fraternità francesca­na, suor Marcella Catozza, la sfida l’aveva cominciata sapendo che «questo posto non è un luogo indi­cato per chi non è dell’ambiente: ma qui siamo proprio gli ultimi e se li si va a cercare qua si trovano».
La casetta ambulatorio della suora si è piegata su un fianco, ha ceduto al terremoto del 12 gennaio. Da qual­che giorno l’attività è ripresa, è sta­ta trasferita sotto due tende messe a disposizione della Protezione civile italiana, con l’aiuto del Genio alpini. In una c’è la suora che così può con­tinuare la sua attività, soprattutto nutrizionale per i minori, e nell’al­tra, un consultorio per adulti, assi­stito dal personale medico imbarca­to sulla portaerei Cavour, coordina­to dal direttore sanitario, il capitano di vascello Aldo Ciufo.
«I soldati italiani e la protezione ci­vile mi stanno dando una grossa ma­no. Qui non c’è mai stato nessuno e nulla. Niente. Non è mai venuto nes­suno nemmeno nei giorni successi­vi
al terremoto, se non quelli che ho incontrato io come gli operatori lo­cali di Cisp, Cesvi e Terres des hom­mes, tanto questa zona è considera­ta particolarmente poco sicura», rac­conta suor Marcella.
In questo cuore di tenebra e lamie­ra, girano ancora parecchie armi e sono attive le bande rimaste fedeli all’ex presidente Jean Bertrand Ari­stide.
Violenza pronta a farsi risenti­re pur di assistere al ritorno dell’ex seminarista dal suo esilio dorato in Sudafrica, anche se per il momento il terremoto sembra avere messo un freno sugli episodi delinquenziali.
Quando arrivò in questo luogo per­duto, quattro anni fa, unica bianca, donna, sola, in un mare di pelle ne­ra e ogni tipo di dolore, con ancora le bande armate in azione a fare rapi­menti, la francesca­na provò a fare un conto di quanta po­polazione ci poteva stare a Wharf Jere­mie. Dicevano che c’erano 70 mila per­sone. Mentre segui­va il suo progetto nutrizionale per i più piccoli, di vicolo in vicolo, la suora annotava numeri, nomi. Poi si ac­corse
che non era ancora ar­rivata a metà dell’intera zo­na da scrutare che aveva già raggiunto la cifra di 150mila presenze: «E qui – adesso di­ce sorridendo – ho lasciato perdere».
«Come quattro anni fa, i pro­blemi di oggi sono ancora le­gati alla denutrizione. Quan­do cominciai, solo nella pri­ma settimana di attività, 12 bambini mi morirono tra le braccia – racconta la suora –
. Diarree, polmoniti, tutto quello che la mancanza di acqua potabile e i­giene può causare, qui c’è. Aids e si­filide, anche nei bambini con le in­fezioni tipiche trasmesse da genito­ri malati cronici e che mai sono sta­ti curati. La febbre dengue. Mentre in questi giorni ho avuto notizia che la malaria sta tornando in maniera e­sponenziale. In tutto il tempo che sono stata qui avrò riscontrato non più di 5 casi. Adesso ne­gli ospedali di Port­au- Prince ogni gior­no si segnalano dai 15 ai 20 casi. Qui il mare è uno schifo e forse i ristagni d’ac­qua dopo il sisma hanno contribuito alla diffusione del parassita».
La sera quando la suora chiude le due tende che den­tro hanno, brande, tavoli, medicina­­li, qualche strumento sanitario, e al­tri oggetti che potrebbero fare gola a qualcuno, non prova ansia. Non ac­cadrà nulla fino al giorno dopo: «La mattina ritrovo tutto come ho la­sciato. Perché questa è gente, che seppure è povera più dei poveri, è a­nalfabeta, è disperata, è malata, sa­ranno sempre loro i primi a darti u­na mano, un aiuto e un sostegno, anche in questo modo. Perché san­no che è qualcosa che facciamo per loro, che sono gli ultimi degli ultimi».

Suor Marcella da 4 anni aiuta la gente della bidonville. Il suo «ambulatorio», distrutto dal sisma, è ora una tenda messagli a disposizione dalla Protezione civile: «Qui non è mai venuto nessuno dopo il terremoto». L’ambasciatore haitiano alle Nazioni Unite: uccise 270mila persone, un milione senza casa Ora la paura è la stagione delle piogge



© Copyright Avvenire 21 febbraio 2010