DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

LA TERRA DEGLI UOMINI LIBERI Nei tea parties ruggisce l’America profonda che detesta lo showbiz e lo stato

di Stefano Pistolini

L’America si prepara alla decisiva
battaglia d’inizio millennio attorno
al principio d’indipendenza – semmai
ne possa esistere uno più classico
da connettere all’avventura psicosociale
d’Oltreoceano. Durante le prove
generali per il voto di medio termine
del prossimo novembre e quindi lungo
la strada che condurrà all’assalto repubblicano
al secondo regno di Barack
Obama – colorandosi di volta in
volta di economia, garanzie, di salute,
di istruzione, di opportunità, di ruolo
internazionale – l’oggetto del contendere
sarà questo: cosa vogliamo essere
e diventare, a questo punto di svolta,
minacciati da nuove potenze che non è
facile liquidare tout court come regni
del male e del comunismo? Vogliamo
percorrere la spericolata ipotesi d’inseguire
qualcosa ormai oltre le possibilità
della nazione americana, o vogliamo
rilanciare sul piano dell’autodeterminazione,
della ritrovata autonomia
del cittadino che, a un certo
punto del discorso, vuole immaginarsi
come il Marlboro Man del Montana,
quello col ranch, qualche bracciante
messicano, quello che galoppa nella
prateria, respira ossigeno vero e non
vuole avere che rare notizie da un governo
centrale del quale trascura l’esistenza,
perché ognuno per sé, correttamente,
onestamente, gagliardamente
– è questa l’America, no? Perciò, via
dalle imprese senza futuro in angoli
selvatici del mondo, raduniamoci, diamoci
dei compiti, rassettiamo il paese
e poi ciascuno torni sulla strada della
sua casa nella prateria – siamo o no i
più fortunati abitanti del pianeta?
Quelli che hanno avuto in dote la seconda
occasione? Vogliamo ricordarcene,
prima che sia tardi? Prima che si
resti impigliati nella ragnatela del vecchio
mondo? Mettiamo i guardiani ai
confini, intensifichiamo i controlli,
non buttiamo dollari in spedizioni
senza senso, aiutiamo i bisognosi come
ci hanno insegnato i padri, ma
manteniamo le distanze e in cambio
ammettiamo un po’ di manodopera a
buon prezzo. Proviamo a lucidare l’argenteria
rappresentata dal nostro modo
di vivere, dall’essenzialità del progetto,
così funzionale da apparire perfetto.
Soli, siamo magnifici, e torneremo
a esserlo, perché ancora si può, come
dice quel presidente che purtroppo
ha un sacco di idee sbagliate sul
“come” si possa. E’ questo il core del
messaggio populista che sta allagando
la comunicazione americana: metti un
freno alla statalizzazione del paese.
Siamo nati per essere diversi, per declinare
la civiltà secondo geometrie
alternative. Autodeterminazione, individualismo,
intraprendenza, liberismo,
stimolo, empatia e buon vicinato.
Libertà, ricordate questa parola? Altro
che assistenza, linee guida, immigrazione,
garanzia governativa, tasse e
statalizzazione. Ecco dove lavoreranno,
su tutti i piani possibili del discorso,
le voci della Right America. Che
sarà una Talk America, una nazione
costellata di slogan, promesse, ammiccamenti,
parole d’ordine, strizzate
d’occhio. Un’America di gerghi riscoperti,
accenti orgogliosamente esposti,
radio che strillano, televisioni che si
accapigliano, l’America di Rush e
Beck, di O’Reilly e Hannity, di Sarah
Palin e Dobbs, di Liz Cheney e Ann
Coulter. Pronti?
* * *
E’ una reale emergenza: l’America
che comanda non può sorvolare sul
disastro provocato dall’ideologia della
società dello spettacolo. Altrimenti
il presidente Obama che dice “non
bruci un sacco di grana a Las Vegas,
quando dovresti mettere da parte i
soldi per il college di tuo figlio”, fa solo
la figura del pazzo visionario. Allora,
a caccia di allegorie, come Satana
sedeva sul fondo dell’imbuto infernale
di Dante, noi, giù dentro nelle viscere
più profonde dell’America d’oggi,
noi ci piazziamo la piccola Tila Tequila,
per com’è perniciosa, tentatrice
e inconsistente, furba, sexy e stronza.
Tila racconta che questo nome glielo
hanno dato dei gangster messicani
che l’avevano presa prigioniera in una
guerra tra bande, dopo che lei, piccola
immigrata vietnamita dalle curve
stuzzicanti, era finita già in riformatorio.
Come in un B-movie. Sia chiaro:
Tila non fa altro che approfittare di
uno scenario favorevole, talmente favorevole
da permetterle d’arrivare,
senza talento se non il suo miagolante
sex appeal da entraîneuse di Saigon,
ad avere un reality show sulla sofisticata
Mtv e un libro, nientemeno che di
self-help, pubblicato dalla aristocratica
Simon & Schuster. Il problema non
è Tila – per quanto a guardarla venga
da ridere e piangere, vedendo come
traduce in prostituzione qualsiasi gesto
(il suo reality consiste in ragazzi e
ragazze che si sfidano per l’onore di
diventare i suoi amanti, in regime di
bisessualità. Poi a lei non ne piacerà
nessuno e li caccerà tutti). Quel che è
allucinante è che l’industria dello
spettacolo Usa (in esponenti rispettabili
come Mtv e S&S) scelga Tila per
darla in pasto al pubblico, nella fattispecie
quello dei ragazzini, come nutrimento
dei loro giovani cervelli.
Quanti compreranno la merce esposta
da Tila Tequila? Quanti minorenni,
ipnotizzati dalle loro sei ore quotidiane
di tv, recepiranno il messaggio di
mignottismo, di vacuità, di capricciosa
inutilità, di negato erotismo che Tila,
e mille altre Tila ambosessi, oggi
incarnano nella tv americana e di tutto
l’occidente? Com’è possibile che ciò
sfugga alla valutazione e alla resa dei
conti che merita? E’ una vergogna che
l’omertà si spinga fin qui: stanno bruciando
le teste dei ragazzi. E’ abbastanza
barbarico, per i vostri gusti? Lo
stanno facendo per incassare quattrini
il più in fretta possibile. Stanno generando
milioni di persone condizionate,
esposte a una mostruosità del vivere
che sarà difficilissimo risalire.
Perché il governo d’America non se
ne occupa? Perché i media non denunciano?
Perché ogni genitore, in
ogni casa, ha qualcosa di più impellente
da fare che spegnere la vocina
di Tila? Perché far finta di niente, se
ti chiami Obama, parli da Presidente
e sostieni che l’educazione dei giovani
americani sia la priorità assoluta?
Perché non chiedi a padri e madri, a
media e aziende, a comunicatori, editori,
direttori, creativi, perché non
chiedi che diamine stanno facendo
per fottere il futuro del paese? Non
esistono precedenti. Non si hanno raffronti.
Non si sa come diventa una nazione
dove un’adolescenza viene consumata
ascoltando i rantoli di Tila che
vuole un gin tonic servito in ginocchio.
Oggi è così. E’ il virus nel salotto.
* * *
Secondo Daily Kos/Research 2000 il
63 per cento dei repubblicani intervistati
pensa che Obama sia un socialista,
il 21 per cento pensa di no, e il 13
per cento non ne è sicuro. Inoltre il 53
per cento di loro giudica Sarah Palin
più attrezzata di Obama per fare il
presidente.
Perchè i tea parties ci hanno interessato
fin dal primo apparire? Perché
contenevano un dato viscerale
che andava intercettato, prima che il
sistema della comunicazione politica
ne intuisse il potenziale, mettendoci
sopra il cappello. Intollerante, incontinente,
arrogante, egoistico, ultranazionalista,
rabbioso, spazientito, massimalista,
urlato, superficiale, questo
movimento stava dicendo cosa bolliva
in pentola nelle vere cucine americane.
Importante saperlo. Poi i suoi sostenitori
sono stati opportunamente
classificati: bianchi, piuttosto vecchi,
piuttosto ignoranti, convinti d’essere i
veri conservatori, fedeli spettatori di
Fox News, pronti a fare da attivisti
per il voto di novembre 2010. I progressisti
americani li hanno subito irrisi.
I repubblicani hanno cominciato
a manovrare per un’annessione, rivelatasi
meno scontata del previsto. Alla
Casa Bianca li si è considerati potenziali
alleati, in vista del successo
per il secondo mandato. Si è pubblicizzata
la loro convinzione che “Obama=
Hitler”, roba da oltranzisti pronti
per il manicomio. Si è detto che in
tempo di crisi la fuoriuscita di spontaneismi
come i tea parties sia inevitabile
e transitoria. Sono contro tutto, e
perciò raccolgono il consenso di chi è
arrabbiato. “Con quelle mani raccogli
il cotone e lascia stare la Sanità”: così
un satirista di sinistra ha graficizzato
quello che dovrebbe essere il rozzo
sentimento dei tea parties verso il
Presidente. Ma invece di esporre tutto
questo antipatico senso di superiorità,
perché non si prova a comprendere
che la situazione è così insoddisfacente
che i partiti tradizionali sono
ai minimi storici nel desiderio di delega
da parte dei cittadini, mentre l’idea
di riconoscersi in semplici, banali,
chiari principi, dà sollievo a molti?
Chiamatelo neopopulismo, ma chi sa
mettersi alla testa di questa moltitudine,
senza dare l’impressione di volerla
solo manovrare, ha ottime chance
di contar nel voto del prossimo novembre
e forse anche in vista delle
presidenziali 2012. I sondaggi lo ripetono:
quando a dei simpatizzanti dell’area
della conservazione si chiede
con chi si identifichino, i tea parties
vincono a man bassa. Se ne preoccupino
i repubblicani e smettano di fare
ridicolmente gli snob i democratici,
magari ripensando a quanto avvenne
con George Wallace. Se poi la diretta
conseguenza del discorso è che nell’arena
politica vedremo scendere ex
conduttori e giornalisti televisivi, precipitosamente
trasformatisi in politici,
e poi provocatori di vario ordine e
grado, tenutari di talk show, arringatori
da piazza e non sofisticate intelligenze
politiche – beh, non è di tutto
questo che stiamo parlando da quattro
puntate? D’una nazione a un passo
dalla resa dei conti con l’impresentabilità
a cui si è costretta, pur di riassaporare
il gusto di un po’ di sincerità,
pur di non sentirsi completamente
presa per i fondelli. I tea parties, i
Rick Santelli, i Limbaugh sono sentenze
di condanna verso il sistema
americano della rappresentatività. Sono
effetti non cause, sono il prodotto
del distacco tra popolo e delegati, su
fino alla Casa Bianca e alla storia dell’inverno
del grande scontento per
Obama. Non vanno scansati o tollerati
con fastidio, come successe con
Ross Perot. Incarnano il momento di
vergognosa riabilitazione, di azzeramento
dei valori in campo. Pretendono
un atto di modestia, prima di disintegrarsi
– e questa forse è una profezia
sconsiderata.
* * *
L’ultimo rimbombo assurdo arriva
da una storia di piccoli brividi. In un
ospizio per vecchi d’una città che già
di suo non sprizza allegria come Providence,
Rhode Island, hanno adottato
un gatto randagio che s’aggira indisturbato
per i corridoi dell’edificio.
Con una sinistra peculiarità: quando
uno degli anziani pazienti sta per
schiattare, lui, diabolicamente, lo capisce,
lo sa, lo anticipa, e comincia a
grattare alla sua porta e poi si struscia
col moribondo, conferendogli le
ultime, fatali fusa. Per il resto, assicurano
medici e infermieri della Steere
House Nursing, Oscar – così hanno
battezzato il messaggero di morte – è
un tipo riservato, non cerca coccole,
se ne sta per gli affari suoi, segue percorsi
misteriosi e si occupa solo di far
cadere la sua micidiale ronfata sul
prescelto a lasciare il mondo dei vivi.
E pare che ci azzecchi, pare ne sappia
più dei medici, pare che quando questi
si accingono ad accompagnare il
trapasso di un paziente, lui invece ne
scelga un altro, perché sa che morirà
prima, e pare abbia sempre ragione
lui. Adesso la vicenda di questo ributtante
Mastro Titta a quattro zampe,
è stata trasformata in un libro dal
dottor David Dosa, specialista in geriatria
della clinica in questione. Il libro
si chiama “Making rounds with
Oscar: the extraordinary gift of an ordinary
cat”, ovvero “facendo le visite
con Oscar, il gatto qualunque con un
dono eccezionale” e anche il riverito
“New England Journal of Medicine”
gli ha concesso attendibilità, attribuendo
i poteri di vaticinio di Oscar
alla capacità d’annusare i chetoni,
componenti biochimici liberati dalle
cellule morenti. I talk show arrivano
compatti sulla storia, perché funziona
– lo si vede lontano un miglio, ci si potrebbe
perfino fare un reality – e la
notizia risulta la più vista nei notiziari
locali. L’America s’incanta davanti
al gatto che presagisce la morte. Un
micio randagio risolve la madre di
tutte le domande: quanto ci resta, prima
del grande buio? E’ ridicolo, malinconico
e perfino doloroso, intuire
il tremore che traversa il gigante, la
nazione delle nazioni, e nella fattispecie
i suoi umanissimi abitanti, di
fronte al segreto dell’animaletto che
diventa angelo della morte. Il fatto è
che la logica, in America, non ce l’ha
fatta. La logica dei meriti e il design
della vita dei suoi cittadini, avviati a
essere operosi ed empatici e perciò
premiati con la felicità terrena e il rispetto
eterno, non ha assunto la definitiva
simmetria che si presupponeva.
Qualcosa è andato storto. Le ambizioni,
l’avidità, il gusto per la sopraffazione,
il senso d’ingiustizia, i
vuoti etici e soprattutto le illusioni e
le disillusioni, il paradiso dietro l’angolo
ma irraggiungibile, anche per coloro
a cui era stato promesso per dettato
costituzionale. La logica americana
che deve premiare chi fa il suo
dovere garantendogli una permanente
condizione evolutiva, che si trasmette
ai figli, chiedendo in cambio
dedizione e in certi casi anche eroismo,
tutto s’è sgretolato, opacizzato,
attraverso una serie di slittamenti di
cui a lungo non si è tenuto conto. Cadendo
preda delle tentazioni, avallando
la miopia, perpetrando l’infantilismo
sociale e il perbenismo, sospingendo
il consumismo, l’élite americana
è responsabile del nuovo Medioevo
d’Oltreoceano. Rendendo letteratura
i vizi diffusi, crogiolandosi
nella decadenza, permettendo che le
menti degli americani subissero criminali
lavaggi del cervello. Gli intellettuali
americani hanno dato il benestare
alla società dello spettacolo,
di cui usufruiscono per diventare celebrità,
tralasciando lo scomodo compito
di guardiani dell’hardware americano.
E adesso è tardi e alcune funzioni
del vivere laggiù hanno i caratteri
dell’incontrovertibilità, non possono
essere fermati, e chi tentasse
verrebbe combattuto e azzerato. Intanto
Oscar il becchino continua a
passeggiare e a scegliere il prossimo.
Non ce l’ha fatta la scienza, non ce
l’hanno fatta profeti, predicatori, presidenti,
a fare quello che fa l’ultima
delle bestie. Eppure era il compito
dei compiti, la rivelazione: quanto ti
resta. Un’istruttiva ironia, no? L’America
continua a non sapere quello che
spassionatamente il gatto di Providence
amministra, e s’attorciglia su
se stessa: troppe cose sono state fatte
male e troppe strade sono state percorse
nella direzione sbagliata. Difficile
che questa constatazione diventi
un programma elettorale. Ma la parte
sana dell’America lo sa. Ciò che è accaduto
nell’ultimo anno ne è un segno,
contraddittorio, ma forte. Pur
d’invertire la rotta, non si ha paura di
tentare, di sperimentare, a costo di
mandare un intellettuale nero e moralista
alla Casa Bianca. Le idee vanno
ordinate, la condivisione va attivata:
ma c’è un senso di sfiorato pericolo
nell’aria, c’è un’atmosfera di convalescenza,
pervasa di dubbi e rischi
di ricadute. Oscar, il gatto che arriva
prima dell’America ad annusare il
destino, passeggia tra le rovine. E’ disgustoso
nella sua incoscienza, che
però contiene un’innocenza smarrita,
su cui converrebbe riflettere. Attorno
a ciò che avvenne quando si cominciò
a sbagliare, come narra Nathaniel
Hawthorne. Quando al bivio s’imboccò
la via sbagliata, gli interessi covarono
disegni malvagi, la facciata
nascose le intenzioni indecenti. E ai
malcapitati che non si sottomettevano,
s’impose la scarlatta lettera della
vergogna.
(4. Fine. Le altre tre puntate sono state
pubblicate il 20 gennaio, il 29 gennaio
e il 2 febbraio 2010).

Il Foglio 17 febbraio 2010