DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Un filo d’acciaio tra stragi e «sballo» . DRAMMI MESSICANI, ILLUSIONI NOSTRANE

ANDREA LAVAZZA

C
iudad Juarez è la quinta città di un Messico che aspira a diventare potenza regionale. E 70 delle prime 500 imprese della classifica di Fortune
hanno aperto stabilimenti nel suo
circondario, trovando manodopera specializzata a costi inferiori rispetto agli Stati Uniti. Ma presto potrebbero rimanere a corto di operai e tecnici, in fuga a decine di migliaia da un inferno di violenza che nessun reportage, neppure il più scandalistico, riuscirebbe a sopravvalutare. Sono 4.500 le vittime degli scontri tra cartelli della droga negli ultimi due anni, forse 300mila gli abitanti che hanno lasciato le proprie case stanchi dei pericoli, delle vessazioni e del sostanziale coprifuoco che la feroce criminalità locale ha imposto di fatto. Da quando i cartelli messicani hanno strappato a quelli colombiani il predominio sul traffico di stupefacenti verso gli Usa e l’Europa, un fiume di narco- dollari si è diretto verso il Paese, accendendo l’avidità e, di conseguenza, la violenza dei boss. In meno di quattro anni, sulle strade sono rimasti 18mila morti, in un’escalation di brutalità e orrore, fatto di stragi, di decapitazioni, di esecuzioni di quegli esponenti delle forze dell’ordine che non accettano di arricchirsi chiudendo entrambi gli occhi. Il presidente Felipe Calderon ha dichiarato guerra ai trafficanti e di un vero conflitto su larga scala si tratta, con l’appoggio dell’esercito americano. La spirale sta facendo allarmare molti analisti, spingendo qualcuno a ipotizzare persino che il governo centrale possa perdere il controllo di alcune zone, uno scenario da « Stato fallito » , che fa però indignare le autorità centrali. Il Messico delle spiagge oceaniche e dei siti archeologici è finora risparmiato, per cui chi visita il Paese può quasi ignorare la portata del problema. Che sempre più tocca anche altri Paesi dell’America centro­meridionale: l’esplosione di criminalità è dovuta allo spostarsi delle rotte della droga verso Occidente. Se la coltivazione di coca resta per la quasi totalità appannaggio di Colombia, Perù e Bolivia, il prodotto raffinato viaggia verso Nord e fa tappa in Messico prima di arrivare capillarmente sul mercato statunitense, da cui si riforniscono al dettaglio milioni di consumatori. Un altro, ingentissimo, incessante e crescente rifornimento passa dalle nazioni caraibiche e dal Sud del Continente prima di volare in Europa o di navigare fino agli scali intermedi africani, per poi giungere nel Vecchio Continente. Al di qua dell’Atlantico non fa notizia l’agonia di Ciudad Juarez, né il fatto che il 75% dei sequestri di persona nel mondo si concentri in quelle regioni. Eppure, c’è un filo teso e per nulla invisibile che lega l’illusoriamente asettico ' sballo' delle vie dei nostri sabato sera alla mattanza dei luoghi di produzione. Un biglietto da 50 euro passato furtivamente in cambio di una bustina non alimenta solo un’economia sommersa che, in fondo alla catena, permette al piccolo spacciatore di sbarcare il lunario in modo facile e nemmeno troppo rischioso. Lo stigma che dovrebbe segnare l’acquisto, più ancora dell’uso, di sostanze illegali non è dovuto alla dannosità per la salute personale, al rischio per quella altrui ( incidenti stradali, errori nella professione) e ai vari profili di immoralità che, secondo le prospettive adottate, s’accompagnano alla dipendenza. Chi compra droga finanzia, nel suo ultimo anello, un sistema criminale che in vari suoi snodi è responsabile dei delitti più efferati. Non vale l’ignoranza di cosa sta alle spalle del giovane o dell’immigrato – qualche volta anche del pensionato o dalla casalinga – che passano la dose.
Se si tira quel robusto filo che termina nelle nostre discoteche o sui nostri viali, si arriva diritti ai signori del narcotraffico. Se vogliamo dirlo in modo più crudo, quando si tira quel filo passando una banconota e ritirando la polvere bianca, un grilletto spara in qualche periferia remota del mondo. Una complicità che nessun tribunale sanzionerà, ma che sarebbe tempo le coscienze cominciassero a riconoscere
.


LE EMERGENZE DI UN PAESE
Ciudad Juarez, in 300mila messi in fuga dai «narcos»


DA N EW Y ORK
E LENA M OLINARI
« L
a cooperazione tra Messico e Sta­ti Uniti in funzione anti-droga non è mai stata così forte», ha as­sicurato il segretario alla sicurezza interna Ja­net Napolitano incontrando questa settima­na il presidente Felipe Calderon. Poi ha sot­tolineato che «la lotta al narcotraffico è un in­teresse comune di entrambi i Paesi».
La sua visita in Messico, le sue garanzie, il “nuovo piano contro i narcos” che Calderon ha lanciato, nulla in realtà promette di alle­viate il tormento quotidiano degli abitanti di Ciudad Juarez, città messicana a due passi dal Texas, ai quali è rimasta un’unica arma con­tro
i narcos: la fuga. Mercoledì scorso, il giorno dell’arrivo della Napolitano in Messico, centinaia di persone vestite di nero hanno sfilato per le strade del­la città, chiedendo le dimissioni di Calderon e delle autorità locali che non hanno saputo difendere i loro figli. Era guidata dalle madri di 13 ragazzi massacrati lo scorso 31 gennaio durante una festa da un com­mando di narcos. Nonostante la città sia presidiata da 10mila sol­dati (una presenza invisa ai resi­denti) una guerra esplosa 18 me­si fa fra i cartelli della droga per il controllo della strategica città di confine ha già ucciso 4.500 persone. Le battaglie quotidiane riempiono le strade di auto bucate da pallot­tole e di cadaveri rovesciati in pozze di sangue – al ritmo di 12 al giorno – e hanno fatto di Juarez uno dei luoghi più pericolosi della Ter­ra da dove chi può se ne va. La città, nello sta­to di Chihuahua, che quattro anni fa contava quasi un milione e mezzo di abitanti, ora ne ha 300mila in meno. Case abbandonate co­steggiano viali un tempo meta di passeggia­te.
In interi quartieri residenziali non si vede un’auto o una finestra aperta. L’esodo ha tra­sformato Juarez in una città fantasma pun­teggiata di posti di blocco, quelli dei militari non lontani da quelli dei narcos, che tartas­sano i residenti, oltre che con la violenza, an­che con estorsioni e rapimenti.
Per questo quando, qualche giorno fa Calde­ron ha lanciato proprio da Ciudad Juarez un
nuovo piano di lotta contro i narcos, ha tro­vato ad accoglierlo una folla che chiedeva più sicurezza e il ritiro dei soldati. «Trattano la gen­te di Juarez come dei delinquenti, mentre i ve­ri delinquenti vengono trattati come persone decenti», urlava un manifestante.
El Paso , Texas, è dall’altra parte del Rio Gran­de, ed è già diventata la nuova casa di alme­no 30mila famiglie, per lo più del ceto medio
e alto, in cerca di un futuro per i loro figli. «Me ne sono andato quando una banda di narcos ha tentato di rapirmi – ha detto un piccolo im­prenditore alla Reuters – ma non ero in casa e hanno preso il mio vicino». Altri si rifugiano in città messicane più tranquille, come Gua­dalajara e Monterrey. Chi resta vive in uno stato di perenne emer­genza. Molti “juarenses” girano armati e quan­do guidano evitano di guardare all’interno del­le altre auto o di suonare il clacson per paura di imbattersi in un narcotrafficante. Dopo le dieci di sera il traffico rallenta sensibilmente e la gente rimane a casa. «Alcune famiglie non mettono il naso fuori casa – spiega Maria Avi­la Serna, consigliere comunale del Partito ver­de messicano – perché se si va al ristorante e passa un capetto dei narcos e ti punta la figlia, c’è il rischio che se la portino via». Non sono certo le parole o la presenza di Calderon o del­la Napolitano a rassicurare queste famiglie. I narcos non perdono occasione di sottoli­nearlo. Venerdì sera, un’ora dopo la seconda visita di Calderon a Juarez, è stato assassina­to per strada il sindaco della città di Gudalupe y Calvo, Ra­mon Mendevil. E ieri una nuova carneficina: almeno 15 persone, tra cui due donne, sono state assassinate in ap­pena un’ora, facendo salire il numero delle vittime dall’i­nizio dell’anno a 350.





© Copyright Avvenire 21 febbraio 2010