C iudad Juarez è la quinta città di un Messico che aspira a diventare potenza regionale. E 70 delle prime 500 imprese della classifica di Fortune
hanno aperto stabilimenti nel suo circondario, trovando manodopera specializzata a costi inferiori rispetto agli Stati Uniti. Ma presto potrebbero rimanere a corto di operai e tecnici, in fuga a decine di migliaia da un inferno di violenza che nessun reportage, neppure il più scandalistico, riuscirebbe a sopravvalutare. Sono 4.500 le vittime degli scontri tra cartelli della droga negli ultimi due anni, forse 300mila gli abitanti che hanno lasciato le proprie case stanchi dei pericoli, delle vessazioni e del sostanziale coprifuoco che la feroce criminalità locale ha imposto di fatto. Da quando i cartelli messicani hanno strappato a quelli colombiani il predominio sul traffico di stupefacenti verso gli Usa e l’Europa, un fiume di narco- dollari si è diretto verso il Paese, accendendo l’avidità e, di conseguenza, la violenza dei boss. In meno di quattro anni, sulle strade sono rimasti 18mila morti, in un’escalation di brutalità e orrore, fatto di stragi, di decapitazioni, di esecuzioni di quegli esponenti delle forze dell’ordine che non accettano di arricchirsi chiudendo entrambi gli occhi. Il presidente Felipe Calderon ha dichiarato guerra ai trafficanti e di un vero conflitto su larga scala si tratta, con l’appoggio dell’esercito americano. La spirale sta facendo allarmare molti analisti, spingendo qualcuno a ipotizzare persino che il governo centrale possa perdere il controllo di alcune zone, uno scenario da « Stato fallito » , che fa però indignare le autorità centrali. Il Messico delle spiagge oceaniche e dei siti archeologici è finora risparmiato, per cui chi visita il Paese può quasi ignorare la portata del problema. Che sempre più tocca anche altri Paesi dell’America centromeridionale: l’esplosione di criminalità è dovuta allo spostarsi delle rotte della droga verso Occidente. Se la coltivazione di coca resta per la quasi totalità appannaggio di Colombia, Perù e Bolivia, il prodotto raffinato viaggia verso Nord e fa tappa in Messico prima di arrivare capillarmente sul mercato statunitense, da cui si riforniscono al dettaglio milioni di consumatori. Un altro, ingentissimo, incessante e crescente rifornimento passa dalle nazioni caraibiche e dal Sud del Continente prima di volare in Europa o di navigare fino agli scali intermedi africani, per poi giungere nel Vecchio Continente. Al di qua dell’Atlantico non fa notizia l’agonia di Ciudad Juarez, né il fatto che il 75% dei sequestri di persona nel mondo si concentri in quelle regioni. Eppure, c’è un filo teso e per nulla invisibile che lega l’illusoriamente asettico ' sballo' delle vie dei nostri sabato sera alla mattanza dei luoghi di produzione. Un biglietto da 50 euro passato furtivamente in cambio di una bustina non alimenta solo un’economia sommersa che, in fondo alla catena, permette al piccolo spacciatore di sbarcare il lunario in modo facile e nemmeno troppo rischioso. Lo stigma che dovrebbe segnare l’acquisto, più ancora dell’uso, di sostanze illegali non è dovuto alla dannosità per la salute personale, al rischio per quella altrui ( incidenti stradali, errori nella professione) e ai vari profili di immoralità che, secondo le prospettive adottate, s’accompagnano alla dipendenza. Chi compra droga finanzia, nel suo ultimo anello, un sistema criminale che in vari suoi snodi è responsabile dei delitti più efferati. Non vale l’ignoranza di cosa sta alle spalle del giovane o dell’immigrato – qualche volta anche del pensionato o dalla casalinga – che passano la dose.
Se si tira quel robusto filo che termina nelle nostre discoteche o sui nostri viali, si arriva diritti ai signori del narcotraffico. Se vogliamo dirlo in modo più crudo, quando si tira quel filo passando una banconota e ritirando la polvere bianca, un grilletto spara in qualche periferia remota del mondo. Una complicità che nessun tribunale sanzionerà, ma che sarebbe tempo le coscienze cominciassero a riconoscere.
LE EMERGENZE DI UN PAESE
Ciudad Juarez, in 300mila messi in fuga dai «narcos»
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© Copyright Avvenire 21 febbraio 2010