DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

L’INVERNO DEI SAMURAI. I guai della Toyota (s’è bloccato l’acceleratore) sono la metafora di un Giappone che non sa più crescere

di Stefano Cingolani

Allora, al culmine dell’estate l’imperatore
Meiji trapassò. Sentivo che lo spirito
dell’era Meiji era cominciato con
l’imperatore e con lui era finito. Ero sopraffatto
dalla sensazione che io e gli altri
cresciuti in quell’era, eravamo ora
lasciati indietro per vivere come anacronismi.
Lo dissi a mia moglie. Si mise
a ridere, rifiutando di prendermi sul serio.
Poi disse una frase curiosa, sia pure
per scherzo: “Ebbene, allora dovresti
immolarti e seguire l’imperatore nella
tomba” (Natsume Soseki, “Kokoro”,
1914; trad. italiana “Il cuore delle cose”,
Neri Pozza, 2001).


L’ultimo Toyoda si inchina contrito
e chiede scusa. Scusa ai clienti, ai
lavoratori, ai rivenditori, alla comunità
che gli ha dato fiducia, scusa al
suo paese, all’America, al mondo. I
più sofisticati osservatori del cerimoniale,
attraverso il quale in Giappone
vengono comunicati i veri sentimenti
e i messaggi dell’anima, notano che il
suo inchino non è profondo come dovrebbe;
resta a metà, quindi non
esprime vergogna profonda per il lavoro
mal fatto, la promessa non mantenuta,
l’offesa al culto dell’eccellenza.
Akio Toyoda spera ancora di evitare
l’onta suprema. Eppure, l’imperatore
dell’auto umiliato davanti all’intero
globo, diffonde un senso di fine
epocale e fa venire in mente le parole
di Natsume Soseki, grande studioso di
letteratura inglese, il cui ritratto figurava
fino a sei anni fa sulle banconote
da mille yen. Sostiene l’Asahi Shinbun,
il quotidiano per il quale lavorò
lo scrittore dal 1907, prima di raggiungere
la fama: “Toyota ha rappresentato
la coscienza giapponese di fronte al
mondo, lo spirito di serietà e duro lavoro
del quale siamo fieri”. Richiamare
400 mila esemplari del modello
ibrido Prius, punta di diamante della
casa produttrice, perché i freni funzionano
male è grave; fermare altri
cinque milioni di automobili in ogni
parte del mondo per difetti all’acceleratore,
è una tragedia nazionale. La
sindrome, del resto, si diffonde e anche
Honda stoppa 430 mila vetture. Il
loro è un problema all’air bag, ma il
totem della qualità nipponica crolla
inesorabilmente.
E pensare che proprio un anno fa
aveva suscitato grandi speranze il ritorno
di un erede diretto, un membro
della famiglia, alla guida dell’industria
che ha imposto a tutti il nuovo
paradigma produttivo. Sì, perché
Toyota non è una azienda come tante.
Henry Ford introdusse la catena di
montaggio, la produzione di massa,
l’auto a basso prezzo uguale per tutti;
Alfred Sloan trasformò la General Motors
in una fabbrica di profitti e nella
regina del mercato; Eiji Toyoda ha inventato
il lavoro a isole, la vettura su
misura, il primato del cliente, la fabbrica
snella. “Fare come Toyota” è il
mantra che ha scosso le tre big di Detroit
e, per restare a casa nostra, ha
sepolto Mirafiori, ha fatto nascere
Melfi, ha condannato Termini Imerese.
E adesso?
Per capire la portata di un terremoto
che non investe una singola azienda,
ma un intero paese, dobbiamo tornare
alle origini. Che, come per uno
scherzo del destino, sono già cariche
di significati simbolici. Perché Sakichi
Toyoda, figlio di un carpentiere,
nasce nel 1867, lo stesso anno in cui
Meiji, l’imperatore ragazzo, lancia la
rivoluzione che cambierà il volto del
Giappone, trasformando il remoto e
povero arcipelago del Sol levante in
una delle prime potenze mondiali,
con lo slogan wakon yosai, etica giapponese
e scienza occidentale.
Il primo grande impatto con l’occidente
avviene, in realtà, nel XVI secolo.
Avventurieri, mercanti, missionari
cristiani arrivano a bordo dei grandi
vascelli protetti da potenti armi da
fuoco. Vele e cannoni, come nel libro
di Carlo Maria Cipolla. Il Giappone attraversa
una delle ricorrenti fasi di
anarchia. Il bakufu, governo militare
feudale, non controlla più i signorotti
che scorrazzano con i loro samurai.
L’Imperatore, emissario divino sulla
terra, è in balia del caos. Gli occidentali
non portano soltanto potenza e
morte (come vuole una teoria dell’estrema
destra alla quale s’è abbeverata
la sinistra), ma un nuovo afflato intellettuale
ed etico con il quale vivificare
l’animo orientale. Il cristianesimo
rappresenta quello spirito che,
agli occhi degli innovatori, può risvegliare
sia il confucianesimo dell’élite
sia il buddismo delle masse.
Oda Nobunaga si apre al vangelo di
Cristo, alle armi degli stranieri, alle
loro tattiche militari, alla loro strategia
politica e diventa signore del
Giappone fino al 1582 quando viene
ucciso. E’ il primo statista moderno
del Sol levante, se avesse potuto portare
a termine le sue riforme, dall’abolizione
del feudalesimo a un governo
che potremmo chiamare costituzionale,
il corso della storia sarebbe
cambiato e non solo in Asia – scrive
Michio Morishima, uno dei maggiori
economisti giapponesi, professore alla
London School of Economics. Invece,
arrivano tre secoli di chiusura, come
del resto nella grande Cina dove
la dinastia Ming, che tante speranze
aveva suscitato accogliendo a braccia
aperte il gesuita Matteo Ricci, avvizzisce
e lascia il posto ai Qing, manciù
isolazionisti e reazionari. Fino al
1912, con l’abdicazione di Pu-yi. Per
una spietata ironia della storia, l’ultimo
imperatore si riduce a un fantoccio
dei giapponesi, diventati nel frattempo
padroni dell’oriente, perché
l’era Meiji ha creato un sistema potente
e aggressivo.
Non è questa l’originaria intenzione,
ma il modello di sviluppo capitalistico
si incrocia subito con le ambizioni
dell’esercito il quale ha messo a
tacere gli ultranazionalisti fanatici
del partito “fuori i barbari”, rispondendo,
con astuzia davvero orientale:
“Aprire oggi, espellere i barbari domani”.
Potenti sotto il bakufu dell’epoca
Tokugawa, gli eredi dei samurai
vogliono mantenere la loro influenza
anche nel momento in cui il giovane
Meiji mette mano a una riforma che
crea un vero stato nazionale riportando
al centro la figura imperiale. Il governo
fonda grandi gruppi industriali
facendoli guidare da individui capaci
e fedeli, come Kawasaki Masazo che
costruirà la flotta imperiale dominatrice
del Pacifico. In questo, Deng
Xiaoping segue l’esperienza giapponese
con un secolo di ritardo.
Il modello degli zaibatsu mette nelle
mani del potere civile una forza immensa
che i militari cercano di scalfire,
creando proprie compagnie, direttamente
collegate alla fornitura di armamenti,
come la Nissan. Un dualismo
industriale nel quale cerca di inserirsi
anche la più giovane Toyota nata
dal basso, secondo un percorso pienamente
occidentale.
Il capostipite, Sakichi Toyoda, abbandona
presto la carpenteria paterna
a Nagoya, città a metà strada da
Tokyo e Osaka, per costruire telai
meccanici in un’epoca in cui i tessuti
vengono ancora largamente fatti a
mano dalle donne che lavorano a domicilio.
Quando muore nel 1939, è celebrato
come il re degli inventori
giapponesi, ha una manifattura ben
avviata, ma da vero industriale, sa bene
che il ciclo è cambiato; il tessile è
protagonista della fase eroica, adesso
comincia una nuova epoca. Lascia al
primogenito Kiichiro centomila sterline
ricavate dalla vendita di un brevetto
in Inghilterra e gli chiede di trasformare
l’attività per “costruire automobili
con mani giapponesi”. Gran
viaggiatore, Sakichi aveva scoperto
l’auto nel 1910, visitando gli Stati Uniti.
Erano le prime Ford T e divennero
la sua ossessione. Allora in Giappone
si vedevano davvero pochi esemplari,
importati per lo più da Francia e Germania,
i paesi precursori e a quei
tempi ancora leader mondiali.
La leggenda vuole che la prima vettura
venga costruita nel 1933 smontando
pezzo a pezzo una Chevrolet. La verità
è, come sempre, più tortuosa. Kiichiro
associa il cugino Eiji nell’impresa,
acquista duecento ettari di terreno
a Koromo, non lontano da Nagoya e
apre il primo impianto di quella che
nel 1959 sarebbe diventata Toyota city.
Il nome viene cambiato nel 1936 perché,
trasformando la d in t, suona meglio.
Dietro il vezzo lessicale c’è una
sorta di esorcismo. In caratteri giapponesi,
Toyota si scrive con otto colpi
di pennello, un numero che porta bene,
significa prosperità. Può sembrare
una bizzarria, invece fa parte di una
cultura aziendale che vive di slogan,
missioni, esortazioni. “La crescita armoniosa”,
accompagnata dalla “metabolica
armonia” con l’ambiente e una
successione cronologica divisa in epoche.
La fondazione, la prima era, la seconda.
Ora, dopo la catastrofe, dovrà
lanciare l’era della rinascita.
Gli inizi sono lenti e difficili. Il modello
A1 esce dalle officine nel 1935
in pochi esemplari. Intanto, l’invasione
della Cina spinge a fabbricare camion
per l’esercito. Le guerre portano
soldi e affari, ma allontanano l’obiettivo;
il sogno di concentrarsi sull’auto
si avvera solo dopo la sconfitta,
in pieno “regime di San Francisco”,
cioè sotto l’occupazione americana.
Nel 1950 uno sciopero scuote la Toyota
e costringe Kiichiro alle dimissioni.
Si spegne due anni dopo con l’angoscia
di aver mancato la promessa
fatta al padre sul letto di morte. Non
ha certo sprecato le centomila sterline,
ma la produzione in massa di vetture
resta ancora un sogno che realizzerà
Eiji, non prima di aver studiato
da vicino il sistema americano, nell’impianto
più moderno della Ford,
quello di River Rouge.
Torna con una chiara convinzione
in testa: “Da noi non funzionerà mai”,
come confessa al suo più stretto collaboratore,
Taiichi Ohno. Insieme cominciano
a introdurre il nuovo modo
di fare l’automobile che in un paio di
decenni farà scuola non solo in Giappone,
ma nel mondo intero. Il primo
passo è il kanban, un sistema ancora
rudimentale di etichettatura dei pezzi
che rende più facile l’assemblaggio
della miriade di componenti che entrano
in una vettura. Più tardi si passa
dalla linea di montaggio alle isole,
nelle quali gli operai collaborano tra
loro compiendo più mansioni, anziché
una sola davanti alla macchina
come nel sistema tayloristico. Il modello
di punta è la Crown. Esportato
negli Stati Uniti, però, si rivela inadatto
per le grandi autostrade americane.
Poi arriva la Corolla, piccola e
compatta. I big di Detroit quando la
vedono si mettono a ridere. “Minuscola
e fragile, non funzionerà mai qui
da noi”. Dice sempre così chi non
vuol cambiare. Invece, diventa un clamoroso
successo.
E’ il 1968. Una nuova generazione,
quella dei baby boomers, prende la
patente. Vuole modelli meno grandi e
pomposi rispetto ai loro padri o ai fratelli
maggiori. Toyota sfonda negli
States e Detroit comincia a tremare.
Con le due crisi petrolifere degli anni
Settanta, l’egemonia americana sull’automobile
finisce e comincia quella
giapponese. Solo i tedeschi riescono
a tenere il passo. Gli inglesi smettono
di concepire e produrre auto. I
francesi impiegano vent’anni a riprendersi.
Gli italiani tirano avanti
grazie al protezionismo: una quota
bassissima all’import di vetture giapponesi,
appena l’1,4 per cento, pari a
32 mila vetture nel 1989. Intanto, negli
Stati Uniti scoppia una guerra commerciale.
I tre big dell’auto chiedono
di essere salvate dalla minaccia nipponica.
Fa furore un romanzo di Michael
Crichton, “Rising Sun”, che diventa
un film di successo con Sean
Connery. E’ il canto del cigno.
Il Giappone ha perso la guerra e
vinto la pace? Non c’è solo revanscismo.
Il successo di Toyota dimostra
che è possibile organizzare la produzione
e la distribuzione della ricchezza
su basi di mercato, ma combinando
gli ingredienti in modo diverso; esistono,
insomma, vie nazionali al capitalismo.
Ma vuol dire nello stesso tempo
che Max Weber aveva torto. Lo spirito
del capitalismo non fiorisce solo grazie
all’etica protestante; tanto che Morishima
scriverà un libro per adattare
il weberismo al Sol levante e all’etica
confuciana basata sull’ordine, il consenso,
la gerarchia.
Giunto al culmine della propria parabola,
anche il Giappone entra in crisi.
Ascesa e caduta delle grandi potenze.
Quel che un tempo sembrava granitico
e imbattibile, si sgretola all’improvviso.
Crollano i valori degli immobili,
si ferma la Borsa, le banche non
sanno più come riscuotere i mutui e
recuperare i prestiti, l’intreccio tra
aziende di credito e industrie si rivela
perverso, scendono i prezzi, si blocca
la crescita, Nissan sull’orlo del fallimento
viene salvata dalla francese
Renault e guidata, per la prima volta,
addirittura da un barbaro, finché nel
1997 scoppia il panico innescato dal
crac in Thailandia. Da quel momento
in poi, i ritmi di sviluppo non saranno
mai più quelli di prima. E tuttavia l’industria
recupera, aguzza i denti e batte
la concorrenza. Il paese, ormai satollo
e invecchiato, si adagia nella palude
del benessere. Lascia che i suoi
nuovi samurai scorrazzino per il mondo,
brandendo automobili o apparecchi
elettronici anziché sciabole. La Cina
rappresenta il campo di battaglia
di questi eserciti industriali. Un immenso
mercato da conquistare. Mentre
Stati Uniti ed Europa sono retrovie
da difendere e consolidare. Finché
l’intero motore, che già non gira
più come un tempo, grippa.
Toyota, per lungo tempo, è riuscita
a tenere la testa fuori dall’aura mediocritas
in cui è scivolato il Giappone.
Approfittando dello sbandamento di
General Motors, della buona posizione
in Cina e del successo che il sistema
di alimentazione ibrida riscuote
nel gran circo ecologista (dalla California
alla Svezia sembra l’auto del
futuro), punta a nove milioni di vetture
e si piazza addirittura al primo posto
al mondo. E’ vero, il 2009 non si
presenta bene. Per la prima volta nella
sua storia è costretta a chiudere per
due settimane gli stabilimenti. Ma, in
fondo, così fan tutte. Quando Akio
Toyoda prende le redini, sa che lo attendono
tempi duri. E lui, onestamente,
lo ammette. “Dobbiamo affrontare
una crisi che si presenta una volta
ogni cento anni – dice presentandosi a
giornalisti e azionisti – Proverò a fare
cambiamenti senza rompere con il
passato”. Oggi non è più possibile. E
molti dubitano che sia in grado di imboccare
strade nuove.
Come ha influito la recessione? La
voglia di produrre e vendere a ogni
costo, ha spinto a mettere in secondo
piano la qualità. Forse. Anche la Mercedes
ebbe un incidente catastrofico
quando la nuova Classe A non superò
la “prova dell’alce”, essenziale per
garantire la stabilità (è un test che si
tiene in Svezia su una strada ghiacciata
simulando l’arrivo improvviso di
un grosso ostacolo). Ma quello era un
solo modello. Nel caso della Toyota
gli errori tecnici sembrano diffusi su
quasi tutta la gamma. In attesa di capire
che cosa non ha funzionato, si potrebbe
cominciare a trarre qualche
lezione.
C’è un economista giapponese noto
anche in occidente, uno che ha osato
sfidare Paul Krugman e la fede nel
potere salvifico degli incentivi pubblici.
Si chiama Keiichiro Kobayashi
e da tempo insiste: “Non sappiamo
imparare nulla dalle crisi, a cominciare
da quella del mio paese negli
anni Novanta”. Nella nostra arroganza
abbiamo pensato che fosse un episodio
grave, importante, ma locale ed
esotico. Provocato dall’ingordigia delle
banche nipponiche. Invece, la campana
suonava per tutti. Lo stesso accade
oggi. I governi hanno iniettato
anestetici nel sistema. Le imprese se
ne sono giovate (si pensi solo alla rottamazione)
per rinviare la ristrutturazione.
Adesso arriva la resa dei conti.
Il Leviatano ha steso i suoi tentacoli.
Quando dovrà ritirarli, ci troveremo
senza più protezioni. Nessuno può
dirsi al sicuro, nemmeno il primo della
classe. Il caso Toyota, dunque, fa
suonare un’altra campana che diventa
assordante per chi crede che tutto
possa ricominciare come prima. Il
Giappone è vicino e la sua favola parla
anche di noi.