DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Iraq. I cristiani che non cedono

da Mosul Luca Attanasio
I cristiani che non cedono


L
a mano assassina che da anni si accanisce impietosa sui cristiani d’Iraq non rispetta festività e, soprattutto, non conosce pausa. Nell’imminenza del Natale scorso, a Mosul, due persone sono rimaste uccise e cinque ferite a seguito dell’esplosione di un’autobomba piazzata davanti a una chiesa siro-ortodossa, mentre l’11 gennaio, sempre a Mosul, è stato freddato un cristiano assiro di 52 anni. La lista, purtroppo, si aggiorna di continuo: ieri si è aggiunta un’altra vittima dopo i 5 assassinati negli ultimi giorni.
Mosul, l’antica Ninive, zona di presenza cristiana da millenni. Da queste parti, recita la tradizione, è giunto san Tommaso, che con un piccolo gruppo di discepoli fondò la prima comunità di fedeli in Assiria.
Nell’antichissima chiesa omonima – Mar Toma – sono conservate le sue reliquie.
Ora, è divenuta il simbolo della persecuzione dei cristiani. In questa zona, infatti, oltre alla radicata presenza nella città stessa, esiste una cintura di villaggi a maggioranza cristiana che cerca di resistere e rimanere nella propria terra, ma che dalla caduta di Saddam in poi vede scemare di mese in mese i suoi membri. Tantissimi da qui, così come da Baghdad, Basora, Kirkuk, fuggono terrorizzati all’estero o verso il Kurdistan iracheno. Altri vengono uccisi.
Bastano le parole del vescovo siro­cattolico di questa martoriata città, monsignor George Casmoussa, e la visita alla sua residenza lo scorso dicembre, a fotografare nitidamente la realtà. Due guardie armate escono dal gabbiotto e solo dopo un colloquio con l’autista in lingua surèth, un’antica derivazione dell’aramaico, l’idioma di Gesù, parlata in Iraq solo tra cristiani, alzano la sbarra che dà accesso all’arcivescovado. «Lei per venire a trovarmi, ha dovuto passare vari check-point – sorride l’anziano presule – le nostre chiese sono presidiate. Siamo ormai una chiesa di diaspora ma non ci rassegniamo.
La nostra presenza qui ha un senso profondo, siamo in diretta continuità con la Chiesa apostolica e vogliamo lavorare per la pace. Noi siamo iracheni, cristiani iracheni.
Non cerchiamo protezione, ma che tutti ci considerino cittadini garantiti dalla legge e dalla millenaria convivenza». È la chiesa definita da Giovanni Paolo II «dei martiri, perché annovera il numero maggiore di testimoni fino all’effusione del sangue, della storia». Una schiera di eroi della fede che dalla caduta di Saddam in poi, ha precipitosamente ingrossato le proprie fila.

A
l tempo del regime, infatti, i cristiani, circa 1.000.000 principalmente appartenenti alle tre grandi
denominazioni di Caldei (uniti a Roma), Assiri e Siri, avevano sempre goduto di una certa tolleranza, difesi in qualche modo anche dalla presenza nel governo del caldeo Tareq Aziz.
La fine di Saddam Hussein ha scatenato contro di loro una persecuzione vera e propria. Dal 1 agosto 2004, quando scoppiò la prima bomba anti-cristiana contro la chiesa di Sant’Elia a Baghdad, fino a oggi, una serie devastante di attentati si sono succeduti in molte
città e villaggi che ha portato il computo dei morti oltre la cifra di 1.500, senza contare feriti, rapimenti, ricatti, esodi forzati.
Esercito del Mahdi, gruppi armati sunniti e sciiti o semplici bande di
criminali comuni sono i tragici protagonisti di questo film dell’orrore che non conosce intervallo.
Ora, i cristiani in Iraq, raggiungono a malapena la cifra di 400.000. «E sempre di più sono quelli che vengono in questa regione – mi spiega padre Rayan Atto, un
giovanissimo quanto attivo prete caldeo, parroco di Mar Qardakh, al centro di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno – perché è l’unica di tutto l’Iraq in cui c’è pace e sviluppo». È vero. Nel paese dilaniato da guerre civili e violenze di ogni tipo, sorge un’isola di stabilità e pace relativa: il Kurdistan semi-autonomo. Con la sua fetta di 17% di petrolio nazionale e investimenti che derivano dalla situazione pacifica, il Kurdistan iracheno è di certo l’area di maggiore sviluppo di tutto il Medio Oriente, dopo Israele, e brucia tappe dopo tappe nella sua rincorsa verso parametri economici da primo mondo. Immigrati di molte provenienze rivolgono a questa regione la loro attenzione da ormai vari anni e, tra questi, moltissimi cristiani iracheni. Il presidente del parlamento, Kemal Kerkui, ostenta accoglienza: «Abbiamo già scritto nella nostra bozza di costituzione, che concederemo ai cristiani mini­autonomie nelle zone dove sono la maggioranza».
«E noi, invece – riprende padre Rayan – rischiamo di rimanere decenni indietro. La nostra diocesi di Erbil sta divenendo la più numerosa e importante di tutto l’Iraq. Nel giro di quattro anni, i cristiani fuggiti da Baghdad, Bassora, e Mosul e giunti qui, sono passati da 8.000 a oltre 35.000. Ma da quando monsignor Yacoub Denha Scher è morto per cause naturali nel 2005, noi non abbiamo vescovo». Pastorale significa anche geografia umana, numeri, storie. Ma a vedere la situazione della Chiesa, almeno quella caldea, da Erbil, non si ha la sensazione che questi dati siano oggetto di profonda riflessione. Ad Ankawa, per fare un esempio concreto, cittadella cristiana della capitale curda, oltre ai tantissimi profughi, si è ormai trasferito l’establishment ecclesiastico: qui è stato spostato da Baghdad (e costruito) il nuovo seminario, si sono trapiantate diverse comunità di religiosi e religiose in fuga dalla persecuzione, c’è la facoltà teologica, e preti, suore, laici, sono pronti a rimboccarsi le maniche. Ma in tutta l’area c’è una sola parrocchia, non c’è un piano pastorale vero e proprio, e sono in molti tra religiosi e laici a lamentare un senso di abbandono.

S
tretta tra l’oppressione della persecuzione, le tante nuove esigenze pastorali, la sfida delle sette fondamentaliste
protestanti, la cCiesa vuole riorganizzarsi. La tanto attesa nomina del nuovo vescovo di Mosul, che succede a Rahho, ucciso nel marzo 2008 dopo un drammatico rapimento, e arrivata lo scorso novembre, potrebbe segnare una positiva inversione di tendenza, sperano in molti, e rappresentare un nuovo inizio.
Lo scalo ad Amman , di rientro a Roma, offre l’inaspettata sorpresa di centinaia di uomini e donne vestiti di bianco che tornano dal pellegrinaggio alla Mecca. L’aria è decisamente rilassata, se non festosa: l’obbligo di recarsi in pellegrinaggio sui luoghi del profeta almeno una volta nella vita è stato compiuto e ciò sembra aver prodotto un compiacimento spirituale generalizzato. Il volo per Roma è una macchia bianca di immigrati islamici che tornano in Italia. Accanto a me siede un signore magrebino sulla sessantina che parla un delizioso italiano. Si scherza di calcio e di cibo. «Siamo stati alla Mecca e a Medina – l’uomo torna riflessivo – per me è stata un’esperienza spirituale profonda; chi fa prevalere il lato trascendente nella propria esistenza, saprà portare pace a chi gli sta attorno».
Mi volto e dal finestrino scorgo la piana di Amman e, in lontananza, il martoriato Iraq. Mi incanto per un momento e medito le parole del mio compagno di viaggio. È forse il modo migliore per tornare a casa da questa meravigliosa quanto straziante esperienza in Iraq. Con una speranza in più.



«HANNO MESSO UNA BOMBA IN CHIESA. E NOI ABBIAMO APERTO UN OSPEDALE»


Q
uando esplose la prima autobomba anti­cristiana a Baghdad davanti alla chiesa di Sant’Elia (1 agosto 2004, tre morti) lui era il parroco. Ora è il rettore del seminario caldeo trasferito da Baghdad a Erbil, Kurdistan iracheno, per sfuggire a minacce e rischi di attentati. Provato dalla sofferenza per la perdita di collaboratori e amici cari, segnato dalla persecuzione della sua Chiesa, monsignor Bashar Warda, redentorista, si apre e manifesta tutto il coraggio e l’ottimismo che una guida spirituale
come lui, deve avere in Iraq.
Monsignor Warda, ci descrive la situazione dei cristiani iracheni?

«A vederla attualmente, la situazione è drammatica: il 50% dei cristiani hanno lasciato l’Iraq, 2/3 se ne sono andati da Baghdad. Fino alla caduta di Saddam, avevamo 45.000 famiglie nella sola capitale, circa 300.000 fedeli; avevamo 23 parrocchie, ora ci sono al massimo 7.000 famiglie e appena 13 parrocchie. La gente scappa dal terrore, ma anche dalla mancanza di lavoro, di
sicurezze sociali, politiche».
Molti lasciano il Paese, ma negli ultimi tempi un sempre maggior numero di fedeli cristiani approda qui, nel Kurdistan iracheno.
«Sì, qui grazie a Dio si vive in pace ed è per noi l’occasione di scappare dalle persecuzioni, ma restare sempre in Iraq. Per noi, per la Chiesa universale, per il Medio Oriente, è fondamentale che i cristiani rimangano su questa terra. Se mi consente un’espressione politica, direi che i cristiani qui sono strategici. È qui che si sono formate le prime comunità poco dopo la resurrezione di Gesù e da qui il cristianesimo si è irradiato in quella che veniva chiamata Mesopotamia, in Libano, in Siria. Noi parliamo il dialetto più vicino a quello di Gesù, siamo in continuità con la comunità apostolica. Ma, direi, soprattutto, abbiamo una missione da compiere».
La pace...
«Certamente. I cristiani sono i figli di un processo di riconciliazione, quello tra Dio e il mondo e se siamo qui da millenni, il motivo
principale è perché a noi è affidato il compito di creare pace, la pace è scritta nel nostro Dna.
Vede, io considero questo periodo un’occasione storica per noi, perché la stragrande maggioranza della società, lo stesso governo centrale, guardano a noi con grandi aspettative, perché siamo noi ad aver sempre offerto istruzione, cultura, ospedali, noi ad avere capacità di mediazione, di dialogo da offrire a tutti. Qui siamo voluti bene».
Siete pronti?
«Questo è il problema principale. Non dovete pensare che la persecuzione sia l’unico nostro problema. È ovviamente il più urgente. Ma io sono convinto che la Chiesa debba rialzarsi e comunicare, evangelizzare, portare pace, oltre che avere una maggiore pianificazione pastorale. Ho il timore che a volte si utilizzi la violenza che subiamo come una scusa per non agire. Quando scoppiò quella terribile bomba davanti alla mia chiesa, rimanemmo tutti sconvolti e per settimane riflettemmo e meditammo su come
reagire. Alla fine, decidemmo di costruire una scuola per bambini cristiani e musulmani, dove potessero giocare, imparare, pregare assieme e costruire la società del futuro. L’occasione è ora: tra 5 o 10 anni, sarà troppo tardi».
Le varie confessioni cristiane, i fedeli , come vivono?
«Per ciò che riguarda i rapporti tra cristiani, vedo anche qui un grande rischio. La caduta di Saddam ha dato il via a mille particolarismi: sciiti, sunniti, curdi, yazidi, shabaki eccetera; la mia sensazione è che il virus della frammentazione stia infettando anche noi. Ma vedo anche una grande voglia di essere insieme, non solo per proteggerci, anche per offrire di più una testimonianza. E credo che ai nostri fedeli dobbiamo comunicare proprio questo. Se sapremo spiegare loro che qui abbiamo una missione da compiere, che la nostra presenza ha un senso profondo, avranno un motivo in più per frenare l’esodo».



© Copyright Avvenire 21 febbraio 2010