Nel frattempo, però, il paese cristiano che lo ha accolto e dal quale erano arrivati i missionari che avevano evangelizzato la sua gente si trasforma completamente: diventa uno strano luogo dove la compagnia aerea di bandiera permette a dipendenti islamici e sikh di indossare veli e turbanti ma licenzia una donna che si ostina a portare una piccola croce al collo; dove autorità locali puniscono un’infermiera cristiana per aver proposto a un malato di pregare; dove gli orfanotrofi cattolici sono obbligati a dare i bambini in adozione alle coppie di omosessuali e dove il governo vorrebbe imporre alle Chiese di assumere personale di convinzioni religiose e morali opposte alle loro.
Vede pure la Comunione anglicana trasformarsi in uno spazio dove ognuno fa quel che vuole. Per esempio nominare vescovi gay attivi e conviventi con un compagno. Vede le città della Gran Bretagna riempirsi di quartieri musulmani dove non è più possibile evangelizzare mentre nei paesi islamici la persecuzione contro i cristiani raggiunge nuovi vertici.
Il giovane vescovo, divenuto uomo maturo, si oppone all’andazzo e si dimette dall’episcopato per rispondere alle nuove sfide dei tempi. Per poter riparare la casa di Dio. Fonda un centro di formazione e di patrocinio dei cristiani oppressi, nel mondo ma anche nel Regno Unito (l’Oxford Centre for Training, Research, Advocacy and Dialogue). Molti anglicani cominciano a considerarlo il loro leader. È la storia di Michael Nazir-Ali, vescovo pakistano più inglese della maggioranza degli inglesi e più anglicano della maggioranza degli anglicani. Uomo dall’eloquio soffice che scaglia, composto, frecce appuntite.
Dottor Nazir-Ali, la crisi dell’identità britannica è un tema all’ordine del giorno, sul quale lei non si tira mai indietro. Quali sono le sue radici e quali i frutti più velenosi?
Le radici della crisi hanno a che fare con la perdita del discorso cristiano nello spazio pubblico, nelle istituzioni formative e nelle famiglie. Non c’è più una narrazione comune in base alla quale si sviluppa l’esistenza, è diventato estremamente difficile riconoscere un senso alla vita personale, alle politiche sociali, agli avvenimenti pubblici. Oggi ci si affida ai sondaggi per prendere decisioni di contenuto morale, conta solo quello che dice la maggioranza in un dato momento. E se l’opinione pubblica oppone resistenza a una certa proposta, si ripetono campagne mediatiche finché non cede. Lo stiamo vedendo con l’introduzione dell’eutanasia e del suicidio assistito. Tutto è cominciato negli anni Settanta, con l’efficace campagna contro la famiglia tradizionale. Quella, direi, è stata l’origine di tutto il resto.
Il numero di coloro che parlano di fallimento dell’opzione multiculturalista britannica è in costante crescita. Lei è stato uno dei primi a esprimere un simile punto di vista. Cosa è andato storto nell’esperimento?
Quando nel Regno Unito sono arrivate le prime ondate migratorie di diverso background culturale e religioso, si sarebbe dovuto dire: «Siamo un paese costituito dalla tradizione giudaico-cristiana, vi diamo il benvenuto su questa base». Avremmo dovuto esercitare l’ospitalità cristiana, invece abbiamo applicato una vuota tolleranza secolarista, all’insegna del «noi viviamo le nostre vite, voi vivete le vostre». Così le comunità degli immigrati si sono sviluppate separatamente, questo ha favorito il loro ripiegamento su stesse e il sorgere di forme di estremismo. In realtà non si può dire che il multiculturalismo è fallito: semplicemente, ha dato vita a società parallele, isolate fra loro; ha reso impossibile l’integrazione, che ha bisogno di una storia comune e valori condivisi, che in Gran Bretagna sono quelli cristiani.
Venti parlamentari di diversi partiti hanno firmato una dichiarazione intitolata “70 milioni sono troppi” per chiedere al governo di frenare l’immigrazione, perché metterebbe a repentaglio «la futura armonia della nostra società». Che ne pensa?
La Gran Bretagna è un’isola, per cui certamente non può accogliere un numero infinito di abitanti. Ma è anche una nazione che ha bisogno di manodopera qualificata e di mantenere la sua vocazione commerciale. Io credo che molto più importante del numero degli immigrati è la loro qualità: chi viene qui deve avere simpatia per il fondamento giudaico-cristiano della nostra società, deve essere disponibile ad adattarsi ad esso. Certamente deve poter dare anche il suo apporto originale, ma non in un vuoto.
Molti non credono sia più possibile restaurare la tradizionale identità britannica.
Dobbiamo far capire loro che senza il fondamento cristiano i valori più importanti della convivenza sociale sono in pericolo. Prendiamo la dignità inviolabile della persona e l’uguaglianza. Su cosa si fondano? Sulla rivelazione biblica che asserisce la comune origine di tutti gli esseri umani e la loro creazione da parte di Dio. Se togliamo questo, possono facilmente ricrearsi le condizioni che in passato hanno portato alla formulazione delle dottrine razziste, giustificate su presunti fondamenti scientifici, che tante tragedie hanno causato all’Europa. Del resto qualcosa di simile si ripete oggi con la manipolazione degli embrioni, per la quale non si riconoscono limiti. Non si accettano risposte morali alla questione, si pensa che siano suffcienti quelle scientifiche.
A proposito: lei è stato per sei anni presidente del comitato etico e giuridico della Human Fertilisation and Embryology Authority, che ha molti poteri in materia. Come spiega che le normative britanniche sono le più permissive d’Europa?
Se non hai una visione fondamentale della persona umana, ma insegui solo gli sviluppi tecno-scientifici, perché non dovresti essere permissivo? Nei primi tempi la fecondazione assistita mostrava uno speciale rispetto per l’embrione, ma man mano quel rispetto si è fatto sempre più precario e parziale. Oggi si producono ibridi uomo-animale, giustificandosi col dire che vengono subito distrutti.
[... supponiamo che manchi una parte del testo. NdR]
Ma cosa accadrà nel futuro, ora che è stata aperta anche questa porta?
L’islam radicale è diventato parte del panorama britannico, specialmente nella componente giovanile della comunità musulmana.
Come è potuto accadere?
L’islam radicale è parte del panorama mondiale, a partire dai molti paesi musulmani nei quali produce una tremenda instabilità politica e sociale. Quello che succede nel Regno Unito è riflesso di quello che succede nel mondo. Negli anni Sessanta il profilo dei musulmani britannici era pietistico-devozionale. Poi sono sorte le moschee deobandi, sono entrati nel paese imam radicali senza il filtro delle autorità, i giovani sono stati sottoposti a un certo tipo di formazione che oggi prosegue attraverso internet, e così sono sorti i gruppi radicali.
Si sarebbe potuto impedire la deriva con una più attenta politica di integrazione?
Il governo non ha avuto nessuna politica di integrazione fino a pochissimo tempo fa. La parola d’ordine era multiculturalismo, che ha significato lasciare la gente a se stessa. Non si è fatto nulla per far sì che la gente imparasse a vivere insieme. Ancora oggi ci sono autorità locali che favoriscono la nascita di quartieri interamente islamici e la trasformazione di certe scuole in istituti frequentati esclusivamente da musulmani.
La Camera dei Lord, di cui lei è membro, sta esaminando l’Equality Bill, una proposta di legge contro le discrimimazioni che vorrebbe togliere alle Chiese la libertà di assumere personale in sintonia con le loro convinzioni e valori. A che punto siamo?
Abbiamo emendato la proposta, che ora è più rispettosa della libertà di coscienza e dell’integrità delle istituzioni religiose, ma il governo potrebbe ripresentarla. Ciò pone una questione più ampia, che riguarda questo genere di provvedimenti: se il governo continuasse a legiferare senza rispettare la coscienza dei credenti, potrebbe crearsi una situazione in cui questi sono costretti ad obbedire a Dio piuttosto che a Cesare; bravi cittadini finirebbero per essere criminalizzati e altre cose indesiderabili potrebbero accadere. Io credo che il governo sia libero di produrre leggi a vantaggio della comunità omosessuale, ma nello stesso tempo dovrebbe rispettare la coscienza dei credenti.
Come definirebbe lo stato di salute della Chiesa d’Inghilterra?
Ci sono molte parrocchie fiorenti, ma indubbiamente risentiamo del fatto di essere coinvolti nei problemi della Comunione anglicana. Solidissima convinzione di tutti gli anglicani è che noi non crediamo nulla che non sia creduto anche dagli altri cristiani. Ora, quello che è successo negli Usa e in Canada e in alcune diocesi inglesi non ha nessuna relazione con la tradizione, e i nostri partner ecumenici ci chiedono spiegazioni. Per poter dire che la nostra salute è buona dovremmo risolvere questo problema, ma purtroppo non disponiamo di un meccanismo che ci permetta di risolvere problemi di livello internazionale come quelli presenti.
Qualche mese fa lei ha detto che due cose distruggono l’unità cristiana: il «persistente peccato sessuale senza pentimento» e il «persistente e sistematico insegnamento erroneo». Davvero queste cose sono accadute nella Comunione anglicana?
Sì, sono accadute. Che i peccati sessuali gravi portano a una rottura della comunione non lo dico io, ma Paolo nella prima Lettera ai Corinti. E in molti passaggi del Nuovo Testamento è sottolineato che a chi disturba la retta fede delle comunità non deve essere concesso accesso alle medesime né data opportunità di diffondere le proprie dottrine. Tutto ciò non ha per scopo la punizione dei peccatori, ma la creazione delle condizioni per le quali l’unità infranta potrà essere risanata. Nella Chiesa episcopaliana degli Stati Uniti non si afferma soltanto che l’omosessualità deve essere permessa, ma che è un dono di Dio, che attraverso la sua pratica si realizza il bene di alcune persone. Siamo tutti peccatori bisognosi della misericordia di Dio. Ma qui un falso insegnamento giustifica un persistente peccato sessuale, è una cosa ben diversa.
La Comunione anglicana si spaccherà definitivamente?
È già spaccata. Molte province anglicane hanno già dichiarato di non essere più in comunione con le Chiese di Usa e Canada. Io stesso non prenderò più la comunione in molte diocesi e chiese anglicane nel mondo.
Nel futuro aderirà alla Fellowship of Confessing Anglicans, che come lei non hanno partecipato all’ultima Conferenza di Lambeth? Oppure aderirà alla Chiesa cattolica? O resterà nella Chiesa d’Inghilterra?
La Fellowship of Confessing Anglicans non è un gruppo scissionista, ma un movimento di rinnovamento dell’anglicanesimo. Sono stato membro per molti anni dell’Arcic e il mio desiderio più grande è l’unità fra le Chiese anglicane e la Chiesa di Roma. La proposta di Benedetto XVI di un ordinariato per gli anglicani che aderiscono alla Chiesa cattolica romana è uno sviluppo molto importante, perché per la prima volta viene riconosciuto che c’è un patrimonio anglicano specifico da salvaguardare e che si può restare anglicani entrando nella Chiesa cattolica. La conservazione della liturgia e della realtà del clero sposato sono due punti molto importanti. Su altri aspetti ho delle riserve: la proposta è un po’ “presbiteriana”, perché l’ordinariato proposto non prevede il riconoscimento di vescovi; poi non è chiara la base dei “criteri oggettivi” in forza dei quali viene accolto il clero sposato, sembrano aggirare la questione del valore della tradizione anglicana di avere sacerdoti sia sposati che celibi; infine non è sufficentemente tutelata l’integrità dell’educazione teologica anglicana, il clero rischia di essere integralmente latinizzato come è accaduto a certe Chiese orientali riunificate a Roma.