Da quando il primo uomo ha telefonato a un altro chiedendogli: «Dove sei?», nulla è rimasto com’era. Ieri rispondere significava essere lì. Oggi dobbiamo esserci sempre. Dal cellulare all’iPad, ecco come ci siamo incatenati alla nostra libertà digitale
Metto le mani avanti: di gadgetistica io non capisco nulla, non ho niente contro chi la compra e ancor meno contro chi la produce. Per ragioni di lavoro possiedo due telefonini e quando mi arriva un messaggino credo che stiano suonando alla porta. Ho impiegato tre settimane a capire la differenza fra netbook e notebook: il notebook è il computer portatile talmente pesante da farti venire voglia di comprare un netbook; il netbook è il computer portatile con lo schermo talmente piccolo da farti rimpiangere i tempi in cui trascinavi il notebook (senza considerare il caso estremo di chi compra il netbook perché è più leggero del notebook e finisce per andare in giro con entrambi, come una bestia da soma informatizzata). Il mio è il lamento di chi a stento sa far funzionare un tostapane e vede il mondo correre in direzione contraria alla sua.
La notizia prima ancora che accada
La tecnologizzazione di massa è iniziata nel momento in cui qualcuno ha telefonato a qualcun altro chiedendogli: «Dove sei?». C’era una volta in cui se si rispondeva significava che si era lì, vicino al telefono; altrimenti qualcun altro si prendeva la briga di rispondere e spiegare: «Non c’è». Ora dobbiamo esserci tutti, non importa dove siamo. Non è più possibile fissare un appuntamento senza prima telefonarsi due volte, aggiornare in tempo reale il proprio avvicinamento al luogo pattuito, mandarsi sms del tipo: «Sono arrivato». «Anch’io». «Dove sei?». «Qui». «Aspetta che mi sposto». «Sto di fronte a te». «Non ti vedo». «Alza gli occhi dal display».
Poiché i bisogni fondamentali si esauriscono subito, è diventato necessario averne di superflui. Si va a comprare le sigarette con una quantità di aggeggi che parrebbe ridondante anche qualora ci si andasse a nascondere in un bunker antiatomico. Siamo tutti sicuri che riceveremo una telefonata importante nell’attimo in cui non potremmo rispondere e ci comportiamo di conseguenza, monitorando i nostri spostamenti e diventando secondini di noi stessi. Da quando chi non ci trova in casa ha un modo per rintracciarci altrove siamo tutti agli arresti domiciliari. Non contenti, abbiamo maturato la certezza che la storia del mondo cambierà proprio senza consentirci di esserne testimoni diretti, ergo ci affanniamo per ricevere su un dispositivo portatile le ultimissime notizie prima ancora che accadano. Abbiamo deciso che tutto ciò che fanno e pensano i nostri conoscenti ha lo stesso peso specifico di una dichiarazione di guerra nucleare, quindi abbiamo bisogno di essere connessi a facebook anche mentre siamo in metropolitana se no potremmo non apprendere in tempo reale che tizio è fan di Nick Japigia e caia è tanto innamorata del suo puccettino.
Il fascino delle scatole magiche
Ovunque ci giriamo vediamo schermi. Non che sia una novità; a inizio Ottocento alcuni precettori inglesi, esasperati da bambini che si rifiutavano di associare il nome corretto all’animale di cui vedevano l’immagine disegnata, ebbero l’idea di montare una scatola cubica e mostrare l’immagine nel quadrante anteriore; quando il bambino diceva il nome giusto, l’immagine veniva cambiata girando una manovella. I bambini iniziarono a imparare molto più volentieri dimostrando di preferire all’esperienza diretta la realtà mediata da una scatola, che all’epoca si chiamava Rudiment Box e oggi si chiama tv, computer, videofonino, iPad, Kindle, Blackberry…
Sarà per questo che davanti a una scatola torniamo tutti bambini. Se non che, essendo più sofisticati di duecento anni fa, non ci accontentiamo più di vedere un’anatra stilizzata e dire “anatra”. Ora abbiamo ben altre esigenze: vogliamo scaricare sull’iPhone l’applicazione Matrix per ricevere in tempo reale tutte le novità su Marco Materazzi, cioè – temo – nessuna. Vogliamo comprare il lettore automatico di libri, quale che sia il produttore, per fare i brillanti in spiaggia e guardare con superiorità i passatisti che detengono un volume di carta e si macerano i polpastrelli a furia di girare pagine. Vogliamo che i nostri figli piangano quando li mandiamo a giocare al parco perché preferiscono restare in casa a saltellare davanti all’applicazione della Wii che permette di fingere di star davvero giocando al parco. Vogliamo essere costretti a fare le capriole nel corridoio del treno per farci notare dalla passeggera di fronte, visto che costei ha invariabilmente le orecchie tappate dall’iPod e se ardissimo attaccare discorso non ci sentirebbe neanche.
Infine vogliamo avere tutto e tutti sempre a portata di mano. Il businessman ideale è colui che ha scaricato sul proprio smartphone le seguenti applicazioni: Bloomberg per essere continuamente aggiornato sugli indici di borsa; Linkedin per conoscere d’acchito il curriculum di chiunque gli si pari dinanzi; Jumsoft per appuntare tutti i propri minimi spostamenti di capitale; Jaadu per poter visualizzare lo schermo del computer dell’ufficio anche quando non è in ufficio; Roambi per partorire grafici tridimensionali soprattutto se non ce n’è bisogno; Invoice2go per – cito – «poter emettere una fattura ogni volta che hai un minuto libero»; Daylite per – cito ancora – «coordinare tutti i tuoi colleghi dovunque siano». Mancano un’applicazione per ricordarti come si chiama tua moglie e un’altra che ti spenga a mezzanotte e ti riaccenda alle sei del mattino. E magari un’ultima che si limiti a far scorrere sullo schermo una citazione da Jean-Jacques Rousseau: «Gli uomini furono felici di poter correre verso le proprie catene».