Joseph Weiler
ll perdono di Wojtyla, il Vescovo negazionista, la beatificazione di Pio XII... Fino al recente incontro con Benedetto XVI. Tutte le ferite e i passi del legame con i nostri «fratelli maggiori» ripercorsi da un grande giurista, esponente di spicco del mondo ebraico. Un rapporto che richiede «tempo e pazienza». Ma in cui sono tanti i segni di speranza. A partire dai gesti del Santo Padre
Non mi sorprende che molti cristiani, molti cattolici, siano ormai esasperati per gli intralci apparentemente innumerevoli sulla via verso un rapporto di reciproco rispetto e dignità tra cristiani ed ebrei.
Sono trascorsi quasi quarantacinque anni dal Concilio Vaticano II e dalla importante dichiarazione Nostra aetate, e ventitré anni dalla visita (la prima nella storia) di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. E da allora nel frattempo ci sono stati innumerevoli gesti di riconciliazione da parte cattolica, compresa l’instaurazione di relazioni diplomatiche con lo Stato di Israele, che hanno raggiunto il culmine lo scorso gennaio, con la visita di Benedetto XVI a quella stessa Sinagoga romana.
Eppure anche questo evento è stato guastato, per esempio, dal rifiuto del presidente dei rabbini italiani a parteciparvi. Quanto tempo ci vorrà ancora?
Tutto ciò deve apparire abbastanza sconcertante ai seguaci del grande don Giussani, che non aveva nemmeno l’ombra di un pregiudizio nel suo cuore e nutriva un’ammirazione particolarmente calorosa e accogliente per il popolo ebraico e la sua fede.
Storia di fratellanza.
Dunque, noi siamo un popolo antico, la civiltà che vanta la maggiore durata in Occidente, quasi 4000 anni. Anche voi, nostri fratelli minori, che credete nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, non siete dei giovincelli: avete ormai 2000 anni. È stato un rapporto asimmetrico per gran parte della nostra comune storia, e per la maggior parte di essa voi eravate i leoni, e noi i cristiani - se capite cosa voglio dire. Quindi ci sono molte cose da aggiustare. Cosa sono quarantacinque anni in confronto a questa lunga storia: non più che il punto alla fine di questa frase. Perciò è opportuno avere pazienza!
Se mi fossi trovato a Roma, sarei stato certamente tra coloro che hanno accolto il Papa alla Sinagoga. Quella domenica ero impegnato altrove, ad accogliere don Julián Carrón a casa nostra a New York, ad accoglierlo come un fratello, con affetto e con un pranzo cucinato con le mie mani (cfr. l’articolo a pag. 72). Ma comprendo anche alcuni sentimenti del mio popolo, anche se non tutti li condivido. Ripercorriamo gli “incidenti” più recenti che hanno inasprito i rapporti.
Sulla via di Wojtyla.
Primo, la reintegrazione del vescovo Williamson, che ha notoriamente negato l’olocausto. Era chiaro che il Papa era stato colto totalmente di sorpresa nello scoprire quella triste vicenda. Anche voi, amici miei, dovete provare imbarazzo e unirvi al sincero imbarazzo del Papa: forse Google non è ancora arrivato fino alla curia? Sia come sia, chi non resterebbe commosso sentendo la sincera e umile dichiarazione del Papa alla Sinagoga: «La Chiesa non ha mancato di deplorare le mancanze di suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo. […] Possano queste piaghe essere sanate per sempre! Torna alla mente l’accorata preghiera al Muro del Tempio di Gerusalemme del Papa Giovanni Paolo II, il 26 marzo 2000, che risuona vera e sincera nel profondo del nostro cuore: “Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e la sua discendenza perché il tuo Nome sia portato ai popoli: noi siamo profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso della storia, li hanno fatti soffrire, essi che sono tuoi figli, e domandandotene perdono, vogliamo impegnarci a vivere una fraternità autentica con il popolo dell’Alleanza”».
Bisogna essere dei grandi per chiedere perdono a Dio e agli uomini. La Chiesa è stata capace di introspezione e di apertura riguardo alle colpe dei suoi figli.
Il secondo incidente è stata l’autorizzazione concessa dal Papa a riutilizzare, in certe occasioni e a determinate condizioni, la messa tridentina, che contiene anche una preghiera per la salvezza degli ebrei. Molti ebrei hanno trovato questa mossa regressiva, poiché essa implica due imbarazzanti affermazioni: una, che noi ebrei abbiamo bisogno delle preghiere di qualcuno, perché altrimenti non saremmo salvati e, agli occhi dei cattolici, finiremmo all’inferno; e l’altra che, malgrado la Nostra aetate, i cattolici non accettano che nella nostra fedeltà alla Bibbia ebraica e all’eterna alleanza tra i nostri antenati e il solo e unico Dio Onnipotente, l’unico Santo e Benedetto, escludendo la Trinità, noi stiamo compiendo il destino che Dio ha disposto per noi. Ora, è un progresso sorprendente il fatto che invece di metterci al rogo per costringerci ad accettare Gesù come nostro solo e unico salvatore, ci si limiti a dire una preghiera. Ma per molti il fatto che la nostra anima abbia bisogno di preghiere è un segno che il giudaismo non è accettato come legittimo. Allora ascoltiamo nuovamente il Papa: «Anche io, in questi anni di pontificato, ho voluto mostrare la mia vicinanza e il mio affetto verso il popolo dell’Alleanza», ha detto con parole tanto commoventi e piene di rispetto. «Il popolo dell’Alleanza». Ecco quello che siamo. Non si potrebbe dirlo meglio.
La terza questione è quella che ha maggior peso, il processo di beatificazione di Pio XII. L’accusa è il suo presunto silenzio. Come mai il successore di Pietro non si pronunciò contro la discriminazione, l’arresto e lo sterminio degli ebrei in Europa da parte dei tedeschi e dei loro alleati? Alcuni fatti sono inopinabili: che l’Italia sia stato il Paese che ha salvato il maggior numero dei suoi ebrei, e che molti di costoro siano stati salvati proprio dalla Chiesa, mettendo talvolta in grave pericolo i vari sacerdoti coinvolti nell’operazione.
Le lacrime e la memoria.
Lo stesso vale per la Francia: molti ebrei francesi si rifugiarono a Vichy. Quando i tedeschi pretesero che venissero riconsegnati, il governo laico era pronto ad acconsentire; fu invece l’episcopato cattolico a levarsi allibito, opponendosi alla restituzione di questi ebrei ai carnefici tedeschi. È concepibile che questa politica sia stata portata avanti senza la guida, il consenso e l’approvazione del Papa? Ma il Papa avrebbe dovuto pronunciarsi pubblicamente? La decisione fu dettata dalla prudenza. Nei Paesi Bassi si era tentato, ma con pessimi risultati: una recrudescenza della persecuzione. Così forse, dopo tutto, il silenzio del Papa fu saggio e prudente. In questo caso, anche con il senno di poi, è impossibile risolvere definitivamente la questione. Riportiamo ancora le parole del Papa: «In questo luogo, come non ricordare gli ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato nell’Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo, molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede Apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta.
La memoria di questi avvenimenti deve spingerci a rafforzare i legami che ci uniscono perché crescano sempre di più la comprensione, il rispetto e l’accoglienza». Non ci potrebbero essere parole migliori.
Ai miei compagni e amici.
Perciò dico ai miei compagni ebrei: che la Chiesa sia stata spesso di grande aiuto nel salvare gli ebrei è fuori di dubbio. Che molti cristiani non siano coerenti con la dottrina che predicano, è anch’esso un fatto apertamente riconosciuto dalla Chiesa. È ora di mettere da parte la questione. E quanto alla saggezza della diplomazia del silenzio di papa Pio XII, lasciamo a Dio il giudizio. In ogni caso non è affar nostro chi la Chiesa decida di fare santo o meno. Ai miei amici cattolici dico: se aveste vissuto l’esperienza di un genocidio del vostro popolo e aveste visto molti religiosi praticanti che non porgevano l’altra guancia, ma voltavano la testa fingendo di non vedere, anche voi sareste pieni di sospetto e di amarezza.
Il tempo cura le ferite, come pure la buona volontà, e nessuno può dubitare della buona volontà espressa dalla mano e dal cuore di papa Benedetto tesi verso coloro che chiama suoi fratelli maggiori.
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