di Marina Valensise
La dottoressa Poltawksa, la psichiatra
amica di don Karol Wojtyla,
che fu suo padre spirituale, e poi intima
frequentatrice di Papa Giovanni
Paolo II, di cui fu a lungo corrispondente,
a lui legata col marito Andrzej
da ventennale amicizia, appare all’improvviso
dritta come un fuso nella
saletta della Casa generalizia di
San Paolo. Ha ottantanove anni e non
li dimostra: il passo è svelto, teso,
quasi militaresco. Piccola, minuta, un
vestito di maglina verde con medaglietta
della madonna di Czestochowa
appesa al collo, ha un aspetto ordinario.
Il viso è aguzzo e scavato, avvolto
da capelli bianchi e lisci, e segnato
dalle rughe e certe strane crosticine
di ferite sulla guancia sinistra. Gli occhi
sono scuri, piccoli, allungati, ma
lo sguardo è intenso e diffidente, sottolineato
da un naso dritto, sottile e
appuntito. Le gambe invece sembrano
stanche, a giudicare almeno dalle
caviglie un po’ ingrossate, ma la signora
è un concentrato di energia;
sprizza una fede, una forza di convinzione
a prova di bomba, e forse anche
amore, ma non subito. L’accompagna
una delle sue quattro figlie, magra anche
lei, ma più alta di lei, capelli neri
intorno a un viso dolce e molto arreso,
e un simpatico sacerdote polacco,
che ogni tanto, quando si tratta del lascito
di Wojtyla, le suggerisce la traduzione
polacca di “eredità”, e si proclama
“suo figlio adottivo”, per poi
spiegare che no, scherzava, è solo l’editore
polacco del “Diario di un’amicizia”,
il libro di ricordi, riflessioni,
spunti di meditazione e scritti di Karol
Wojtyla che Wanda Poltawska ha
deciso di pubblicare, “spinta solo dall’obbedienza”,
dopo esserne stata incoraggiata
dallo stesso Papa. “Il popolo
ha il diritto di conoscere i suoi santi”,
sentenzia severa l’autrice. Tradotto
in italiano da Luca Bulletti e Barbara
Kowalcyz Cegna per le Edizioni
San Paolo, il “Diario” ha già venduto
in una sola settimana le prime undicimila
copia ed è già in ristampa.
“Lei l’ha letto?”, domanda la Poltawska
con aria di sfida. “Non faccio
altro da due giorni”. “Solo due giorni?
Ma l’ha letto tutto?”, insiste divertia
e si capisce che è una cattolica di
frontiera, come può esserlo una polacca
dura, senza complessi, felice e
fiera della sua selvatichezza. Infatti,
viene subito in mente la nostalgia di
Karol Wojtyla, sbarcato a Roma ai
tempi del Concilio Vaticano II, davanti
ai Colli Albani, pendii coperti di vigne
e di castagni, carichi di civiltà,
dove manca però “il contatto con la
natura”. “Dei luoghi in cui si sente
ancora la natura, perché la civiltà
non li ha ancora toccati troppo, sono
al nord, sulle Dolomiti”, scriveva infatti
l’arcivescovo di Cracovia agli
amici Dusia e Andrzej nell’ottobre
1962. E in un’altra lettera del 10 maggio
1979, Giovanni Paolo II, eletto Papa
da meno di un anno, si soffermava
sulla differenza di tipo botanico, per
dire tutto il suo rimpianto dei monti
Tatra, dei Gorce, dei Beschidi, dove
era solito camminare coi suoi giovani.
“Vivo in una torre e cammino in un
giardino, guardo gli alberi e li confronto
continuamente con altri alberi,
e un’altra vegetazione”, scrive Papa
Wojtyla, pensando ai boschi percorsi
dal fiume Wislok che scorre come un
nastro trasparente, facendo trapelare
gli scogli rocciosi del fondo, e i villaggi.
“Manca loro quella rapidità e quel
carattere selvaggio. Una cosa è il giardino
un’altra la foresta”.
Il fatto è che la natura ha un ruolo
chiave non solo nel modo di essere di
Wanda Poltawska, schietta e irruente
come il Wislok, ma soprattutto in questo
“Diario”, che descrive passo passo
le escursioni estive sui monti Beschidi,
coi loro boschi sacri, i dirupi
dei fiumi, le messe nei boschi, fra le
betulle, in mezzo alle foreste di abete,
o sotto la tenda nei giorni di pioggia e
senza sole, e così facendo ripropone
la catechesi di Karol Wojtyla, con le
sue veglie, la via crucis, la meditazione,
l’adorazione di Cristo, e la sua
ispirazione fondata sulla “teologia
della creatura” o sulla “teologia del
corpo”, e quindi sul contatto intenso
con la natura, che è la via maestra per
attingere dal corpo all’anima e all’elevazione
divina. E infatti, quella natura
selvaggia e incontaminata, per
Wojtyla, era rimasta tale perché era
un’area di particolare presenza di
Dio, “perché Dio è ovunque, ma soprattutto
è là dove l’uomo lo scopre e
dove lui ‘ritrova l’uomo’”.
Appena però uno tocca il tasto privato
di quella vita nella natura, la
dottoressa Poltawska si schermisce.
“Niente di personale”, replica subito
con una certa ruvidezza. “Questo diario
è innanzitutto un libro di testimonianza;
racconta il rapporto tra un
penitente e il suo confessore, perché
la gente oggi non sa più come confessarsi.
Cristiani e credenti continuano
a vivere nel peccato, senza sapere
che possono cambiare e come fare
per cambiare”. La dottoressa parla
un italiano deciso, anche se, come
tutti i polacchi, fa economia di articoli
e preposizioni. Attentissima però
alle parole del suo interlocutore, è
una che non fa sconti. “Non ho raccolto
‘tutti’ gli argomenti di riflessione
che il Papa mi suggeriva”, precisa
subito. “In cinquant’anni di frequentazione
avrei dovuto scrivere migliaia
di pagine”, puntualizza. “E invece
ho scelto solo le pagine di testimonianza
che pensavo sarebbero state
utili ai sacerdoti per capire cosa
aspettarsi dai fedeli, come sviluppare
i loro esercizi spirituali. E a giudicare
dalle molte lettere di lettori
penso di aver fatto bene”. Tante persone,
dice la Poltawska, le hanno
scritto che dopo aver letto questo libro
si sono convertite. Molti che si reputavano
credenti hanno scoperto di
non esserlo abbastanza. E in tanti,
leggendolo, hanno capito che la persona
umana non è solo un corpo, ma
è un corpo dotato di un’anima e in
cammino verso il cielo. “Ricordatevi
che la persona umana non è stata
creata per questa terra, ma per il cielo,
e che la terra rappresenta solo
una tappa del cammino verso la santità”,
dice oggi la Poltawska, citando
il programma lanciato dal suo amico
Wojtyla per il nuovo millennio. “Bisogna
solo rileggere quello che ha detto
il Santo padre”.
Nel libro dunque ci sono pagine e
pagine di riflessioni, e spunti di meditazione
a partire dal Vangelo, dalle
Sacre Scritture, dal libro di Tobia, o
dal libro di Daniele, dal Genesi, ma
anche dal semplice messale. Per
esempio: “‘Indignus famulus… offero
tibi’. Indignus non è un atteggiamento
di falsa umiltà, ‘io indegno sono un
nulla’, ma della sproporzione di ciò
che ci è superiore”, scrive la Poltawska.
“Sono così consapevole di tale
sproporzione che essa genera non solo
il senso di indegnità, ma anche il
senso di ‘essere elevato’. L’uomo, in
tutta la sua indegnità, è a tal punto
elevato da Dio, dall’amore di Dio. E
la messa dona all’uomo questo posto,
abbraccia gli uomini, un sacrificio
per tutti, incomprensibile”. E’ la meditazione
di un venerdì 11 settembre,
il mese che per lei segna il ritorno alla
vita e l’inizio dell’amicizia con
Wojtyla. “Questo è un libro per insegnare
come pregare, è un libro di
Dio”, insiste Wanda cercando di dimenticare
se stessa, e appena le rileggi
la preghiera di Prehyba, che il
suo padre spirituale, don Karol, non
potendo partecipare alla gita in montagna,
le mandò un 13 febbraio 1963 –
“Sinora sono stata più dentro di me e
ho visto me stessa. Adesso permettimi
in un certo modo di perdere me
stessa, come se smettessi di esistere,
come se smettessi di essere quello
che sono stata finora” – lei insiste per
uscire di scena, per farsi dimenticare:
“Io non avrei mai voluto scrivere
un libro. E’ il Santo padre che ha voluto
che io lasciassi una testimonianza.
Non è una mia idea. Per cinquant’anni
non ne ho parlato. Non è
la mia biografia, anche se all’inizio
cito alcuni dati solo per far sapere
che non vengo dalla Romania, non
sono nobile e sono una vecchia”.
Niente sapremo, dunque, del suo privato,
niente del legame sentimentale
con quel pastore di anime sportivo e
carismatico, che metteva i suoi giovani
accoliti in guardia dai sentimenti
perché potevano andare contro l’amore,
teorizzando il pensiero come la
rampa di lancio dell’amore, e quando
seppe dei quattro anni vissuti da Dusia
nel lager di Ravensbrück, tra lesbiche
spietate, e crudeli brutalità,
commentò: “E questo al posto mio”, e
il giorno della consacrazione episcopale
nella cattedrale di Wawel, la salutò
come “Sorella, sorellina mia”.
E infatti la vita di Wanda, in questo
libro, non c’è. Traspare pudicamente
all’inizio, quando racconta della sua
adolescenza da scout, della resistenza
contro i tedeschi invasori, della
guerra e della prigionia nel lager di
Ravensbrück, dai 20 ai 24 anni. Ma
non c’è niente di autobiografico o
personale quando Wanda ricorda il
suo sgomento davanti alla viltà di
una vecchia insegnante, sorpresa a
rubare una patata dal rancio del lager,
o rivive la sua umiliazione di giovane
donna costretta a denudarsi e
andare di corpo davanti agli occhisenza
pudore di un caporale nazista.
Qui c’è solo una minima parte di
quanto Wanda ha vissuto nel lager di
Ravensbrück e raccontato in un libro
tremendo, “E ho paura dei miei sogni”,
uscito nel 1962 e tradotto da Luigi
Crisanti per le Edizioni dell’Orso
di Alessandria nel 2008. E se una
adesso le domanda sino a che punto
la sua fede l’ha aiutata a sopravvivere,
ripensando all’esame morale di
cui parla Varlam Shalamov, e citando
il suo connazionale Gustaw Herling,
che passò la sua giovinezza prigioniero
in campo di lavoro sovietico sul
Mar Bianco, e quando ne uscì si sentì
dire dal giudice esaminatore: “Forse
sopravviverai, ma non avrai più voglia
di fare l’amore”, Wanda Poltawska
replica con sicurezza beffarda.
“Io non posso esprimermi come fate
voi italiani. L’amore non si fa, l’amore
si vive. Voi chiamate amore un
rapporto temporaneo tra un uomo e
una donna. Ma il concetto di amore
nella vita cristiana si sviluppa come
anima e corpo. Noi tutti siamo stati
creati per amore e senza amore non
possiamo vivere. Come obbligo e come
scopo, tutti i cristiani imparano
ad amarsi l’uno con l’altro. Cristo dice
amate pure i vostri nemici. Bisogna
fare il possibile per raggiungere
questo livello di fede e amare tutti.
Personalmente, io ho vissuto gli anni
nel campo di concentramento come
un periodo di ritiro spirituale. Ho
avuto il tempo per riflettere e pensare,
per osservare santi, criminali e
donne eroiche. Per me è stata un’esperienza
straordinaria. Quando ne
sono uscita, ero ancora abbastanza
giovane per cominciare a vivere, e ho
scelto di studiare medicina per aiutare
gli altri, ma non ho mai perso la fede,
perché la fede per noi polacchi è
sempre stato sinonimo di credente e
cristiano”.
Quanto all’amore, Wanda Polkawska
racconta che durante le vacanze
per i monti della Polonia, quando i
ragazzi ventenni andavano da don Karol
per dirgli: “Padre noi ci amiamo”,
lui che pur essendo un pastore carismatico
restava un loro coetaneo li
ammoniva severo: “Non dite così. Dite
piuttosto: ‘Noi partecipiamo dell’amore
divino’, perché se non partecipaste
dell’amore divino il vostro non
sarebbe amore”. E se uno adesso,
pensando ai tanti giovani d’oggi che si
rispecchiano nei film di Muccino, e
hanno perso la lingua dell’amore, per
ché ne hanno disarticolato la grammatica,
e non sanno più quale valore
attribuire ai sentimenti, domanda alla
Poltawska cosa vuol dire “partecipare
all’amore divino”, la dottoressa,
che è membro del Pontificio consiglio
per le famiglie e della Pontificia accademia
per la vita, risponde: “Per fortuna
non tutti hanno smarrito la
grammatica dell’amore. Per me è
chiaro. Posso capire che lei mi ponga
questa domanda, ma per me resta assurda.
Già il semplice fatto di vivere
significa partecipare dell’amore divino.
Tu esisti? E’ la prova che Dio ti ha
amato e creato. L’esistenza di una
creatura umana rinvia all’esistenza di
un Creatore. Noi, tutti noi, siamo figli
di Dio, creature divine, figli di un unico
padre, radicati in un amore creativo.
E i cristiani hanno il privilegio di
unirsi a Dio attraverso i sacramenti,
battesimo, cresima, comunione, matrimonio,
estrema unzione, che sono il
segno dell’amore di Dio. Quanto alla
grammatica dell’amore, il Santo padre
era ottimista, quando pensava
che bastasse solo offrire alla gente la
possibilità di conoscere l’amore. Per
questo chiedeva ai genitori dei giovani
credenti di fare testimonianza. La
chiesa cattolica, del resto, non ha bisogno
di un giornale o dell’opinione
pubblica: ha bisogno di testimoni, di
gente che dimostri che si può vivere
nel modo voluto da Dio, comportandosi
in modo da fare piacere a Dio”.
Eppure, nell’Europa atea e nichilista
del giorno d’oggi, niente sembra
più difficile, persino per genitori cattolici
e credenti, che spiegare ai propri
figli come comportarsi per piacere
a Dio. Per molti obbedire alla volontà
di Dio, attenersi ai suoi decreti,
non è più la scelta sicura e obbligata
che era in passato, ma è diventata
una scelta lastricata di dubbi e incertezze.
“Certo, noi non sappiamo qual
è la volontà di Dio. Perché abbiamo
una volontà libera” risponde Wanda
Poltawska con un sorriso enigmatico.
“Dio non ti obbliga ad andare in cielo.
Puoi anche andare all’inferno, se
preferisci. Infatti sei libero. Il Santo
padre diceva sempre: ‘Non domandare
niente a Dio, perché Dio sa meglio
di te di che cosa tu hai bisogno. Ringrazialo
solo per tutto quello che ti ha
dato, e rivolgi a lui le tue lodi’. Io credo
che avesse ragione. Dobbiamo solo
aver fiducia in Dio e nel suo amore.
Quando il Santo padre arrivò in Polonia
per il suo primo pellegrinaggio,
disse, Dio è amore, cercando di convincere
i polacchi che erano tutti
amati da Dio”.
Ma come si fa a credere che Dio ci
ami quando ci infligge tante sofferenze?
Il dolore nel suo significato salvifico
è fuori dalla portata del contemporaneo,
edonista e secolarizzato. Come
via per meritare le gioie dell’eternità
è diventato incomprensibile. “C’è
un bel documento di Sua Santità Giovanni
Paolo II sul sacrificio del dolore;
bisogna leggerlo e riflettere. D’altra
parte, quando un giorno domandai
a Sua Santità del dolore di persone
innocenti, lui mi rispose: ‘Il dolore
degli innocenti è il più grande mistero
divino. Non si può capire, bisogna
solo accettarlo. Lascia che Dio abbia
i suoi misteri, i suoi segreti’”.
Il Foglio 13 febbraio 2010