di Christian Rocca
L’America è un grande paese, vitale,
dinamico, pragmatico, capace
di rimediare ai propri errori e di rinnovarsi
continuamente, ma è anche
un paese molto strano, bizzarro, mattoide.
Mad America. Il caso di Barack
Obama è emblematico di questo fenomeno
nazionale che non ha eguali al
mondo, se non in qualche finzione letteraria:
l’improvvisa e irrefrenabile
ascesa obamiana è stata infatti altrettanto
improvvisamente dimenticata e
oggi il presidente che soltanto quattordici
mesi fa è stato accolto come il
nuovo messia, come il profeta del nuovo
millennio, come il leader del riscatto
progressista globale è costretto
a gestire un inaspettato crollo di consensi
e di fiducia, ai confini del flop
politico. Non siamo ancora alla sindrome
da marziano a Roma di Ennio
Flaiano – “A’ marzia’, spostete” – ma
poco ci manca.
La cosa che colpisce, però, è un’altra.
L’establishment mediatico, culturale
e accademico americano ha costruito
per quasi due anni un’epica
formidabile intorno al personaggio,
alla biografia e all’epopea di Obama,
accompagnando ogni passo della sua
straordinaria traiettoria politica con
calore ed entusiasmo giustificatissimi,
ma a tratti anche imbarazzanti. I commentatori
più tosti del panorama televisivo
hanno ammesso di commuoversi
a ogni sua parola e di sentirsi tremare
le gambe ogni volta che lo ascoltavano
parlare, tanto era l’amore
profondo che provavano per il candidato
nero e per ciò che rappresentava.
Qualcuno lo paragonava esplicitamente
a Dio, altri a Superman. Obama
era il profeta, colui che le élite stavano
aspettando. La mistica obamiana
ha colpito chiunque abbia avuto a che
fare con l’uomo della provvidenza
americana. Un giornalista solitamente
duro con i politici di ogni credo, Chris
Matthews, è arrivato a confessare
che il suo compito professionale, dal
momento dell’elezione di Obama alla
Casa Bianca, è diventato quello di aiutare
il presidente ad avere successo e
ad attuare il suo programma.
Ma l’infatuazione pro Obama non è
stata soltanto un fenomeno irrazionale,
non è stata soltanto una caricatura
né una semplice parodia del giornalismo
di parte. I principali centri del
potere intellettuale del paese – le
grandi università e le grandi istituzioni
laiche, a cominciare dai giornali
della costa orientale – erano entusiaste
di Obama e in parte lo sono ancora
adesso nonostante la delusione crescente,
ma soprattutto non stavano
nella pelle per il fatto di poter contare,
per la prima volta, su un politico
che fosse uno di loro, un accademico,
un professore di diritto costituzionale,
un ex direttore della rivista di legge di
Harvard, un allievo della Columbia
University, un membro dell’élite. Così
lo hanno accudito, accompagnato, protetto
e gli hanno fornito uomini e idee
per realizzare un programma di governo
in realtà concepito assieme,
nelle stesse aule universitarie, con le
medesime parole d’ordine.
Ora però che le cose non vanno come
si era immaginato e sperato, che
l’economia non s’è ancora ripresa, che
i posti di lavoro continuano a mancare,
che i sondaggi sull’approvazione
dell’attività di governo sono in caduta
libera e che a ogni elezione vincono i
candidati repubblicani, quel medesimo
mondo intellettuale che ha sostenuto
il presidente-uno-di-loro inizia a
storcere il naso, a osservare con stupore
le difficoltà incontrate da Obama
e a puntare il dito contro le ricette
adottate dalla Casa Bianca, dimenticando
che sono state elaborate, suggerite,
quasi imposte, dallo stesso milieu
che ora le critica e si gira dall’altra
parte.
L’eccezione, chissà ancora per
quanto, è la pagina degli editoriali del
New York Times, anche se mercoledì
scorso sull’Iran ha titolato “il tempo è
scaduto”, a conferma che l’aria sta
cambiando anche lì. Una buona parte
degli intellettuali e dei commentatori
che un anno e mezzo fa esaltava le doti
politiche di Obama, la sua visione,
la sua lungimiranza tattica, ora esprime
un giudizio molto diverso, opposto,
a volte rumorosamente, altre in modo
più cauto, ma sempre più fermo.
Non è necessariamente un voltafaccia
o un tradimento e non è nemmeno
l’eterno e più mediterraneo abbandonare
la nave del perdente. Anzi è possibile
che questo palese cambiamento
di clima dimostri la pragmacità degli
americani, un popolo certamente
meno ideologizzato di noi europei, e
provi quanto il loro sistema politico
funzioni molto bene, perché sempre
capace di correggere autonomamente
il tiro. Eppure, per esempio sulla questione
iraniana, si nota nei confronti
di Obama anche una certa ambiguità
di una parte di quei circoli politici e
intellettuali di Washington e New
York che hanno elaborato la politica
della mano tesa al regime di Teheran
(e della chiusura agli oppositori democratici
dei despoti islamici) come
soluzione di buon senso, secondo loro,
alla strategia del regime change, del
cambiamento del regime iraniano, annunciata
dopo l’11 settembre e perseguita
saltuariamente da Bush nel corso
dei suoi due mandati. Ora che è evidente
ciò che negli ambienti bushiani
era chiarissimo da tempo – perlomeno
dai tentativi di apertura di Bill Clinton
–, cioè che il regime degli ayatollah
iraniani ha rifiutato l’offerta di
dialogo e addirittura accelerato la
corsa al nucleare, ecco che dal cerchio
culturale di Obama, dallo stesso
gruppo di persone che per anni ha
pianificato la dottrina del dialogo poi
diligentemente attuata dalla Casa
Bianca, arrivano le prese di distanza,
le critiche, le richieste di cambiamento
di linea.
Il primo è stato Richard Haass, il
presidente del Council on Foreign Relations,
il salotto buono della politica
estera americana. Da allievo di Brent
Scowcroft, il teorico del “grande patto”
con Teheran, Haass è stato a lungo
sul punto di entrare nell’Amministrazione
Obama proprio grazie alle sue
posizioni favorevoli al dialogo con i
mullah di Teheran. Ora Haass ha cambiato
idea e riconosce pubblicamente
che i famigerati neoconservatori, i
suoi avversari ideologici e gli architetti
della risposta americana agli attacchi
islamisti dell’11 settembre, su
questo punto avevano ragione: “Ho
cambiato idea – ha scritto su Newsweek
– I colloqui nucleari non vanno
da nessuna parte. Gli iraniani sembrano
intenzionati a sviluppare i mezzi
per produrre un’arma nucleare,
non c’è altra spiegazione alla struttura
segreta per l’arricchimento dell’uranio
scoperta vicino alla città santa
di Qom”. Obama abbandonato così,
senza nemmeno il preavviso.
Il troppo è troppo, ha ammesso
Haass con una frase curiosamente
usata anche dall’editoriale del Times
di mercoledì che ha chiesto a Obama
di passare, ora, alle sanzioni contro l’Iran.
Ma è poco, quasi niente, rispetto
a quanto è costretto a subire il povero
Obama in questi giorni. Non tanto le
critiche incrociate dei conservatori alla
Dick Cheney che lo accusano di
aver ceduto ai jihadisti e quelle della
sinistra progressista che ritiene stia
continuando la politica antiterrorismo
di Bush e Cheney. Sono piuttosto le riflessioni
strategiche delle élite che lo
hanno celebrato ed eletto a mandare
in cortocircuito il sistema politico.
Un “policy paper” del prestigioso
Washington Institute for Near East
Policy, per esempio, ha raccolto i risultati
di tre accurate analisi sulla politica
iraniana di Obama studiate da
altrettanti importanti centri di pensiero
liberal, la Brooking Institution
di Washington, l’Università di Harvard
e di Tel Aviv. Questi tre think
tank hanno condotto tre diversi “war
game”, simulazioni di scenari di guerra
tra America e Israele da una parte
e l’Iran dall’altra. Tutti e tre gli studi,
spiega il paper del Washington Institute,
sono arrivati alla conclusione
che la politica obamiana porterà alla
sconfitta di America e Israele e alla
vittoria iraniana. Non c’è bisogno di
essere analisti di un centro studi importante
o luminari di Harvard per
concordare con l’esito delle tre ricerche.
La politica obamiana della mano
tesa non soltanto non ha convinto gli
iraniani a fermare la corsa al nucleare,
ma non ha nemmeno facilitato la
cooperazione della comunità internazionale
sulle sanzioni, che era il paracadute,
il piano B della strategia
del presidente. Oggi, esattamente come
ai tempi di Bush, la Russia e soprattutto
la Cina sono contrarie all’imposizione
di sanzioni Onu nei confronti
del regime iraniano e non sembra
che le aperture obamiane siano
riuscite a convincerle a cambiare
idea. I rapporti sono peggiorati rispetto
ai tempi di Bush, specie con la
Cina, per non parlare di quelli con
Israele.
Il paper del Washington Institute
conclude l’analisi suggerendo alla Casa
Bianca di giocare le sue carte in
modo differente nei prossimi mesi, se
vuole davvero evitare il disastro. Il
punto, però, è che Obama sull’Iran
non ha fatto altro che seguire le indicazioni
fornite dagli stessi che ora gli
chiedono di cambiare direzione. “Il
tempo è scaduto”, ha comicamente titolato
il New York Times, il giornale
che più di ogni altro in questi mesi ha
spiegato alla comunità internazionale
che invece c’era tutto il tempo necessario
a intavolare una trattativa con
gli iraniani e poi ha suggerito a Obama
di mostrare agli ayatollah il volto
amichevole dell’America, perché convinto
che il magnetico sguardo del
presidente avrebbe commosso i rivoluzionari
islamici esattamente come
ha infranto il cuore dell’editorial
board del giornale di Manhattan.
Obama si deve difendere anche da
fan delusi che prima lo hanno idolatrato,
rifiutando di ascoltare le cose
che effettivamente proponeva in campagna
elettorale, ma che ora lo accusano
di essersi venduto al miglior offerente.
Se si vogliono vedere i contorni
di questa Mad America è sufficiente
sintonizzarsi sulla Msnbc e
ascoltare i conduttori televisivi di sinistra
come Keith Olbermann e Rachel
Maddow. Ogni sera, a denti stretti,
sostengono che la politica estera e
di sicurezza nazionale di Obama è
molto simile a quella di Bush, trascurano
il fatto che in campagna elettorale
il candidato Obama aveva annunciato
sia l’escalation militare in
Afghanistan sia l’estensione delle
operazioni belliche al Pakistan. Assieme
ai delusi della tv, ci sono anche
i registi-militanti Michael Moore e
Oliver Stone, la rivista The Nation, il
super blog Huffington Post. Il mensile
musicale Rolling Stone nell’anno
passato ha dedicato numerose copertine
al candidato Obama, come e più
di una rock star. Una di queste copertine,
in particolare, era disegnata al
modo dei grandi murales che a
Pyongyang ritraggono il dittatore
nordcoreano Kim Jong Il. Pochi mesi
dopo aver rispolverato quell’iconografia
tipica del realismo comunista,
Rolling Stone ha iniziato ad accusare
Obama di essersi venduto ai poteri
forti di Wall Street.
Il cortocircuito su Obama ha preso
anche altre forme più sottili, meno
chiassose, ma forse ancora più bizzarre.
Il fenomeno della Mad America,
dell’America un po’ fuori di testa che
prima esalta Obama e poi lo snobba,
ha mostrato tutta la sua potenza nell’ultima
moda tra quei commentatori
liberal molto delusi, ma ancora innamorati
del presidente e incapaci di
accusare apertamente l’oggetto dei loro
desideri politici. Intanto non si capisce
bene perché siano delusi dopo
così poco tempo, come se la colpa di
Obama fosse quella di non aver moltiplicato
i pani e i pesci. La spiegazione
che loro stessi avanzano è una versione
americana dell’adagio popolare
piove-governo-ladro, cambiato in piove-
elettori-ladri. La colpa è degli elettori,
dei cittadini americani, della democrazia.
Gli americani, secondo questa
tesi che trova consensi su importanti
e autorevoli organi di stampa liberal,
da Slate al New York Magazine,
dall’Atlantic al New York Times, sarebbero
scemi, ignoranti, incapaci di
intendere e di volere, nonostante in
fondo siano gli stessi americani che
quattordici mesi fa hanno regalato al
paese un risultato “storico”, l’elezione
di Obama, capace di far piangere di
gioia tutto il mondo.
C’è anche chi, pur di non accusare
direttamente Obama, se la prende con
le secolari istituzioni di Washington,
ritenute responsabili della débâcle
sulla sanità. La bibbia della sinistra
più ortodossa, The Nation, raccoglie
firme per istituire una specie di Bicamerale
per le riforme con il compito
di cambiare le istituzioni che in America
funzionano perfettamente da oltre
duecento anni. Sul Washington Post
si è letto di una proposta per cambiare
il sistema elettorale del Senato,
in modo da rappresentare alla camera
alta del Congresso non più gli stati
dell’Unione in modo paritario (due senatori
per ogni stato), ma le varie classi
sociali e razziali che compongono
l’America. Dare la colpa al sistema è
di tendenza anche di qua dell’Oceano,
non solo in Italia, ma anche in Gran
Bretagna dove i laburisti prossimi alla
sconfitta provano a dare la colpa
del loro fallimento al tradizionale sistema
elettorale uninominale e maggioritario
e vogliono far adottare al
Regno Unito il complicato sistema australiano
che consente all’elettore di
votare non soltanto un candidato ma
anche il secondo in ordine di preferenza.
Accusare gli elettori per giustificare
gli inciampi e le difficoltà politiche
è ancora più fantasioso, specie se l’accusa
colpisce le stesse persone che
meno di un anno e mezzo fa sono state
lodate per la lungimiranza, la modernità
e il carattere progressista del
loro voto. Jacob Weisberg su Slate e
Kurt Andersen sul New York Magazine
hanno scritto che la democrazia
americana è diventata troppo democratica,
perché il sistema politico dà
troppo ascolto ai Tea Party e, in genere,
a tutti gli oppositori del loro caro
leader. Se le cose in questa America
un po’ fuori di testa non vanno bene,
dunque, non è colpa di Obama, ma dei
suoi oppositori così sfacciati dal voler
sfruttare le opportunità offerte dalla
democrazia per promuovere impunemente
idee diverse da quelle radiose
del presidente e dei suoi adoranti sostenitori.
Il Foglio 12 febbraio 2010