Quante ambiguità attorno alla drammatica morte di Eluana
di Francesco D’agostino
Tratto da Avvenire del 10 febbraio 2010
A un anno dalla morte di Eluana, il signor Englaro torna a spiegarci le ragioni fondamentali della sua «battaglia».
Non è stata, primariamente, la pietà a muoverlo, ma la convinzione che ad Eluana fosse negato un diritto civile fondamentale, quello di disporre della propria vita. È per questo, egli ci spiega, che ancora oggi tante persone lo fermano per salutarlo, stringergli la mano e «ringraziarlo»: egli avrebbe, in buona sostanza, aiutato gli italiani a dilatare l’orizzonte delle loro libertà civili.
Da parte mia, e lo dico col massimo rispetto per il signor Englaro e per le sue sofferenze di padre, non trovo che egli si meriti alcun «ringraziamento». Penso, anzi, che il vero effetto della sua lunga battaglia sia stato quello di aver contribuito ad incrinare il corretto uso di un principio, quello di «autonomia», che è prezioso sul piano dell’esperienza politica, culturale e religiosa, ma rischioso sul piano bioetico. Il punto è che l’autonomia, come ogni altro diritto, non può non avere limiti; non può cioè trasformarsi in una pretesa insindacabile.
Questa però era l’intenzione che ha mosso il signor Englaro: che, in questioni estreme, letteralmente di vita e di morte, si adottasse il riferimento alla volontà dei malati come il criterio regolativo fondamentale per il trattamento da riservare loro. Ma siamo certi di poter sempre accertare, senza ombra di dubbio, quale sia la volontà dei malati? Siamo certi che le indicazioni che Eluana avrebbe lasciato e che sono state ricostruite, anni e anni dopo, attraverso testimonianze (problematiche, come in genere tutte le testimonianze), manifestassero davvero la sua volontà o non piuttosto alcune sue presunte 'preferenze'? Chi ha letto i fatti che Avvenire ha pazientemente verificato riguardo questa dolorosa vicenda arriva a conclusioni diverse.
E poi, brutta parola, «preferenze». Perché non parlare di «volontà»? Perché la parola «volontà», particolarmente se riferita a questioni di vita e di morte, è estremamente pesante e va usata con rispetto e circospezione. «Volontà» implica piena consapevolezza, adeguata informazione, assunzione di responsabilità, capacità di motivare le scelte che si vogliono porre in essere: altrimenti essa, per dir così, si degrada in altro da sé, per l’appunto in «preferenze» o, per usare il termine prediletto da Kant, in un mero «arbitrio». È per questo che utilizzare in bioetica la categoria della volontà è altamente rischioso: perché è pressoché impossibile valutarne l’autenticità. I medici sono sempre stati consapevoli che la malattia, le emozioni, le ansie, le paure, l’età avanzata, la situazione sociale e familiare del paziente alterano di norma la sua volontà e lo inducono spesso a rivolgere a chi li cura richieste ingenue, illusorie, insensate, futili, sproporzionate, illegali, obiettivamente dannose. Richieste che il medico deve saper filtrare e alle quali spesso deve dire di no, non per mancare di rispetto alla volontà del malato, ma perché in quelle richieste non si manifesta la volontà, ma l’arbitrio. La prova è data da quanto sia facile far abbandonare ai malati, ancorché terminali, propositi eutanasici, quando si attiva con loro un rapporto autentico e caldo, quando non li si abbandona alla disperazione, quando li si convince che non resteranno soli nella lotta contro la malattia. Per questo, nella insuperata tradizione della medicina ippocratica, il primo e fondamentale principio non è il rispetto astratto e formale della volontà del malato, ma l’impegno umano e concreto per curarlo e, se possibile, guarirlo.
Poteva essere guarita Eluana? Probabilmente no, ma la scienza non era e non è tuttora in grado di escluderlo del tutto. Poteva essere curata? Certamente sì; è stata curata fino alla fine, e in modo ammirevole, dalle suore di Lecco. Averla fatta morire eutanasicamente, (cioè con asserita «dolcezza»!), è stato un modo di rispettarne la volontà autentica e profonda o non piuttosto un modo di assecondare formalisticamente alcune sue dichiarazioni, probabilmente «arbitrarie» (per la maniera in cui furono formulate, per quella in cui sono state ricostruite, per l’emotività che comunque le avrebbe contrassegnate, per la stessa età che aveva Eluana, quando le avrebbe formulate)? È evidente che il signor Englaro dà a queste domande una risposta molto diversa da quella che qui sto ipotizzando. Ma è a mio avviso ancor più evidente che in questioni estreme, come quelle di cui stiamo parlando, cioè di vita e di morte, il solo porre tali questioni (e spero che nessuno voglia negare che porre queste domande sia legittimo) dovrebbe metterci tutti in allarme.
Chi si rallegra per la conclusione della vicenda Englaro, pensando che attraverso di essa si sia dilatata la tutela dei diritti umani fondamentali, dovrebbe riflettere seriamente se in realtà non si sia ottenuta piuttosto la legalizzazione di una forma, particolarmente tragica, di abbandono terapeutico.