DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Papa Francesco: "Giocare con la vita è un peccato contro Dio creatore"


Buongiorno!

Vi ringrazio della presenza e anche per l’augurio: il Signore mi conceda vita e salute! Ma questo dipende anche dai medici, che aiutino il Signore! In particolare, voglio salutare l’Assistente ecclesiastico, Mons. Edoardo Menichelli, il Cardinale Tettamanzi, che è stato il vostro primo assistente, e anche un pensiero al Cardinale Fiorenzo Angelini, che per decenni ha seguito la vita dell’Associazione e che è tanto ammalato ed è stato ricoverato in questi giorni, no? come pure ringrazio il Presidente, anche per quel bell’augurio, grazie.

Non c’è dubbio che, ai nostri giorni, a motivo dei progressi scientifici e tecnici, sono notevolmente aumentate le possibilità di guarigione fisica; e tuttavia, per alcuni aspetti sembra diminuire la capacità di "prendersi cura" della persona, soprattutto quando è sofferente, fragile e indifesa. In effetti, le conquiste della scienza e della medicina possono contribuire al miglioramento della vita umana nella misura in cui non si allontanano dalla radice etica di tali discipline. Per questa ragione, voi medici cattolici vi impegnate a vivere la vostra professione come una missione umana e spirituale, come un vero e proprio apostolato laicale.

L’attenzione alla vita umana, particolarmente a quella maggiormente in difficoltà, cioè all’ammalato, all’anziano, al bambino, coinvolge profondamente la missione della Chiesa. Essa si sente chiamata anche a partecipare al dibattito che ha per oggetto la vita umana, presentando la propria proposta fondata sul Vangelo. Da molte parti, la qualità della vita è legata prevalentemente alle possibilità economiche, al "benessere", alla bellezza e al godimento della vita fisica, dimenticando altre dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza. In realtà, alla luce della fede e della retta ragione, la vita umana è sempre sacra e sempre "di qualità". 

Non esiste una vita umana più sacra di un’altra: ogni vita umana è sacra! Come non c’è una vita umana qualitativamente più significativa di un’altra, solo in virtù di mezzi, diritti, opportunità economiche e sociali maggiori.

Questo è ciò che voi, medici cattolici, cercate di affermare, prima di tutto con il vostro stile professionale. La vostra opera vuole testimoniare con la parola e con l’esempio che la vita umana è sempre sacra, valida ed inviolabile, e come tale va amata, difesa e curata. Questa vostra professionalità, arricchita con lo spirito di fede, è un motivo in più per collaborare con quanti – anche a partire da differenti prospettive religiose o di pensiero – riconoscono la dignità della persona umana quale criterio della loro attività. Infatti, se il giuramento di Ippocrate vi impegna ad essere sempre servitori della vita, il Vangelo vi spinge oltre: ad amarla sempre e comunque, soprattutto quando necessita di particolari attenzioni e cure. Così hanno fatto i componenti della vostra Associazione nel corso di settant’anni di benemerita attività. Vi esorto a proseguire con umiltà e fiducia su questa strada, sforzandovi di perseguire le vostre finalità statutarie che recepiscono l’insegnamento del Magistero della Chiesa nel campo medico-morale.

Il pensiero dominante propone a volte una "falsa compassione": quella che ritiene sia un aiuto alla donna favorire l’aborto, un atto di dignità procurare l’eutanasia, una conquista scientifica "produrre" un figlio considerato come un diritto invece di accoglierlo come dono; o usare vite umane come cavie di laboratorio per salvarne presumibilmente altre. 

La compassione evangelica invece è quella che accompagna nel momento del bisogno, cioè quella del Buon Samaritano, che "vede", "ha compassione", si avvicina e offre aiuto concreto (cfr Lc 10,33). La vostra missione di medici vi mette a quotidiano contatto con tante forme di sofferenza: vi incoraggio a farvene carico come "buoni samaritani", avendo cura in modo particolare degli anziani, degli infermi e dei disabili. La fedeltà al Vangelo della vita e al rispetto di essa come dono di Dio, a volte richiede scelte coraggiose e controcorrente che, in particolari circostanze, possono giungere all’obiezione di coscienza. E a tante conseguenze sociali che tale fedeltà comporta. 

Noi stiamo vivendo un tempo di sperimentazioni con la vita. Ma uno sperimentare male. Fare figli invece di accoglierli come dono, come ho detto. Giocare con la vita. Siate attenti, perché questo è un peccato contro il Creatore: contro Dio Creatore, che ha creato le cose così. Quando tante volte nella mia vita di sacerdote ho sentito obiezioni. "Ma, dimmi, perché la Chiesa si oppone all’aborto, per esempio? E’ un problema religioso?" – "No, no. Non è un problema religioso" – "E’ un problema filosofico?" – "No, non è un problema filosofico". E’ un problema scientifico, perché lì c’è una vita umana e non è lecito fare fuori una vita umana per risolvere un problema. "Ma no, il pensiero moderno…" – "Ma, senti, nel pensiero antico e nel pensiero moderno, la parola uccidere significa lo stesso!". Lo stesso vale per l’eutanasia: tutti sappiamo che con tanti anziani, in questa cultura dello scarto, si fa questa eutanasia nascosta. Ma, anche c’è l’altra. E questo è dire a Dio: "No, la fine della vita la faccio io, come io voglio". Peccato contro Dio Creatore. Pensate bene a questo.

Vi auguro che i settant’anni di vita della vostra Associazione stimolino un ulteriore cammino di crescita e di maturazione. Possiate collaborare in modo costruttivo con tutte le persone e le istituzioni che con voi condividono l’amore alla vita e si adoperano per servirla nella sua dignità, sacralità e inviolabilità. San Camillo de Lellis, nel suggerire il metodo più efficace nella cura dell’ammalato, diceva semplicemente: «Mettete più cuore in quelle mani». Mettete più cuore in quelle mani. È questo anche il mio auspicio. La Vergine Santa, la Salus infirmorum, sostenga i propositi con i quali intendete proseguire la vostra azione. Vi chiedo per favore di pregare per me e di cuore vi benedico. Grazie.


L’eutanasia fa paura? Basta cambiarle nome

di Tommaso Scandroglio
N
ell’editoriale datato 29 marzo e apparso sulla rivista scientifica
Canadian Medical Association Journal , Ken Flegel e Paul C.
Hébert affermano che la parola «eutanasia» non significa più nulla di preciso. Alcuni la intendono come un modo di uccidere un’altra persona, per altri è invece un atto di misericordia e compassione. A leggere l’articolo pare che, per i due medici in questione, eutanasia sia solo quella attiva, cioè un’azione positiva che mira alla soppressione di un soggetto malato.
Quella omissiva è derubricata addirittura ad «appropriata misura palliativa». Infatti il rifiuto di alimentazione e idratazione, della ventilazione artificiale e delle pratiche di rianimazione, a detta dei due ricercatori, rappresenta solo un atto che lenisce il dolore del paziente. Questo è certo, dato che poi il paziente muore.
editoriale è emblematico perché mette in evidenza una strategia molto usata dal fronte
pro- choice, favorevole ad aborto ed eutanasia: cambiare il senso delle parole per cambiare la percezione della realtà. Non diciamo «omicidio del consenziente» o «aiuto al suicidio»: tutti comprenderebbero di che cosa si tratta e rifiuterebbero simili pratiche. Occorre trovare un’altra parola che suoni suadente e che celi dentro di sé la terribile realtà cui si riferisce. Il termine «eutanasia» non va più bene perché ormai molti l’associano all’omicidio. Allora da una parte occorre collegare «eutanasia» solo a quelle azioni che direttamente e attivamente procurano la morte di una persona (vedi iniezione letale). E dall’altra trovare una diversa espressione per indicare la morte di una persona a seguito di omissioni di cure già in atto o di mezzi di sostentamento vitale (acqua e cibo).
L’

Piergiorgio Welby nel suo libro Lasciatemi morire scrive che «dobbiamo arrenderci all’evidenza, la parola 'eutanasia' non piace, anzi, stimola sentimenti di ripulsa». E allora propone «biodignità, ecomorire, finescosciente». Tali termini non hanno avuto alcuna fortuna, ma altre espressioni sì: dignità del morire, diritto a morire, lasciar morire, autodeterminazione nel fine vita. Tutti maquillage per nascondere un fatto brutale: l’uccisione di un essere umano, consenziente o meno, da parte di un altro.

I
canadesi Flegel e Hébert mettono sul tavolo un’altra interessante questione: è eutanasia la somministrazione di un narcotico che allevia le sofferenze del malato ma che può provocarne la morte? Per
rispondere dobbiamo fare ricorso al principio del duplice effetto che riguarda quegli atti in grado di produrre due effetti: uno positivo (come la diminuzione del dolore) e uno negativo (ad esempio, la morte del paziente). Affinché la somministrazione di un antidolorifico che può avere effetti letali sia lecita dal punto di vista morale e quindi non configuri un atto eutanasico occorre rispettare tutte le seguenti condizioni.
1. Stato di necessità: non ci devono essere altre soluzioni percorribili. Se esistesse un altro farmaco capace di sedare il dolore e privo di effetti letali, allora si dovrebbe usare quel preparato.
2. L’atto deve essere in sé moralmente buono o neutro: provocare la diminuzione del dolore è atto lecito. 3. Non si deve ricercare l’effetto malvagio direttamente, ma lo si deve sopportare come effetto non voluto. Non somministro oppiacei al fine di far morire il paziente, ma con l’intenzione di farlo soffrire di meno, tollerando l’effetto negativo della sua morte come conseguenza collaterale non ricercata. 4. L’effetto malvagio non deve essere ricercato nemmeno come mezzo, come effetto intermedio per provocare l’effetto buono.
Sbaglierebbe chi somministrasse morfina per far morire il paziente al fine di non farlo soffrire più (la morte come strumento di eliminazione del dolore).
5.
Ci deve essere una proporzione tra effetto buono e effetto cattivo. La sedazione con effetto letale è praticabile solo quando il paziente è in fase terminale: il vedersi accorciato un tempo di vita che è già di per sé risicato è bilanciato dal guadagno avuto nel soffrire meno. Se manca una sola di queste condizioni è eutanasia.
La rivista ufficiale dei medici canadesi dice basta con l’uso di un termine sul quale grava una percezione popolare troppo negativa. E teorizza che se si vuole far accettare la morte provocata di un paziente basta spostare il significato dei concetti Un 'trucco' che va conosciuto e smascherato



Anche in Italia la «neo-lingua» di fine vita


di
Assuntina Morresi argomenti

M
entre il confronto parla­mentare
sulla legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento – il testo Calabrò sulle Dat – continua a ruotare soprattutto intorno a idratazione e alimentazione artificiale, e alla vincolatività delle Dat per i medici, il dibattito pubblico sul fine vita si sta sviluppando attorno a un uso nuovo di vecchie parole insieme a nuove espressioni che ben descrivono il cambiamento culturale in corso.
« M

orte medicalmente assistita», ad esempio, è una frase entrata da tempo nel lessico degli addetti ai lavori: è pure il titolo di un libro edito dalla Cambridge University Press dello scorso anno, a cura di Robert Young, filosofo dell’Università di Melbourne, Australia. La tesi centrale è che ci sono buoni motivi per legalizzare il suicidio assistito e l’eutanasia volontaria, mentre quella non volontaria non sarebbe giustificabile. Gran parte del testo tratta i problemi di tipo giuridico e morale che sorgono quando chi chiede di morire vuole essere aiutato da un dottore: da qui

Se una vita è solo «biologica», allora è incompiuta, inconsapevole: una non-vita, insomma. E «interromperla» suona meno gravoso che «uccidere», sia pure per pietà.
Anche da noi il cambio di paradigma passa dal vocabolario

il titolo del libro. La fine della vita, se avviene su richiesta e anche confortata dall’assistenza medica, suona meno minacciosa rispetto all’idea di eutanasia o di suicidio, sinonimi di morti solitarie, accompagnate spesso solo da grandi sofferenze fisiche e psicologiche: avere un medico accanto che 'assiste' quando si vuole farla finita è indubbiamente più rassicurante. E se la morte è 'medicalmente assistita', ci si può ragionevolmente aspettare che sia un servizio accessibile nell’ambito dell’organizzazione sanitaria.

A
nche la contrapposizione fra «vita biologica» e «vita biografica» è stata ampiamente utilizzata: ne parla, fra gli
altri, Giorgio Cosmacini, nel suo


Una Messa a Parigi per Lejeune
Una Messa per ricordare Jerome Lejeu­ne a sedici anni dalla morte. La liturgia verrà celebrata il 6 aprile nella basilica di Saint-Clotilde a Parigi da monsignor Pierre d’Ornellas, arcivescovo di Rennes e presidente del gruppo di lavoro dell’e­piscopato francese sulla bioetica. Lejue­ne, genetista, è stato il primo presiden­te della Pontificia Accademia per la vita.
Testamento biologico , da poco edito da Il Mulino. In mezzo ad argomentazioni confuse e pagine assai discutibili, (come quella in cui scrive che «si può affermare però che tale stato 'vegetativo' o 'botanico' non è umano o non è sufficiente per l’esistenza di una persona»), l’autore spiega la differenza fra la mera sopravvivenza dell’organismo – la vita biologica, appunto – e la vita biografica della persona, quella legata cioè alle esperienze consapevoli del vissuto, «una vita da narrare». Con queste premesse, quelle di Welby ed Eluana sono definite vite biografiche «impedite» da patologie senza speranza: il rispetto e la pietas per chi si trova in queste condizioni – secondo Cosmacini – suggerirebbe di interrompere la loro vita biologica. In altre parole: se una vita è solo «biologica», allora è incompiuta, inconsapevole, una non-vita, insomma, e interromperla suona meno gravoso che «uccidere», o anche «sottoporre a eutanasia» una persona, sia pure per pietà.

M
a se cambiare il linguaggio per rendere lecito l’inaccettabile è un vecchio trucco, tipico dei regimi totalitari, cancellare completamente dal vocabolario le parole scomode è una provocazione da non sottovalutare: nell’ultimo numero del
Canadian Medical Association Journal , un editoriale propone di non usare più la parola «eutanasia» (ne riferiamo in questa stessa pagina): «I medici possono smettere di usare la parola eutanasia per descrivere le azioni da intraprendere per aiutare i pazienti a morire, e anche smettere di usare termini carichi di valore come morire di fame e uccidere per spiegare quelle azioni mediche».
Insomma, se il fine ultimo di tante battaglie, che portano altri nomi, è proprio la legalizzazione dell’eutanasia, ma se questa parola è troppo ingombrante e poco digeribile dall’opinione pubblica, allora uccidiamo l’eutanasia – o meglio, diamole la dolce morte, come suggerisce l’editoriale – e il problema è risolto.



© Copyright Avvenire 1 aprile 2010

Spagna. «Morte degna», il varco

Il nome ufficiale è «Legge dei diritti e delle garanzie della dignità delle persone nel processo di morte», ma in Spagna è stata subito ribattezzata come legge della «morte degna». Molti temono che in realtà sia solo il primo passo verso la regolarizzazione dell’eutanasia.
L’Andalusia ha bruciato i tempi e da ieri – con l’approvazione della nuova norma – è diventata la prima comunità autonoma spagnola con una legislazione ad hoc che sancisce i diritti del paziente in fase terminale e fissa gli obblighi dei medici e del personale sanitario. La nuova legge andalusa proibisce l’accanimento terapeutico, regola la limitazione degli interventi medici e permette al malato di rifiutare un trattamento che potrebbe prolungare la sua vita in modo 'artificiale'. Il paziente potrà inoltre fare richiesta di sedativi per fermare il dolore, anche se questo rischia di accelerare la morte.

N
onostante le prevedibili polemiche e i dubbi che genera fra il personale sanitario, il testo non contiene alcun regolamento a proposito dell’obiezione di coscienza di medici e infermieri.
La legge è regionale (ovvero legata allo statuto autonomo dell’Andalusia), eppure i socialisti andalusi – promotori del testo – sono convinti che l’obiezione di coscienza sia una competenza del governo centrale. Su questo punto e su altri due aspetti si sono opposti i parlamentari andalusi del Partito popolare (centrodestra), ma al di là di tre articoli specifici l’intera Camera – da destra a
sinistra – ha votato a favore della legge.
Particolarmente soddisfatti i rappresentanti di
Izquierda Unida (sinistra), che hanno invitato il governo centrale di José Luis Rodriguez Zapatero a «legiferare ed essere coraggioso nel campo dell’eutanasia e del suicidio assistito». Un lapsus o una più esplicita lettura della legge? I difensori della norma hanno sempre rifiutato la parola 'eutanasia' (in Spagna, a oggi, proibita), assicurando che non è questa la finalità della norma. Perché, allora, Izquierda Unida parla apertamente di 'eutanasia'? «Non si desidera né si può legiferare su questi temi» ha tagliato corto la socialista Rosa Rios.

E
ppure c’è chi pensa che la norma sia la sala d’aspetto per future e radicali riforme. «In questa legge sono stati mescolati punti ambigui e molto conflittuali, come la limitazione dello sforzo terapeutico, che lascia aperta la porta all’eutanasia» commenta Federico Die, presidente del Forum andaluso della famiglia. Nel testo – ha ammesso Die – ci sono aspetti positivi come «l’assistenza medica palliativa al malato e l’assistenza ai suoi familiari». Ma «provoca grande inquietudine il fatto che i professionisti della medicina non possano esercitare il diritto costituzionale all’obiezione di coscienza». Allarmata anche la piattaforma civica Hazte Oir (Fatti Sentire, promotrice della recente manifestazione pro-vita a Madrid), secondo la quale il rischio è che un familiare o il medico di un paziente terminale incosciente possano decidere «se amministrare una dose letale di sedativo per non prolungare l’agonia». Hazte Oir denuncia inoltre che anche i minorenni – a 16 anni – potranno optare per una «sedazione terminale, senza comunicarlo ai genitori». L’Andalusia ha fatto il passo per prima. Altre comunità autonome spagnole potrebbero ora seguirne l’esempio.


© Copyright Avvenire 18 marzo 2010

Mons. Fisichella: “Sull’eutanasia basta ritardi, subito una legge”. Intervista di Andrea Tornielli

Il presidente della Pontificia accademia per la vita, monsignor Rino Fisichella: "Sbagliato dire che su questo tema non servono regole". Alimentazione: "Dare cibo e acqua a un malato è un dovere"
di Andrea Tornielli
Tratto da Il Giornale del 22 febbraio 2010

«Sento spesso dire: sul fine vita meglio nessuna legge piuttosto che una brutta legge. Ma io guardo a una terza possibilità: quella di una buona legge che il Parlamento non può esonerarsi dall’elaborare senza ulteriori e inspiegabili ritardi». Il vescovo Rino Fisichella, Presidente della Pontificia accademia per la vita, rettore della Lateranense nonché cappellano della Camera dei deputati, interviene nel dibattito sul fine vita ospitato dalle pagine del Giornale e di fronte all’emergere di casi emblematici che colpiscono l’opinione pubblica chiede di «non lasciare troppo spazio al sentimentalismo o al pietismo».

In alcuni Paesi occidentali la «dolce morte» sembra diventato un diritto. Perché?
«Dobbiamo fare i conti con una cultura sempre più diffusa che tende a legalizzare il suicidio assistito e che pesa sulla formazione delle giovani generazioni. Stiamo andando sempre più verso un pendio scivoloso di cui è difficile prevedere le gravi conseguenze. In gioco c’è una visione antropologica che viene a scontrarsi con quanto abbiamo sempre pensato dell’uomo e della vita negli ultimi tremila anni. Presumere di sbarazzarsi in fretta di questa tradizione non è certo segno di civiltà né di cultura. È piuttosto una forma di improvvisazione superficiale che mina alla base il concetto stesso di dignità di vita umana».

Non crede che quello del fine vita sia un tema delicato dove non tutto può essere ridotto a commi di legge?
«Nei momenti che rasentano la morte ci sono spazi difficilmente circoscrivibili con la determinazione e chiarezza razionale, ma proprio in forza di questa componente del mistero della vita umana sarebbe più utile non lasciare troppo spazio al sentimentalismo o al pietismo con la conseguenza di portare dentro di sé in seguito il rimorso per non aver fatto la cosa giusta. Chi, alla fine, proprio nei momenti della decisione estrema può avanzare la certezza di aver fatto la cosa giusta dando la morte e confondendo questo atto come un gesto di amore? Da sempre l’amore vuole la vita non la morte».

C’è chi risponde: a certe condizioni la vita non è più vita…
«Comprendo che questo confine è difficile da delineare, ma se si lascia cadere il principio che l’amore vuole la vita, allora non resta più nulla di intangibile. Dal punto di vista giuridico, non esiste un principio di autodeterminazione nei confronti della vita come tale. Nessuna legge né Corte costituzionale potrebbe avventarsi in questo sentiero. Dal punto di vista etico è fondamentale che la barra rimanga fissa sul rispetto per la dignità della persona, soprattutto quando questa è in una situazione di maggior debolezza come gli ultimi momenti della vita. La dignità però ha un valore oggettivo che vale per tutti, senza discriminazioni e non si può pensare che sia sottoposta alla visione soggettiva di ognuno. Non credo ad esempio che sia rispettosa della dignità della persona la condizione di tanti diseredati, senza casa, senza cibo, presenti in tutte le grandi città, eppure spero che nessuno ritenga che debbano essere soppressi...».

E allora perché una legge? Per codificare che cosa?
«Ciò che si codifica, in coerenza con la Costituzione, è il principio di autodeterminazione per la cura che viene proposta».

Idratare e alimentare una persona in coma vegetativo non significa, in fondo, curarla?
«La comunità scientifica, ma prima di tutto il buon senso, esclude che idratazione e alimentazione possano essere considerati una cura o una terapia, nonostante gli strumenti adottati per fornirle».

Che cosa pensa dell’emendamento alla legge sul fine vita, che aggiunge la possibilità di sospendere idratazione e alimentazione solo in «casi eccezionali»?
«E chi stabilisce quali siano questi casi eccezionali? Dare acqua e cibo a un malato non è una cura, ma un dovere. Diverso è il caso del paziente in fase terminale, le cui condizioni devono essere seguite con particolare competenza evitando l’accanimento».

La Chiesa dice no all’eutanasia, ma anche no all’accanimento terapeutico. Perché?
«La scienza deve fare di tutto per vincere la malattia e il dolore, pur sapendo che alla fine ci si dovrà arrendere alla inevitabilità della morte. In questi anni sono stati fatti passi da gigante in questo senso, rimettere indietro le lancette dell’orologio è impossibile. Ciò che il medico può fare è avere la certezza morale di avere fatto tutto quello che era in suo potere per salvare una vita. Dopo di questo, anche lui si deve arrendere ed evitare, con la sua insistenza, di recare più danno e più dolore al paziente».

In questi giorni è stato detto: meglio nessuna legge che una brutta legge. Che cosa ne pensa?
«Non comprendo fino in fondo questa posizione. Senza una legge che superi la giurisprudenza messa in moto dalla Corte, i duemila casi presenti in Italia e quelli che potrebbero verificarsi sono sotto la scure dell’eutanasia, e Dio ce ne liberi. Io guardo alla terza ipotesi, quella di una buona legge che il Parlamento non può esonerarsi dall’elaborare senza ulteriori e inspiegabili ritardi dopo che è già stata approvata dal Senato. È auspicabile che, messe tra parentesi le differenze, si giunga a uno sforzo comune in modo da porre tutti i cittadini davanti a una legge condivisa e partecipata. In gioco c’è la concezione stessa della vita che sarà presente nei giovani tra vent’anni. Il Parlamento non può scrollarsi di dosso questa responsabilità senza venir meno a una delle sue prerogative più qualificanti».

Ammetterà che su una materia così delicata restano delle zone grigie.
«È vero, ci sono zone grigie, dove la presenza della legge potrebbe apparire un’intrusione. La stessa definizione di accanimento terapeutico non è così scontata e con essa molte altre... Ma quale sarebbe l’alternativa? Non vedo che la coscienza. Ma questa non può essere offuscata dal sentimento, dal dolore o dal pietismo. Deve essere, al contrario, proprio in questo momento, perfettamente vigile e con riferimenti certi di giudizio, primo fra tutti l’inevitabilità della morte, il coraggio di doverla affrontare e darle senso e possibilmente tenendo la mano di una persona che ti ama».

Fine vita - Non bastano i neuroni a spiegare quella domanda che abita nella nostra testa

di Costantino Esposito
Tratto da Il Sussidiario.net il 15 febbraio 2010

Nel dibattito filosofico attuale la coscienza resta per molti ancora un “mistero”, perché ancora inesplicabile risulta essere il rapporto causale tra i meccanismi e le funzioni del nostro cervello e l’esperienza che il nostro io fa di sé stesso come un soggetto cosciente.

Come si può spiegare l’emergere da una realtà di tipo fisico e oggettivo (più specificamente neurobiologico) di un fenomeno squisitamente soggettivo, quale è il nostro esser-coscienti, in prima persona, di noi stessi e del mondo? Si tratta di un semplice rapporto di causa-effetto, e quindi di una connessione spiegabile esaurientemente sul piano naturalistico, al pari di ogni altro fenomeno fisico-organico (quali il metabolismo o la riproduzione)? Oppure resta uno iato, una differenza incolmabile tra il piano fisico o cerebrale e quello psichico o mentale?

Senza addentrarci nell’intricata suddivisione delle posizioni in campo, possiamo dire tuttavia che in entrambe queste alternative la coscienza è un mistero in senso sostanzialmente negativo, e cioè indica o l’impossibilità di rendere conto di una realtà inesplicabile (come nei cosiddetti “dualisti”, che tengono ferma la separazione tra le due realtà, quella fisica e quella mentale) oppure, molto più frequentemente, indica la nostra attuale ignoranza su certi processi della causalità fisica, che almeno in linea di principio si deve pensare verrà un giorno colmata grazie allo sviluppo sempre più sofisticato delle nostre tecniche di indagine della natura. In altri termini, il mistero indicherebbe solo un residuo ancora oscuro, il cui destino è quello però di assottigliarsi sempre di più.

Come ha scritto di recente un filosofo della mente, John Searle, «il mistero della coscienza verrà progressivamente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscienza. Il mistero non costituisce un ostacolo metafisico ad una comprensione del funzionamento del cervello; il senso di mistero deriva piuttosto dal fatto che, attualmente, non soltanto non sappiamo come esso funziona, ma non abbiamo nemmeno un’idea chiara di come il cervello potrebbe funzionare per causare la coscienza. Non comprendiamo neppure come sia possibile una cosa simile. Ma ci siamo trovati in una situazione analoga anche in passato» (Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998, p. 166).

Naturale, dunque, che la questione venga riaccesa dalle ultime rilevazioni da parte di un’equipe anglo-belga di neuroscienziati, e pubblicate sul «New England Journal of Medecine», riguardo a un’attività cerebrale che continuerebbe ad essere esercitata anche in persone che si trovano in uno stato vegetativo persistente, in risposta a determinati stimoli elettromagnetici.

Ma prima ancora di tutte le inevitabili ricadute che tale rilevazione avrà sulle discussioni bioetiche riguardo alla soglia tra la vita e la morte e al valore della coscienza individuale, essa fa sorgere nuovamente una domanda, e cioè che cosa veramente accade - per esperienza diretta - quando la nostra attività cerebrale, nel corso del suo stesso funzionamento neurobiologico, sempre sollecitata da stimoli esterni e interni, giunge a consapevolezza di sé.

La nostra mente non solo funziona, ma sa di funzionare; non solo risulta essere un effetto di determinate cause neurobiologiche, ma conosce, giudica e valuta questa sua attività. Non si tratta semplicemente di rivendicare “qualcosa” di irriducibile al funzionamento meccanico del nostro cervello, ma di rendersi conto che dentro a questo meccanismo si rende presente qualcosa di inesplicabile e che possiamo chiamare il “soggetto” del meccanismo stesso.

Una volta Agostino d’Ippona - forse il pensatore più “moderno” di tutti i moderni - ha scritto che la mente umana quando giunge a consapevolezza di sé, e cioè quando arriva a porre la domanda sul perché della propria stessa esistenza o sul senso ultimo della propria vita, si imbatte in un abisso - «abyssus humanae conscientiae» (Confessioni, libro X, 2. 2) - nel quale l’io scopre di avere in sé la traccia di qualcosa di altro da sé. E non è un caso che Agostino chiami questo abisso della coscienza umana con il nome di “memoria”, che è come una “caverna” profondissima o uno “scrigno” dalla capacità quasi infinita, in cui sono custodite tutte le esperienze, le conoscenze, le immagini, i sentimenti che abbiamo provato nel corso della nostra vita, e di cui non sempre abbiamo coscienza, ma che continuano a riaffiorare dietro l’impulso di stimoli, occasioni e associazioni esterne.

È nella sua memoria, cioè nell’esercizio concreto e naturale della mente, che l’io si ritrova per così dire addosso quella domanda sul perché, ma anche la risposta a tale domanda: ciò per cui siamo fatti è la felicità, ed è il desiderio di essere felici che ci fa capire la stoffa della nostra coscienza. Ma non una felicità qualsiasi, aggiunge Agostino, identificata con questa o con quell’altra soddisfazione naturalistica, ma con una felicità vera, con quella gioia o quel gusto della verità («gaudium de veritate»: libro X, 23. 33) che non è altro che il riconoscimento amoroso di ciò per cui vale la pena vivere.

Senza il riferimento, in noi, a qualcosa che - secondo il meccanismo naturale - sarebbe semplicemente impossibile a noi, non si spiegherebbe quel desiderio e quella evidenza della nostra coscienza. In tal modo la coscienza scopre in sé un “mistero”, inteso stavolta non in senso meramente negativo (cioè dovuto soltanto ai limiti della nostra conoscenza), ma in senso “positivo”, starei per dire razionale, quello che indica che noi siamo strutturalmente in rapporto con il motivo per cui stiamo al mondo – e quindi la nostra coscienza non implica solo la funzione, ma anche la ragione del nostro meccanismo naturale, ossia il suo fine.

Il mistero della coscienza di cui parla la filosofia contemporanea della mente può essere così inteso come la coscienza del mistero, che non manca mai di sorprenderci, come l’aspetto più interessante nella natura della nostra mente. È solo alla luce di questa scoperta di un mistero reale nella nostra coscienza che diviene infine sorprendente quella traccia di risposta che si leva dal silenzio “vegetativo” di una mente che sembrava definitivamente addormentata, se non persa a se stessa e al mondo. Non è solo qualcosa che va “oltre” il meccanismo naturale, ma è il suo centro invisibile, il principio operativo di ogni coscienza.

Mai più il rispetto di una presunta volontà diventi «abbandono terapeutico»

Quante ambiguità attorno alla drammatica morte di Eluana
di Francesco D’agostino
Tratto da Avvenire del 10 febbraio 2010

A un anno dalla morte di Eluana, il signor Englaro torna a spiegarci le ragioni fondamentali della sua «battaglia».

Non è stata, primariamente, la pietà a muoverlo, ma la convinzione che ad Eluana fosse negato un diritto civile fondamentale, quello di disporre della propria vita. È per questo, egli ci spiega, che ancora oggi tante persone lo fermano per salutarlo, stringergli la mano e «ringraziarlo»: egli avrebbe, in buona sostanza, aiutato gli italiani a dilatare l’orizzonte delle loro libertà civili.

Da parte mia, e lo dico col massimo rispetto per il signor Englaro e per le sue sofferenze di padre, non trovo che egli si meriti alcun «ringraziamento». Penso, anzi, che il vero effetto della sua lunga battaglia sia stato quello di aver contribuito ad incrinare il corretto uso di un principio, quello di «autonomia», che è prezioso sul piano dell’esperienza politica, culturale e religiosa, ma rischioso sul piano bioetico. Il punto è che l’autonomia, come ogni altro diritto, non può non avere limiti; non può cioè trasformarsi in una pretesa insindacabile.

Questa però era l’intenzione che ha mosso il signor Englaro: che, in questioni estreme, letteralmente di vita e di morte, si adottasse il riferimento alla volontà dei malati come il criterio regolativo fondamentale per il trattamento da riservare loro. Ma siamo certi di poter sempre accertare, senza ombra di dubbio, quale sia la volontà dei malati? Siamo certi che le indicazioni che Eluana avrebbe lasciato e che sono state ricostruite, anni e anni dopo, attraverso testimonianze (problematiche, come in genere tutte le testimonianze), manifestassero davvero la sua volontà o non piuttosto alcune sue presunte 'preferenze'? Chi ha letto i fatti che Avvenire ha pazientemente verificato riguardo questa dolorosa vicenda arriva a conclusioni diverse.

E poi, brutta parola, «preferenze». Perché non parlare di «volontà»? Perché la parola «volontà», particolarmente se riferita a questioni di vita e di morte, è estremamente pesante e va usata con rispetto e circospezione. «Volontà» implica piena consapevolezza, adeguata informazione, assunzione di responsabilità, capacità di motivare le scelte che si vogliono porre in essere: altrimenti essa, per dir così, si degrada in altro da sé, per l’appunto in «preferenze» o, per usare il termine prediletto da Kant, in un mero «arbitrio». È per questo che utilizzare in bioetica la categoria della volontà è altamente rischioso: perché è pressoché impossibile valutarne l’autenticità. I medici sono sempre stati consapevoli che la malattia, le emozioni, le ansie, le paure, l’età avanzata, la situazione sociale e familiare del paziente alterano di norma la sua volontà e lo inducono spesso a rivolgere a chi li cura richieste ingenue, illusorie, insensate, futili, sproporzionate, illegali, obiettivamente dannose. Richieste che il medico deve saper filtrare e alle quali spesso deve dire di no, non per mancare di rispetto alla volontà del malato, ma perché in quelle richieste non si manifesta la volontà, ma l’arbitrio. La prova è data da quanto sia facile far abbandonare ai malati, ancorché terminali, propositi eutanasici, quando si attiva con loro un rapporto autentico e caldo, quando non li si abbandona alla disperazione, quando li si convince che non resteranno soli nella lotta contro la malattia. Per questo, nella insuperata tradizione della medicina ippocratica, il primo e fondamentale principio non è il rispetto astratto e formale della volontà del malato, ma l’impegno umano e concreto per curarlo e, se possibile, guarirlo.

Poteva essere guarita Eluana? Probabilmente no, ma la scienza non era e non è tuttora in grado di escluderlo del tutto. Poteva essere curata? Certamente sì; è stata curata fino alla fine, e in modo ammirevole, dalle suore di Lecco. Averla fatta morire eutanasicamente, (cioè con asserita «dolcezza»!), è stato un modo di rispettarne la volontà autentica e profonda o non piuttosto un modo di assecondare formalisticamente alcune sue dichiarazioni, probabilmente «arbitrarie» (per la maniera in cui furono formulate, per quella in cui sono state ricostruite, per l’emotività che comunque le avrebbe contrassegnate, per la stessa età che aveva Eluana, quando le avrebbe formulate)? È evidente che il signor Englaro dà a queste domande una risposta molto diversa da quella che qui sto ipotizzando. Ma è a mio avviso ancor più evidente che in questioni estreme, come quelle di cui stiamo parlando, cioè di vita e di morte, il solo porre tali questioni (e spero che nessuno voglia negare che porre queste domande sia legittimo) dovrebbe metterci tutti in allarme.

Chi si rallegra per la conclusione della vicenda Englaro, pensando che attraverso di essa si sia dilatata la tutela dei diritti umani fondamentali, dovrebbe riflettere seriamente se in realtà non si sia ottenuta piuttosto la legalizzazione di una forma, particolarmente tragica, di abbandono terapeutico.

Eluana Englaro: il medico che la visitò dice che lo stato vegetativo è vita, e non è questione di fede

INT. a Giuliano Dolce - Il Sussidiario
mercoledì 10 febbraio 2010

«Ci può essere un protocollo su come guarire una polmonite, ma non su come far morire. Eluana è morta soffrendo. Se non ha sofferto era molto sedata e qui i limiti con una eutanasia si confondono». Questo è il giudizio del professor
GIULIANO DOLCE, il medico che nel gennaio del 2008 visitò Eluana Englaro. Riscontrando una serie infinita di contraddizioni in tutta la vicenda che ne decretò la morte per sentenza. Nonostante fosse palese che Eluana fosse viva e che persistesse in lei una «coscienza sommersa». Il professore racconta la sua esperienza e le sue impressioni a ilsussidiario.net

Professor Dolce, ieri ricorreva un anno dalla morte di Eluana Englaro. Cosa ricorda?

Ebbi la possibilità di visitarla. La storia di Eluana è nota; ed è noto che il suo non è stato soltanto una caso clinico. Già poche ore dopo l’incidente il padre si scontrò col primario di rianimazione, perché non voleva che fosse intubata. Naturalmente il primario non poté acconsentire ad una richiesta simile. Da allora Englaro iniziò la sua famosa «battaglia» che si concluse con la tumulazione della figlia.

Lei visitò Eluana con il consenso del padre e trovò che era capace di deglutire. È così?

Esatto. Io ero convinto che Eluana non fosse in stato vegetativo, che di per sé è molto raro. Chiesi al padre il permesso di visitarla, lui me lo concesse e andai a Lecco a visitare Eluana. La trovai in ottime condizioni generali, però era effettivamente in stato vegetativo, anche dopo 17 anni. Ebbi un colloquio con la suora che la accudiva e che le era molto affezionata: mi disse che erano anni che cercava un contatto con lei, ma la ragazza non aveva dato il minimo segno di reazione. Eluana era alimentata e idratata con un sondino naso gastrico. Nei primi anni la madre la alimentava per bocca, ma poi diradò le visite e fu posizionato un sondino. Io però notai che deglutiva ancora la saliva: a volte questi malati lo fanno, a volte no.

Questo che cosa poteva cambiare?

È un elemento che incontra il problema della sentenza. Cosa disse la Cassazione? Che per autorizzare l’interruzione dell’alimentazione la condizione di stato vegetativo della paziente avrebbe dovuto essere giudicata clinicamente come irreversibile. Premessa: non si può dare una prova scientifica certa che un paziente non possa risvegliarsi anche dopo lunghissimo tempo. Infatti è accaduto. La sentenza milanese parlava poi di «stato vegetativo permanente». Ma questa espressione è sbagliata altrimenti chi definisce lo stato permanente si arroga il diritto di decretare una prognosi irreversibile e infatti la logica era che siccome Eluana non dava segni di reversibilità cognitiva, si poteva - anzi si «doveva» - farla morire.

Il punto?

Questa condizione irrevocabilmente «permanente» andava verificata ma questo non è stato fatto. Io la visitai in mezz’ora, solo per accertare lo stato vegetativo, ma occorreva che un collegio di tre esperti accertasse lo stato irreversibile. Quando Eluana venne portata a Udine scrissi una lettera al direttore sanitario della clinica dicendo che l’avevo visitata e che avevo riscontrato la deglutizione. E che bisognava fare un esame speciale per capire se la deglutizione naturale era conservata al punto tale da poter mantenere in vita Eluana alimentandola per bocca. Questo perché il tribunale di Milano aveva autorizzato solo la sospensione dell’alimentazione artificiale, ma non fu fatto nulla. Lei mi chiede il punto, ma il punto non è ancora questo.

Si riferisce alla contraddittorietà della sentenza?

Sì. Qui ci si divide tra chi è d’accordo con il fare l’abbandono attivo e chi non è d’accordo, ma resta il fatto che nessun medico al mondo fa qualcosa che produce direttamente la morte del malato. Invece la sentenza autorizzava il tutore a sospendere ogni cura, comprese alimentazione e idratazione, prescrivendo al contempo che non bisognasse far soffrire Eluana, somministrandole le sostanze adatte a eliminare i dolori. Ma Eluana non era malata, era in uno stato di grave disabilità e nella condizione di non potersi alimentare da sola. Alimentazione e idratazione non erano e non sono una terapia, ma ciò di cui una persona in stato vegetativo ha bisogno per vivere, esattamente come accade per noi.

Crede che i suoi colleghi non si siano comportati in modo deontologicamente corretto?

Non lo hanno fatto perché un medico non può adoperarsi per far morire una persona. Sapevano infatti che senza mangiare e senza bere sarebbe morta. Non è ammissibile che in un paese civile come l’Italia una persona venga lasciata morire di sete. Io, medico, per eseguire la sentenza di un tribunale faccio una tortura! Per evitare le sofferenze somministro sedativi e, quindi, «curo» contravvenendo così il dispositivo della sentenza stessa del tribunale. Non ci si può rifugiare in un «protocollo». Ci può essere un protocollo su come guarire una polmonite, ma non su come far morire. Eluana è morta soffrendo. Se non ha sofferto era molto sedata e qui i limiti con una eutanasia si confondono. I pazienti in stato vegetativo, è dimostrato scientificamente, provano dolore.

Tutto quello che lei ha detto finora si basa sul presupposto che lo stato vegetativo sia una vita in senso proprio.

È una vita che non ci manda segnali visibili, e che potremmo ritenere imperscrutabile e da qui - erroneamente - inesistente. Al contrario, è vita vera. Gli studi di Owen e di Laurys, facendo ricorso ad esperimenti molto avanzati, hanno dimostrato che una piccola percentuale di pazienti in stato vegetativo risponde sì-no a stimoli fatti di domande elementari.

Questo dimostra che la coscienza è viva e operante?

Viva e operante no. Piuttosto questi esperimenti dimostrano che c’è attività di coscienza anche in assenza di consapevolezza. Noi stessi nel nostro centro di Crotone (Istituto Sant’Anna, ndr) siamo pervenuti agli stessi risultati ma con altri approcci. Abbiamo verificato che il cervello emette i correlati fisici delle emozioni. È quello che abbiamo chiamato l’«effetto mamma».

In cosa consiste?

Le mamme solitamente affermano che i loro figli le sentono e le capiscono mentre un esterno non vede nulla. Una serie di esperimenti ci hanno dimostrato che quando una madre parla al malato egli effettivamente risponde con riflessi psicogalvanici come quelli che fanno funzionare una macchina della verità. La «misura» delle emozioni è possibile valutarla con il calcolo della variabilità del ritmo cardiaco. Ma se a parlare è un estraneo questi riflessi non ci sono. Tutto questo dice che durante lo stato vegetativo il malato è escluso dal mondo esterno, ma non lo è altrettanto dal mondo interno. C’è un mondo interno che «non si spegne».

La vita in stato vegetativo ha una sua dignità?

Sì. Ho davanti una persona che non esprime volontà di coscienza chiara - si chiama «coscienza sommersa» - ma non è un corpo abbandonato, perché il suo cervello oltre ad essere vivo, lavora. Dorme, sta sveglio, si emoziona. Su cento pazienti in stato vegetativo solo sette rimangono nello stato di Eluana. Gli altri si svegliano, chi dopo uno, due, tre anni. Una percentuale rilevante (80 per cento)di pazienti in stato vegetativo da trauma cranico riprendono l’attività di coscienza. Conosco casi di persone che guidano l’autobus, fanno il tassista, vanno a scuola, sono laureati, sposati, si sono dimenticati di aver avuto questa malattia.

Secondo lei Eluana Englaro è morta invano?

Il mio timore è che non si sia capito che lo stato vegetativo non è di destra o di sinistra. Vorrei invece che fosse la misura della civiltà del nostro popolo. Alla domanda: si può vivere in questo modo?, tutti direbbero di no, ma la loro è vita e non possiamo abbandonarli. Esaurita la fase cronica le cure cessano e il malato è guarito. Può aver perso delle funzionalità e avere disabilità gravi, ma è un disabile, non un ammalato. Non chiede niente e ha bisogno di tutto. Me ne devo fare carico. E mantenerlo fin che muore per vie naturali.

Lei non ne fa dunque una questione di fede.

Non c’entra niente la fede. C’entra che da persona civile accudisco un’altra persona che non può farlo da sé. Costa allo stato cento euro al giorno o 200mila euro l’anno? Si tratterà di fare un uso più razionale delle risorse. Quelle stesse risorse con le quali magari lo stato compra tre elicotteri che costano cinque volte di più. Se uno invece di essere come Eluana è un disoccupato o un emarginato, un «ramo secco» della società, facciamo fuori anche lui? Eluana ha occupato con clamore le cronache nazionali, ma io conosco tremila persone in Italia che accudiscono un familiare in stato vegetativo. Nessuno si lamenta ed i familiari li accudiscono con amore e mi dicono che è meglio avere la loro compagnia che andare al cimitero a portare i fiori.

C’è dibattito sul testamento biologico. Cosa direbbe ai politici?

Uno vuole rinunciare alle cure? Noi medici non lo curiamo. Ma in una situazione di emergenza, in cui non si sa quello che la persona vorrà fare, non la si può lasciar morire. Sappiamo che tutti i testamenti possono essere cambiati da chi fa testamento in un qualsiasi momento. Ma una persona in stato vegetativo non lo può fare. Ecco perché potrà morire per malattia, ma non deve morire per sete.

Quando Eluana chiamò «mamma» L’invocazione due anni dopo l’incidente Il racconto, dettagliato, nella documentazione clinica dell’ospedale di Sondrio

DI LUCIA BELLASPIGA E PINO CIOCIOLA
O
spedale di Sondrio, Divisione di Lun­godegenza, ore 4 del mattino del 15 ottobre 1993. Eluana è in stato vege­tativo 'permanente' – come si diceva allora – da quasi due anni. Nella sua stanza succe­de qualcosa: «La paziente ha cominciato a la­mentarsi facendo versi...», si legge nella 'Do­cumentazione clinica' che la riguarda (e rac­conta i 17 anni dall’incidente alla morte). Non è un’eccezione che Eluana emetta suoni, so­spiri, gemiti, le accade da due anni e lo farà per altri 15, fino al giorno prima della morte a 'La Quiete' di Udine. Ma quella notte non si placa, forse appare più agitata del solito, forse ha accanto un’infermiera più attenta, forse lì con lei è rimasta sua madre, non lo sappiamo. Fatto sta che Eluana continua a 'lamentarsi', come volesse dire qualcosa, e chi è lì la incoraggia, porge l’orecchio a quei 'versi', finché – è scritto nella cartella clinica – «stimolata a dire la parola 'mamma' è riu­scita a dirla due volte, in modo comprensibi­le ». Sono passati quasi due anni dall’inciden­te d’auto che prima l’ha condotta in fin di vi­ta e poi sprofondata nello stato vegetativo, ma Eluana chiama mamma Saturna, evoca l’im­magine cui ci si rivolge nel bisogno.
Nei due anni di ricovero a Sondrio mamma Saturna la raggiunge quotidianamente da Lecco, pur di restarle accanto e continuare a spiare in lei quei segnali che solo un genitore può cogliere, il movimento di un dito, un so­spiro più lungo... Messaggi spediti dal profon­do di una coscienza nascosta, da sottolinea­re con trepidazione al medico di turno: «La madre riferisce, nel pomeriggio, la comparsa di movimenti spontanei di estensione del go­mito sinistro», era scritto qualche pagina pri­ma. Ogni genitore resta sempre in attesa, scru­ta ed ascolta, aspetta una risposta che maga­ri arriverà tra vent’anni, stimola, chiama, ac­carezza, spera. Così Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della ma­dre », ad esempio «flessione dorsale dei piedi, flessione esterna delle ginocchia». Poi quel­l’invocazione due volte ripetuta, e chissà co­me avrà rimbalzato sul cuore di Saturna do­po anni di silenzi: «Mamma, mamma».
Ha viaggiato molto, Eluana, nei 17 anni di 'sonno', di ospedale in ospedale, per brevi ricoveri, esami, riabilitazioni, e ogni volta – si legge – «nessun problema durante il trasferi­mento ». È tranquilla, non necessiterebbe nemmeno di farmaci antiepilettici, nessuna crisi, mai. Il penultimo viaggio importante è quello che la porta a Lecco, dalle suore Mise­ricordine, dove la famiglia chiede che sia o­spitata perché è là che Saturna l’aveva parto­rita il 25 novembre del 1970, e là ora avrebbe potuto continuare ad assisterla, a due passi da casa. La speranza non muore, specie se i me­dici a Sondrio hanno scritto che «a tratti fissa e sembra contattabile», o che «se adeguata­mente stimolata esegue ordini semplici», non un mignolo mosso, non un colpo di palpebra ma addirittura «la apertura e chiusura della mano sinistra»...
Fantasie di una madre che vede ciò che vuo­le vedere? No, osservazioni di medici e in­fermieri: «...Emetteva qualche vocalizzo, fis­sava e cercava di incrociare lo sguardo del­l’interlocutore ». «Messa prona con appog­gio sui gomiti accettava la posizione», anche se poi «non riusciva a raddrizzare il capo». « Sembra muovere le dita dei piedi su co­mando... ». Alla fine, «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo».
La speranza non muore, ma ce ne vuole dav­vero tanta, e Saturna si ammala di dolore, le loro strade si separano. Eluana è curata nella casa di cura delle Misericordine fino alla not­te tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, quan­do il padre la fa trasferire a 'La Quiete' di U­dine, dove dovrà morire (un ricovero ufficial­mente finalizzato al suo «recupero funziona­le » e «alla promozione sociale dell’assistita»). E durante il viaggio questa volta Eluana si di­batte,
fino a espellere il sondino.

Avvenirre 9 febbraio 2010

Liegi, dove si trova la vita anche nei «vegetativi»

DAL NOSTRO INVIATO A LIEGI
VIVIANA DALOISO

C
hilometri di fili, scrivanie som­merse di cartelle cliniche, i ri­cercatori che studiano accam­pati nei corridoi, perché manca lo spazio, ma c’è così tanto da fare: il Centro Cyclotron dell’Università di Liegi è, a oggi, l’unico posto al mon­do in cui le domande sullo stato ve­getativo trovano una risposta.
Non è la risposta del cuore, o della fe­de, o dell’etica: quelle sembrano non bastare a chi ragiona in termini di 'e­videnze' sulla vita umana.
A Liegi la risposta è quella oggettiva della scienza, e a piantartela davanti agli occhi è un fisico nucleare che del­l’etica potrebbe persino infischiarse­ne. Non fosse per quella videata in cui un cervello comincia a colorarsi, a da­re segnali di coscienza e attività là do­ve era impossibile persino sognarle. Non fosse che il cervello appartiene a un malato in stato vegetativo da 5 an­ni – la giovane vittima di un inciden­te stradale, per essere precisi – in un Paese come il Belgio, dove l’eutanasia è pratica legale già da tempo.
Da qualche mese è lui il protagonista indiscusso del laboratorio di Steven Laureys e lo è anche della ricerca ap­pena pubblicata sul
New England Journal of Medicine, che tanto ha fat­to scalpore sui giornali e in tv. Perché questo 'vegetale', considerato privo di ogni traccia di coscienza e perce­zione di sé, incapace di seguire gli og­getti con gli occhi e inchiodato a un letto senza via di scampo, senza bat­tito di ciglio, può comunicare. Può di­re sì o no, se qualcuno gli chiede con­ferma del suo nome. Può spostarsi, mentalmente, e allo stesso modo per­sino giocare a tennis. Pensare che a vederlo dal vetro dell’o- spedale, Alan (lo chiameremo così, per questioni di privacy), è un caso disperato. Proprio come Rom Hou­ben, l’uomo che ha commosso il mondo raccontando i suoi sedici an­ni di urla nella gabbia dello stato ve­getativo, e che oggi è a Liegi, per una visita di controllo. Lo vedi coricato nello scanner, coi suoi movimenti in­consulti, senti la voce della dottores­sa Audrey che gli dice «relax», attra­verso il microfono: nella stanza ci so­no sei medici, fuori altrettanti prati­canti e ricercatori, ed è incredibile, perché al centro di questo consesso i­perspecializzato, al cuore di tanta at­tenzione e del dibattito che si innesca davanti alle immagi­ni della risonanza magnetica, c’è quel­la che per alcuni è so­lo una vita spezzata, inutile, un fantasma d’essere umano. Non qui. 'Miracoli' di Liegi, li chiamano: in realtà non c’è alcun prodigio in corso, se non quello di vedere la vita – e non smet­tere di cercarla – là dove sembrereb­be aver vinto la morte. Il Cyclotron non è l’Enterprise, non siamo nello 'spazio profondo': il pa­lazzo grigio è un po’ scalcinato, un punti­no sulla collina uni­versitaria di Liegi, e la struttura è pubblica, finanziata nei tempi e nei modi noti an­che in Italia, efficaci magari, ma lenti. Ci sono i macchinari che troveresti in qualsiasi altro ospe­dale o centro di ri­cerca: la Pet (la tomografia a emissio­ne di positroni), la Rmnf (la risonan­za magnetica nucleare funzionale). Ci sono gli specialisti che preparerebbe ogni università: neurologi, psicologi, fisici, chimici. Eppure qui c’è una ri­voluzione in corso, che attira le mae­stranze intellettuali di mezzo piane­ta e non accenna ad arrestarsi. Inizia con Athena, Audry e Marie Aurélie: età media 25 anni, la prima greca, la seconda fiamminga, la terza italo­belga. Insieme, sono l’enciclopedia di neurologia applicata ai disordini di coscienza che tutti gli specialisti del campo vorrebbero in tasca. La matti­na vanno in corsia, incontrano le fa­miglie dei pazienti, effettuano i test comportamentali sui vegetativi: la pressione sulle dita, il giro della stan­za con lo specchio (i pazienti in que­sto seguono più facilmente la propria immagine con gli occhi, che quella di un oggetto), le stimolazioni sonore. È il protocollo aggiornato della Coma recovery scale, quello che qui è basta­to già un centinaio di volte per rico­noscere una diagnosi sbagliata su un paziente (risultato non essere affatto vegetativo) e che è facilmente reperi­bile online. Eppure il resto del mon­do – tranne Athena, Audrey e Marie Aurelie – sembra non saperlo.
Il pomeriggio tocca agli esami: le ri­sonanze, le tomografie, in una paro­la le partite di tennis. In un altro la­boratorio Andrea Soddu, fisico delle particelle italiano convertito alle neu­roscienze, analizza le immagini del cervello dei pazienti a riposo, ottenu­te con la risonanza. Immagini e ana­lisi, anche qui nessun prodigio. Dopo una settimana la normalissima riu­nione di confronto, in cui tesi e anti­tesi sono messe in campo, e si giun­ge a una diagnosi condivisa.
Steven Laureys, che è il responsabile del Coma group, lo ripete di continuo a chi incontra, a chi telefona, ai con­vegni e alle conferenze: «Quello che facciamo può essere fatto da qualsia­si parte, si deve solo cominciare». Non basta: nel pomeriggio arrivano altre cinque chiamate, una è dall’Italia. È la mamma di Luca, vive a Milano, suo fi­glio è immobile e in stato vegetativo da dodici anni. Chiede aiuto. Vorreb­be che i medici di Liegi lo vedessero, perché «siete gli unici a vedere vera­mente ». Sarebbe disposta a dividere la spesa con un’altra famiglia, anche loro hanno un figlio così. Non hanno abbastanza soldi per il viaggio però, e forse il ragazzo non è trasportabile: «Perché i medici che ho incontrato fi­nora non mi hanno detto niente di più?». Stato vegetativo, ci sono rispo­ste.
Basta vederle.

l progetto: una task force europea


DAL NOSTRO INVIATO A LIEGI

D
iffondere il metodo delle corrette diagnosi. Ma anche fare passi avanti nella prognosi dei pazienti in stato vegetativo, in stato di minima coscienza e in sindrome di locked-in. Gli obiettivi del gruppo di Liegi sono ambiziosi: se attraverso l’elettrostimolazione è possibile osservare risposte agli impulsi nei pazienti affetti da traumi cerebrali invalidanti, c’è la possibilità anche di curarli. E al Cyclotron il desiderio di tutti è poter fare di più. Anche per questo da ormai un anno, grazie a una rete di contatti che Steven Laureys ha intessuto con altri neuroscienziati ed esperti nel campo dello stato vegetativo, esiste il progetto di creare una task force a livello europeo specializzata in questo ambito.
Compiti: identificare la migliore scala medica per effettuare una diagnosi, le possibili terapie per curare i pazienti, educare il personale medico a queste tecniche e – punto fondamentale – rendere il pubblico sempre più consapevole dei diversi gradi di disordine di coscienza. Un primo incontro interlocutorio del gruppo si è svolto lo scorso settembre a Roma, alla presenza dei massimi esperti del campo provenienti da tutta Europa (tra loro, per fare un nome noto in Italia, anche Giuliano Dolce, direttore dell’Istituto Sant’Anna di Crotone) e l’ufficializzazione dell’iniziativa potrebbe arrivare già nei prossimi mesi. Ma c’è di più: attorno al gruppo di Liegi cominciano a orbitare anche Paesi 'insospettabili' come l’India e la Cina, dove i pazienti in stato vegetativo sono migliaia e le famiglie chiedono con sempre maggiore insistenza cure. Nei prossimi mesi il gruppo di Laureys sarà a Calcutta per una conferenza, e un neurologo che ha collaborato agli studi di Liegi ha ottenuto i fondi per aprire una struttura analoga al Cyclotron vicino a Pechino. Passi da gigante stanno poi facendo anche gli studi sugli strumenti attraverso i quali i pazienti in stato di coscienza minima e locked-in possono comunicare con l’esterno senza intermediari. A Liegi si è cominciata proprio in queste settimane la sperimentazione dell’interfaccia computer-cervello sul primo paziente: un caschetto dotato di elettrodi e capace di misurare l’attività cerebrale a livello dello scalpo, per poi inviarla a un pc in grado di tradurla in risposte di senso compiuto.


Profondamente disabili ma persone vive. Nuova scoperta sullo stato vegetativo

di Assuntina Morresi
La possibilità di comunicare con persone in stato vegetativo, accertata con nuove tecniche di indagine come la risonanza magnetica funzionale, è senza dubbio una svolta negli studi di settore, tanto importante da determinare la scelta editoriale della rivista scientifica su cui il più recente studio è stato pubblicato: il New England Journal of Medicine ha infatti messo gratuitamente a disposizione nel suo sito Internet l’intero articolo, consentendone la diffusione completa e immediata in tutto il mondo.
Malgrado questo, i luoghi comuni sono duri a morire. E pure fra quanti in questi giorni hanno scritto e parlato del caso del giovane belga in stato vegetativo che ha risposto a tono con la propria attività cerebrale a domande precise dei medici, c’è chi ancora si ostina a ripetere che le persone in queste condizioni sono – appunto – nient’altro che vegetali: «Hanno dato voce a una pianta», esordiva uno degli articoli dedicati al tema dal Sole 24 Ore, pure ben documentato.
Ma parlare di queste persone come di «vegetali», oltre che offensivo nei confronti loro e delle rispettive famiglie, è totalmente inappropriato. L’espressione 'stato vegetativo' sta semplicemente a significare che nei pazienti continua a funzionare il sistema neurovegetativo, quello cioè che consente la respirazione, l’attività cardiaca e la circolazione.
Dal primo, storico lavoro di Adrian Owen, pubblicato nel 2006 su Science , si sono succedute nella letteratura scientifica evidenze di attività cerebrale di persone in stato vegetativo: a dimostrazione, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che siamo di fronte non a un limbo di non-morte/non-vita ma a una drammatica condizione della quale sappiamo assai poco, che riguarda persone profondamente disabili, e vive.
In realtà ce lo dicono da anni gli addetti ai lavori, come anche i familiari: difficilmente i canali di comunicazione con i pazienti sono totalmente venuti meno. L’espressione del viso cambia, si indovinano malessere o serenità, e qualche sorriso non si spiega solamente con contrazioni involontarie. Anche le risposte sono diverse a seconda che gli stimoli siano impersonali e di tipo meccanico, oppure siano prodotti all’interno di una relazione, possibilmente con una persona cara o comunque non estranea. Per capirci, un conto è far ascoltare una voce registrata, tutt’altro è sentirne vicina una conosciuta, di qualcuno che magari mentre parla ti accarezza. E questo ha tanto più valore se si sta a casa propria anziché in ospedale.
Che le persone in stato vegetativo non abbiano coscienza di sé, d’altra parte, è cosa impossibile da stabilire con certezza visto che non esiste la possibilità di misurare la coscienza, come invece possiamo fare, ad esempio, per altri parametri fisiologici, indicatori o meno di qualche stato patologico (dal colesterolo alla temperatura corporea). È proprio di questi giorni la notizia di uno studio dell’Università di Milano, in collaborazione con quella del Wisconsin, che ha come scopo trovare un modo per misurare oggettivamente il livello di coscienza in pazienti con gravi lesioni cerebrali, cercando di sviluppare un 'marcatore' quantificabile. Una ricerca importante per un obiettivo ambizioso, perseguibile solamente quando si è convinti che siamo al cospetto di persone indubbiamente vive anche se con possibilità e modalità a noi ancora sconosciute di interagire con il mondo esterno.
Per un singolare gioco del destino, lo studio con le nuove evidenze sugli stati vegetativi è stato pubblicato in prossimità del primo anniversario della morte di Eluana Englaro. Senza la sua drammatica vicenda sicuramente non ci sarebbe stata tanta attenzione verso un’analisi così specialistica anche da parte dei non addetti ai lavori. Fra le righe degli articoli che descrivono in questi giorni risultati così importanti si indovina una domanda, non esplicitata: chissà cosa sarebbe successo se fra le persone esaminate dai ricercatori ci fosse stata anche lei.
«Avvenire» del 7 febbraio 2010

La ricerca choc: pensiero anche in stato vegetativo Il paziente può rispondere


E' in stato vegetativo dal 2003 ma 29enne al centro di uno studio del New England Journal of Medicine è riuscito a comunicare con i medici: usate le aree del cervello attivate per le risposte



E' in stato vegetativo dal 2003, a causa di un incidente stradale che lo ha inchiodato al letto per tutti questi anni. Ma il giovane 29enne al centro di uno studio che ha guadagnato le pagine del New England Journal of Medicine si è mostrato capace di "comunicare" con i medici, rispondendo sì o no alle domande che gli venivano poste dai camici bianchi. Come? Accendendo quelle aree cerebrali che si attivano nel nostro cervello quando diamo risposte affermative o negative a un quesito.

La ricerca di Adrian Owen La ricerca, condotta da una squadra di studiosi belgi e britannici capitanati da Adrian Owen, del Medical Research Council di Cambridge, a detta degli scienziati potrebbe rivoluzionare il rapporto con questi pazienti, lasciando, ad esempio, che siano loro stessi a esprimersi circa la possibilità di continuare a vivere in quelle condizioni. "Potranno essere coinvolti - ipotizza lo stesso Owen - nelle decisioni relative al loro destino". Grazie a uno scanner di ultima generazione, gli studiosi hanno "fotografato" l’attività cerebrale del giovane sottoponendogli alcune domande, ad esempio "Tuo padre si chiama Thomas?". Ebbene, nel ragazzo si attivano le stesse aree del cervello che si accendono nelle persone sane.

I risultati dei test "Siamo rimasti attoniti - riconosce Owen sulle pagine del britannico Daily Mail - quando abbiamo visto i risultati dei test, che mostravano chiaramente che l’uomo era in grado di rispondere alle nostre domande. Non solo i risultati dello scanner ci dimostravano che il paziente non era in uno stato vegetativo, ma per la prima volta in tanti anni ci consentivano di vedere che l’uomo riusciva a comunicare col mondo esterno". Lo studioso a capo della ricerca riconosce che la tecnologia usata è molto dispendiosa dal punto di vista economico, ma sottolinea che in futuro potrebbe essere usata per comunicare con questi pazienti circa, ad esempio, la necessità di ricevere antidolorifici o la possibilità di sottoporsi a nuove terapie farmacologiche.


Il Giornale 4 febbario 2010

La morte di Eluana e l'assuefazione all’“evidenza negata”. di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 27 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Ha destato scalpore la lettura della 'Re­lazione di consulenza tecnica medico-legale', relativa alla morte di Eluana Englaro, fatta dal gip di Udine in occasione della seduta in cui ha de­finitivamente stabilito che il tut­to è avvenuto “regolarmente”.

Nella relazione vengono riportate le note dell’équipe del dottor Amato De Monte che sede­va accanto a Eluana e registrava di ora in ora gli “elementi indicativi di sofferenza”.

Come ha riportato Lucia Bellaspiga sulla pagine di Avvenire (14 gennaio 2010) si tratta di un rapporto “meticoloso”, in cui è descritta l’agonia di Eluana.

“La sua voce – è scritto – si è sentita sette volte”. I suoni si moltiplicano il 4, il 5 ed il 6 di febbraio. Una infermiera ha annotato 'Sembrano sospiri'. L’8 di febbraio (il giorno prima di morire) il rapporto parla di “nessun suono”, ma ore e ore di “respiro affaticato e affannoso”. Nei palmi delle mani, strette, i segni delle sue stesse unghie.

Un gelo al cuore la descrizione del cadavere: “Trattasi di cadavere femminile, della lunghezza di circa 171 centimetri, del peso di 53.5 chili, cute liscia ed elastica, capelli neri... Entrambi i lobi pre­sentano un foro per orecchini. Indossa una camicia da notte in cotone rosa”.

La relazione è agghiacciante non solo perchè mostra che Eluana mostrava segni di evidente e solida vitalità, ma soprattutto conferma l’atroce sofferenza a cui è andata incontro morendo di sete.

Intervistata da ZENIT la dott.ssa Chiara Mantovani, Vicepresidente nazionale per il Nord Italia dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI), ha osservato che l’articolo pubblicato da “Avvenire” “avrebbe dovuto scatenare polemiche, cortei, manifestazioni pubbliche e scioperi della fame. Invece, niente”.

“Neppure di fronte al racconto discreto ma agghiacciante della morte di Eluana – ha affermato –, neppure davanti a frammenti di cronaca in differita che muovono lo stomaco, si è mosso chicchessia, nessun profeta della morte pietosa si è indignato per come è morta la Englaro”.

La Vicepresidente dell’AMCI sostiene che purtroppo ci stiamo “abituando all’evidenza negata” e fa l’esempio della pillola abortiva RU 486 mostrata come “innocua, discreta, civile e rispettosa della legge 194/78”.

“Neppure – ha aggiunto – quando si viene a sapere ufficialmente che in Emilia Romagna ci si fa un baffo delle regole per la somministrazione, così che l’aborto è diventato davvero un fatto privatissimo e clandestino – nel senso che non ha diritto di cittadinanza nelle preoccupazioni sociali ed etiche –, neppure allora qualcuno si sente in dovere di chiedere scusa”.

Per la Mantovani, “nessuno chiede scusa o dice mi sono sbagliato perchè domina l’ideologia del ‘quel che voglio, quando lo voglio, perché lo voglio’ non si ha tempo per ragionare e ripensare, magari persino pentirsi. I fatti? Tanto peggio per i fatti”.

In merito alla vicenda della Englaro la dott.ssa Mantovani ha sottolineato i fatti contenuti nella 'Re­lazione di consulenza tecnica medico-legale' e cioè: “Eluana non presentava un fisico minato, si è lamentata fino a che ne ha avuto la forza, e il modo di nutrirla non poneva problemi medici”.

“Evidentemente – ha argomentato l’esponente dell’AMCI - i problemi erano di altro tipo, stavano (e restano) nello sguardo con cui ci si rivolge a persone come lei: scomparsa per sentenza la compassione che ha generato in due millenni l’assistenza ai bisognosi, negata la dignità senza condizioni per ogni essere umano, subordinato il diritto di vivere al desiderio proprio o di altri, non ci si può meravigliare se ci guardiamo reciprocamente con sospettosi criteri di efficienza”.

Inoltre ci sono anche dati tecnici che “inquietano” ed in particolare la “mezz'ora tra il decesso e la registrazione dell'elettrocar­diogramma” giustificata come un “ritardo dovuto alla difficoltà di reperimento del­lo strumento”.

A questo punto la Mantovani pone domande scottanti: “Che forse il personale della clinica di Udine non si aspettava di dover utilizzare un elettrocardiografo per stilare il certificato di morte di una donna portata lì per morire? Difficoltà di reperire uno strumento? Credibile in queste ore a Port-au-Prince, non alla Clinica 'La Quiete'”.

La Relazione parla di Eluana che 'ha capelli neri, cute liscia ed elastica, corpo normale, nessun decubito'. E dicevano che ormai era morta. Ma la Mantovani aggiunge: “e se fosse stata piagata, calva, magra? Allora l’opinione pubblica, sarebbe più tranquilla?”.

“Forse sì – risponde -, perché sembra che un sottile e insapore veleno sia stato messo nell’acqua potabile: l’indifferenza e la presunta pietà (così la chiamava Giovanni Paolo II, nella Preghiera per la vita) conducono alla stessa irragionevole persuasione, che se non sei viva secondo i parametri dell’efficienza e della bellezza e della comunicazione, non sei davvero viva”.

“Non c’è rimedio ad un tale avvelenamento della ragione (quella che interroga obiettivamente i fatti e ne trae conseguenze e assume responsabilità anche quando costano) - ha aggiunto la Vicepresidente per il Nord dell’AMCI - se non l’esercizio quotidiano e oggi eroico del rispetto per il reale”.

E allora, ha concluso, “facciamo il possibile per accorgerci del reale prima che ce lo raccontino i certificati di morte”.

Ha aiutato la figlia malata a morire, assolta. Sentenza che fa discutere in Inghilterra.

Il giudice ha rimproverato l'accusa: "Che cosa ci fa questa donna in tribunale"dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI


LONDRA - E' una sentenza che potrebbe modificare la legge sul suicidio assistito. Come minimo, è una decisione senza precedenti, uno di quei casi che pongono l'opinione pubblica davanti a un brutale dilemma: cosa avrei fatto, se in quella giuria ci fossi stato io? Kay Gilderdale, una ex infermiera cinquantacinquenne di Stonegate, East Sussex, è stata assolta con formula piena dall'accusa di avere aiutato la figlia Lynn, affetta da un male incurabile, a togliersi la vita. Non solo: dopo che la giuria ha pronunciato il verdetto di "not guilty", non colpevole, il giudice ha apertamente rimproverato in aula la pubblica accusa, sostenendo che la donna non avrebbe dovuto mai essere processata: "Cosa ci fa questa imputata in tribunale?"

Sua figlia Lynn, che soffriva di encefalomielite mialgica da ben 17 anni, aveva più volte detto alla madre che non ce la faceva più a sopportare il suo male. Stamane i giornali pubblicano lettere e pagine dal suo diario in cui la ragazza descrive la sua graduale caduta in un abisso di dolore sempre più atroce. "Voglio morire", aveva ripetuto più volte alla madre, che alla fine l'ha aiutata a realizzare la sua volontà, utilizzando morfina e altri medicinali. L'ex infermiera era rimasta a lungo in preda a un terribile dubbio, incerta se rispettare il desiderio della figlia e porre fine alle sue sofferenze o rifiutarsi per averla comunque vicina. "Ti senti il cuore strappato dal petto", ha detto al processo, "perché l'unica cosa che vorresti è farla stare meglio, farla sopravvivere".

Lynn aveva tentato già una volta il suicidio, senza successo, e aveva dichiarato nella sua scheda medica che non voleva essere rianimata e tenuta in vita artificialmente, nel caso fosse entrata in coma. Tecnicamente, la madre era accusata di tentato omicidio, perché secondo l'accusa non era chiaro se a uccidere la ragazza fossero stati i farmaci presi autonomamente dalla stessa Lynn o quelli che le aveva somministrato la madre. "La sua scelta di morire è stata comunque pienamente consapevole", ha concluso il giudice. Kay ha lasciato il tribunale in lacrime, dopo che parenti, amici e pubblico presente in aula hanno applaudito la sentenza di assoluzione.
Un verdetto opposto a quello emanato pochi giorni fa da un altro tribunale britannico, che ha invece condannato un'altra madre, Frances Inglis, a nove anni di carcere, per avere ucciso con un'overdose di eroina il proprio figlio, anche lui malato terminale, sofferente di gravi lesioni cerebrali. In quel caso, forse perché il figlio era più giovane, forse perché non aveva avuto l'opportunità di esprimere chiaramente la propria volontà di morire, il giudice era stato dell'avviso che l'imputata andasse condannata, sebbene non alla pena massima prevista, che sarebbe stata di quindici anni di carcere. "Nessuno ha il diritto di prendere la legge nelle proprie mani e di mettere fine a una vita umana", aveva dichiarato il magistrato. Ma ora, alla luce della sentenza di assoluzione per Kay Gilderdale, la Gran Bretagna dibatte se sia necessario cambiare appunto la legge che vieta e punisce il suicidio assistito.

© La Repubblica (26 gennaio 2010)

Dylan Dog e l’eutanasia, Roccella attacca Un medico vuol staccare la spina all'«indagatore dell’incubo». Il sottosegretario: anche malati si è uomini

ROMA—Malattia, sofferenza, accanimento terapeutico e dolce morte: non sono temi da fumetto popolare? E invece sì se si tratta di un cult come Dylan Dog. Il numero in edicola (il 280, nella foto a lato) ha un titolo forte, «Mater Morbi», e una storia altrettanto forte per «l’indagatore dell’incubo», che stavolta si ritrova malato, poi molto malato, infine moribondo e al suo capezzale due medici, quello accanito che vuole mantenerlo in vita ad ogni costo e quello mosso a pietà, che vorrebbe «portare sollievo alla sofferenza» (guarda la tavola "incriminata") .

Il finale è fantasy ma il dibattito si riaccende, stavolta lontano dagli arroccamenti politici. Prima su il Fatto Quotidiano, poi ieri sul Secolo d’Italia, quotidiano vicino a Fini, e sull’Unità. Non spiace il dibattito non ideologico al sottosegretario Eugenia Roccella, che tuttavia commenta amara: «Ambiguo difendere l’eutanasia come atto di pietà, gli intellettuali dovrebbero chiedersi: perché inseguiamo il mito del corpo sano e della perfezione e rifiutiamo la malattia e la sofferenza? Non è vero quel che dice Dylan Dog: "C’è stato un tempo in cui ero un uomo...". Anche malati, anche sofferenti si è uomini».

M. Io.
Corriere della sera 22 gennaio 2010

Eluana, Porta Pia, la gnosi e l’Europa. di Angela Pellicciari

Un noto professore di bioetica pubblica un libro con prefazione di Beppino Englaro. E paragona il caso Eluana alla breccia di Porta Pia. Sullo sfondo, ben visibile, l’antica eresia gnostica. Che odia la vita.


[Da «il Timone», n. 85, luglio/agosto 2009]

«Più che di per sé (di persone ne muoiono tante, anche in situazioni ben peggiori), il caso Eluana è importante per il suo significato simbolico. Da questo punto di vista è l’analogo del caso creatosi con la breccia di Porta Pia attraverso cui il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono nella Roma papalina»: così scrive il professore di bioetica Maurizio Mori in un libro pubblicato di recente con la prefazione di Beppino Englaro.

Cosa c’entra Eluana col Risorgimento? C’entra. E molto. Come nel 1861 trionfano quanti pensano che gli italiani, per essere civili, debbano smettere di essere cattolici, così ora, auspica Mori, è stata aperta una breccia che provocherà il cambiamento della «idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria [...] per affermarne una nuova da costruire».

Nel Risorgimento trionfa il pensiero liberal-massonico nemico della Rivelazione e del Magistero, come oggi, così afferma il direttore dell’Avvenire Dino Boffo intervistato il 4 marzo sul Foglio da Nicoletta Tihiacos, vince papà Englaro sostenuto nella sua battaglia da «una cupola di indole massonica, che ha messo in campo una solidarietà formidabile, cementata in modo trasversale, capace di superare qualsiasi appartenenza politica, di categoria, di professione».

Cosa accomuna il Risorgimento al caso Englaro? La volontà gnostica di cambiare la realtà (la massoneria è una forma di gnosi). Si definiscono gnostici coloro che ritengono di incarnare l’avanguardia morale ed intellettuale dell’umanità. Gnostico, alla lettera, è colui che conosce, colui che sa. Gli gnostici sono convinti che loro spetti il compito di illuminare gli ignoranti (cioè quasi tutti) sulla direzione di marcia della storia. Certi di essere i migliori, hanno la convinzione che il loro sia un pensiero scientifico, capace di indicare con sicurezza in quale direzione l’umanità debba procedere per marciare spedita verso il progresso. Nemico del limite, che nega per principio, convinto di essene in grado di definire che cosa è bene e che cosa è male, il pensiero gnostico è all’origine delle immani catastrofi che hanno caratterizzato l’epoca moderna. Si va dalla Rivoluzione Francese, che vuole fare nuove tutte le cose ricorrendo al terrore, alla carneficina che Napoleone esporta in tutta Europa. La gnosi non si ferma mai. Non ammette i propri errori. Non ammette che la negazione del limite e della legge naturale portino inevitabilmente con sé la distruzione di tutto ciò che è umano.

Dopo il disastro dell’Illuminismo, invece di tornare a Dio si passa ad una nuova forma di idolatria e ci si rifugia nell’intimità del Romanticismo. Tempo qualche decennio e si torna a progettare alla grande lo Stato, definito “etico”: è la volta del Liberalismo. Tanto per fare un esempio, è in nome della scienza che Cavour decreta la morte per legge degli Ordini religiosi. Il progresso incarnato dal liberalismo, spacciato per scientifico, costa agli italiani, ridotti in miseria, un’emigrazione di massa. Nel Novecento arriva l’epoca del totalitarismo, propagandato ancora una volta in nome della scienza. Comunismo e nazismo sono due visioni del mondo che ritengono di essere scientifiche: l’uno crede nel socialismo, definito scientifico, di matrice marxista, l’altro nella scientifica dottrina della razza.

Ridotto il mondo in rovine, la gnosi vira ancora una volta passando dall’idolatria dello Stato a quella dei desideri individuali. E cosi, in nome della scienza, si è arrivati a negare l’evidenza: l’umanità non sarebbe più biologicamente divisa in due sessi, ma culturalmente caratterizzata da cinque generi fra cui i bambini devono imparare ad orientarsi per scegliere quello ad essi più congeniale. E così il Parlamento europeo è stato capace di condannare la Santa Sede ben trenta volte: per violazione dei diritti umani. Quei diritti che gli gnostici ritengono di essere gli unici a conoscere e definire. E così il Preambolo della Carla Europea dei Diritti specifica che compito dell’Unione è: «rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici».

Diritti intesi a partire dagli “sviluppi scientifici e tecnologici”! Diritti relativizzati, cangianti da epoca ad epoca, da ideologia ad ideologia, che garantiscono solo quelli che li vanno codificando, beninteso in nome della tecnoscienza. I diritti umani, al contrario, ricorda Papa Ratzinger all’ONU nell’aprile del 2008, «sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo […] rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti».

Tornando ad Eluana e al libro di Mori: questi si ripromette di far trionfare una nuova concezione della vita e della morte. Il bioeticista pensa che sia ora di farla finita con la concezione sacrale della vita umana: «Come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi e alla concezione sacrale del potere politico, così il caso Eluana apre una breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione sacrale della vita umana». Parole forti. Parole che si comprendono forse meglio tenendo presente un altro luogo comune della gnosi: la convinzione che la materia, che i corpi, che la creazione, siano il prodotto di un dio malvagio. L’idea che prima ci si libera del corpo meglio è.

Se si tiene presente il desiderio titanico con tanta lucidità espresso da Mori, se di tiene presente che si vuole affermare una nuova concezione dell’umanità (vale la pena di ripeterlo: si tratta di «cambiare l’idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria»), si possono anche cogliere gli elementi comuni che unificano tanta parte delle convinzioni maturate negli ultimi decenni. E cioè: la liberalizzazione della droga, la pretesa che il vero problema sia la sovrappopolazione, la convinzione espressa con sempre maggiore frequenza che l’unico animale distruttivo sia l’uomo, la santificazione dei preservativi, l’affermazione dell’aborto come diritto, la promozione della sessualità per definizione slegata dalla capacità riproduttiva. Come interpretare diversamente la notizia riportata dal Corriere della Sera del 16 gennaio 2008 di un «invito informale, qualche sera fa, all’università di Hong Kong, per una cena a buffet, a un patto: che gli studenti fossero tutti gay o lesbiche. Ospite della serata una banca d’affari, il colosso americano Lehman Brothers». Come mai una banca d’affari (l’unica fallita!) promuove l’omosessualità? Come mai invece di pensare a far soldi i manager della Lehman pensano a come indirizzare i comportamenti sessuali degli studenti? Bisogna ammettere che la cultura moderna è impregnata di gnosi. Gnostica è anche la bordata finale: la diretta, aperta, sponsorizzazione della morte. La propaganda per la “buona morte”, la “dolce morte”. Anche questa scientificamente, asetticamente, procurata. Chiunque abbia assistito ad un’agonia, di uomini come di animali, sa che la morte non è né dolce né buona. La vita combatte con tutte le sue forze contro la morte. Perché la morte è l’unica realtà che Dio non ha creato: «la morte è entrata nel mondo per invidia di Satana», scrive la Sapienza. Gesù Cristo si è incarnato per vincere la morte. La morte può, sì, essere vissuta insieme a Cristo santamente, ma è sempre il dramma supremo della vita umana. Il mito della dolce morte è il punto di arrivo della ribellione a Dio “amante della vita”.

La popolazione italiana, nonostante tutto, resiste alla gnosi. Roma tiene saldamente in mano la fiaccola della libertà nella verità. Il Papa rivendica la forza del logos, della ragione dell’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio. L’attacco gnostico a Roma e agli italiani sferrato nell’Ottocento dal pensiero liberale ha prodotto ingiustizie colossali ed il dramma dell’emigrazione. Oggi la breccia di Porta Pia rischia, per noi, di essere l’Europa. In nome dell’uguaglianza e della qualità della vita rischiamo di vederci imporre leggi contro la vita ed il diritto naturale.

© il Timone
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IL COMBATTIMENTO ESCATOLOGICO. PER LA VITA E LA LIBERTA' (QUELLA VERA)