DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

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Crudele e ingiusta. L’ira di Englaro contro le suore di Lecco


di Lucia Bellaspiga
Tratto da Avvenire dell'8 febbraio 2011

«Me l’hanno violentata per quindici anni».

Lo disse subito, Beppino Englaro, non appena da Udine gli arrivò la telefonata che E­luana era morta, il 9 febbraio di due anni fa. A vio­lentarla – intendeva – non era stato chi le aveva tolto la vita, ma le suore Misericordine di Lecco, cui lui stesso l’aveva affidata due anni dopo l’in­cidente, nel 1994, quando ormai il futuro di sua figlia si presentava come un’immensa incognita senza spazi e soprattutto senza tempi prevedibi­li. Un anno? Dieci? Venti? Quanto sarebbe dura­ta la grande incognita? Nella sua mente – ormai lo sappiamo, ce lo ha raccontato decine di volte in conferenze e convegni, e lo ha scritto nei suoi libri – c’era già la determinazione a spegnere quel­la vita disabile, così diversa dalla sua bellissima figlia, ma nel frattempo chi si sarebbe preso cura di lei?

Lo ricorda lo stesso Englaro, nella lunga intervi­sta apparsa sul 'Corriere' di domenica: «Ce la la­sci, ce ne occupiamo noi», gli avevano subito a­perto le braccia le suore di Lecco. Ma persino que­sto nelle sue parole ha il tono aspro dell’accusa. Come se quel «ce la lasci» non fosse stato un ge­sto affettuoso di accoglienza, come se quella fi­glia le suore gliel’avessero presa con la forza, per assisterla – anche per tutta la vita – al posto suo. Non racconta, Englaro, che in quella clinica di Lecco l’aveva condotta lui stesso, dopo due anni di ricovero a Sondrio, che non è dietro l’angolo, ma dove quotidianamente sua moglie si recava pur di stare con Eluana. E lì, per la seconda vol­ta, la vita fragile della sua unica figlia veniva rac­colta dalle stesse mani: perché proprio alla 'Ta­lamoni' ventun anni prima Eluana era venuta al mondo. Ora al mondo continuavano a tenercela, con amore infinito, finalmente a due passi da ca­sa, consentendo a mamma Saturna di poter ac­cudire la sua creatura come lei sapeva e voleva fa­re. Ma così la racconta Englaro dalle pagine del 'Corriere': «Le suore avevano visto consumarsi anche la mamma di Eluana accanto al suo letto. Volendola lì con loro, erano state un po’ crudeli con Eluana e con sua madre. E io invece dovevo difendere mia figlia e mia moglie». Crudele – è o­ra di dirlo – è la pervicacia con cui Englaro all’a­more risponde col disprezzo, continuando a ri­versare sulle Misericordine una rabbia incom­prensibile. Descrivere come crudeli quelle mani è sconvolgente e ingiusto. Sarebbero state cru­deli con la madre e con la figlia: obbligando l’u­na a una tenerezza di mamma che lui non capi­va più, e l’altra a un attaccamento di figlia, forse la sola forza ancora in grado di tenere acceso il lu­mino di una coscienza ben nascosta, ma che a volte faceva capolino (i neurologi conoscono be­ne il fenomeno e lo chiamano appunto 'effetto mamma'). Lo scrissero chiaro i medici di Son­drio osservando l’andamento della giovane pa­ziente: se a stimolarla era la madre, Eluana sem­brava «rispondere», obbediva cioè «a ordini sem­plici». Una notte, appuntano, pronunciò più vol­te e in modo inconfondibile la parola «mamma»… È vero, finché grazie alle Misericordine ne ha a­vuto la forza, mamma Saturna ha potuto restare accanto a sua figlia, senza che nessuno la co­stringesse. È vero, le suore le hanno dato tutto, assolutamente tutto ciò che in genere manca ad altre persone in stato vegetativo a causa dei costi economici, e ad ammetterlo è ancora Englaro nel­la sua intervista, quando dice che «Eluana ha a­vuto le cure migliori», anche se poi cade nella sua contraddizione: tutto era «inutile». Come la vita di Eluana, inutile perché ormai imperfetta. «Di­pendeva in tutto da mani altrui», specifica, di nuo­vo con orrore per quelle mani, ben diverse dalle sue, mani di un padre che per «rispettarla» ave­vano scelto di «non toccarla con un dito». Mai.

E invece sono ancora i neurologi a dircelo: toc­cateli, accarezzateli, parlate con loro, non sap­piamo quanto ci ascoltano, sappiamo però che poco o tanto ci percepi­scono. E allora, almeno in questo, ha detto bene Englaro, spiegando al giornalista perché a differenza di sua moglie lui con Eluana non parlava più: «Sapevo di parlare a me stesso». Sua figlia è morta, spiega, da quando non ha più potuto «per­cepirla». Lui.



A UN ANNO DALLA MORTE DI ELUANA Monsignor Sgreccia: ferita non sanata

La sera del 9 febbraio 2009 moriva in una clinica di Udine, per fame e per sete, Eluana Englaro. La fine di Eluana colpì profondamente e divise tra loro molti italiani (sebbene quella sera stessa diversi milioni di telespettatori avessero preferito continuare - legittimamente certo… - ad abbeverarsi alla fonte prestigiosa del ‘Grande fratello’). A poco più di un anno di distanza, la ferita si è rimarginata oppure continua a sanguinare? E la politica ha fatto passi avanti, dopo le promesse solenni di quei giorni? Il mondo cattolico, apparso non certo compatto nel difendere in quel frangente preciso il diritto alla vita (al di là dei continui, documentati, duri e meritori richiami di ‘Avvenire’), ha avviato una riflessione profonda sul tema? Tra poche settimane in gran parte d’Italia si voterà per le elezioni regionali: ci sono cattolici (o sedicenti tali) che presumibilmente opereranno scelte in contrasto con la difesa dei ‘valori irrinunciabili’. Per trovare una risposta di conoscenza e di esperienza a tali domande siamo saliti al quinto piano del Palazzo del Sant’Uffizio per incontrare monsignor Elio Sgreccia, fino a un anno e mezzo fa presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Ecco le sue considerazioni, espresse come d’abitudine senza troppi peli sulla lingua, in linea con la coerenza da sempre mostrata nella fedeltà al Magistero sui temi del diritto alla vita e della famiglia.

Monsignor Sgreccia, poco più di un anno fa si spegneva per fame e per sete in una clinica di Udine Eluana Englaro. La tragica fine di Eluana ha segnato la storia civile d’Italia, costringendo molti a riflettere profondamente sul tema del fine-vita e sulla possibilità concreta e nefasta che per sentenza o per legge qualcuno si sentisse autorizzato a porre fine alla vita di altri. Che cosa provò Lei quando apprese la notizia?

Paura e dolore per il modo con cui Eluana ci aveva lasciato. A un anno di distanza, considerando obiettivamente quel che accadde e avendo avuto anche il conforto di indagini scientifiche recenti sulle problematiche relative ai malati in stato cosiddetto vegetativo persistente, ci rendiamo ancora più chiaramente conto che si è trattato di una morte accelerata, inflitta. Dico questo pur avendo il massimo rispetto per i familiari coinvolti. La tragica fine di Eluana ha prodotto un trauma non solo in chi sente il dovere di rispettare i tempi e i modi della morte naturale, ma anche in campo giuridico: quella sentenza di tribunale ha aperto una ferita profonda nella coscienza civile che attende ancora di essere sanata.

Quel lunedì sera rientravo a casa in bus da piazza Cavour. Erano circa le nove. A un tratto una ragazza, che aveva un telefonino, dà ad alta voce la notizia che Eluana è morta. Dopo un momento di silenzio scoppia una mischia verbale furibonda tra buona parte della decina di passeggeri: alle accuse di ‘assassinio’, con una rabbia non trattenuta nei confronti del Presidente della Repubblica (che non aveva firmato il decreto governativo salva-Eluana), rispondono quelle di ‘oscurantismo’. Nel corso di quei minuti concitati si alza anche la voce di un sacerdote che dice di considerare la vicenda della morte di Eluana “un atto di pietà cristiana”. Secondo Lei è proprio stato così

Se si fa appello alla ‘pietà cristiana’ per cambiare la verità dei fatti, questa ‘pietà’ è malintesa, è falsa. La verità nella storia di Eluana è che era una paziente viva, che chiedeva soltanto di essere aiutata a vivere e a non soffrire. E non poteva chiedere di essere soppressa.

Nel caso concreto si è evocata una sua presunta volontà precedente…

Si è pubblicizzato che, se fosse successo, Lei avrebbe detto di preferire la morte. Tale posizione non sarebbe conforme né alla dignità né al rispetto della vita umana. Nel caso di Eluana poi l’espressione in tal senso era del tutto supposta, non aveva alcuna vera certificazione; è stata evocata solo allo scopo di trovare una ragione soggettiva per anticipare la morte. Se vogliamo ragionare oggettivamente, dobbiamo confermare che non è questo il trattamento che si deve offrire a una persona in stato vegetativo. Sono state le suore misericordine di Lecco ad aver accompagnato per tanti anni con tanto amore (come si dovrebbe sempre fare) la vita di Eluana. In situazioni di tale genere non si sa mai che non ci possa essere una ripresa del paziente, non si sa esattamente quanto sia vigile la coscienza: perciò l’anticipazione della morte non ha nessuna ragione logica né tantomeno corrisponde alle esigenze di dignità della persona umana che non tollera che qualcuno metta mano nell’ucciderti.

Monsignor Sgreccia, a un anno di distanza come valuta l’atteggiamento tenuto in quei giorni dal mondo cattolico? Certo l’ Avvenire in prima linea, alcuni vescovi e movimenti pro-vita si sono espressi senza paura e secondo verità... altri hanno privilegiato una linea più attenta alla salvaguardia della politica concordataria che alla difesa dei valori fondamentali, altri ancora (normalmente attentissimi ad esempio ai drammi dell’immigrazione) sono sembrati piuttosto assenti, come se il problema non li riguardasse...

Penso che nel mondo cattolico italiano non ci sia stata una vera unità, una consonanza... Si è faticato a mantenere una linea omogenea. Forse anche per questo si è dato adito a una grande confusione in coloro che non hanno la nostra stessa visione. E’ auspicabile che sull’argomento si faccia una riflessione profonda e pacata in tutto il mondo cattolico, guidata dai documenti del Magistero. Così da evitare quegli ondeggiamenti che tale mondo ha mostrato in relazione alla vicenda di Eluana; la testimonianza di fede si deve dare con un’opinione chiara soprattutto nei momenti in cui è doverosa, se vogliamo dirci cattolici.

In questi mesi è emerso ancora più chiaramente il tentativo di trasformare Eluana in una sorta di simbolo della libertà di autodeterminazione... In nome di Eluana si vuole combattere la battaglia dell’eutanasia. Lei che cosa ne pensa?

L’appello al principio di autonomia è il coagulante di tutti coloro che militano più o meno scopertamente a favore dell’eutanasia. Tale posizione, come risulta anche dagli studi recenti di pensatori autorevoli, non ha nessun supporto razionalmente valido. Noi siamo autonomi poiché abbiamo una vita ricevuta che ce lo permette. L’autonomia vera, rettamente intesa, è nel compimento di un atto, non nel disporre della vita, che ci è stata data e che dobbiamo gestire e conservare nel miglior modo possibile. L’altra autonomia è quella intesa ideologicamente: presumiamo di essere padroni della nostra vita. In realtà non è così, tanto è vero che chiediamo alla società di difendere la nostra vita e quella degli altri, quando è il momento. E’ oggi indispensabile chiarire culturalmente questi concetti, così da far emergere inconfutabilmente e a beneficio di tutti la verità.

Nei giorni convulsi di un anno fa ci furono in successione l’intervento in extremis ma pur sempre potenzialmente efficace del Governo, la firma ‘non messa’ del presidente della Repubblica, la promessa di intervenire immediatamente in sede legislativa, l’inizio della discussione in Senato... poi sopraggiunsero il 26 marzo 2009 l’approvazione dell’aula e il passaggio alla Camera dei deputati. Presso la cui commissione degli Affari sociali il disegno di legge viene esaminato con molta lentezza...

In un primo momento mi è sembrata buona cosa fare una pausa di riflessione per stemperare le passioni e per legiferare il più possibile con mente serena, secondo ragione. Mi rendo conto che sono sopravvenute altre urgenze, dovute al terremoto dell’Aquila e a problemi di vario genere. Però a questo punto è ora di portare un chiarimento definitivo: se capitasse un altro ‘caso Eluana’, come si comporterebbero i giudici coinvolti? Bisogna porre termine all’incertezza legislativa. E’ chiaro che il mio auspicio è per la conferma di quei limiti invalicabili che in qualche modo sono stati fatti valere in prima lettura al Senato: no alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione per il paziente, sì alla cura della persona.

Chi frena il cammino del disegno di legge?

C’è una resistenza una volta ancora di lobbies, di ideologie che lottano contro il principio del diritto alla vita. Bisogna fare appello a tutti coloro che vogliono promuovere tale principio a difenderlo pubblicamente e con coraggio nell’ora delle decisioni.

Il disegno di legge non sarà certo approvato dalla Camera prima delle prossime elezioni regionali. Che in qualche regione hanno visto scendere in campo, a guida di importanti schieramenti politici, candidati e candidati che per la loro storia, il loro presente e presumibilmente il loro futuro sono portabandiera di idee zapateriche in materia di vita e di famiglia. Eppure sembra che costoro possano contare sul voto di diversi cattolici (o che tali si definiscono...). C’è anche chi, durante la conferenza-stampa del 5 febbraio a Roma sulla prossima Settimana Sociale dei cattolici italiani, ha detto che il primo criterio - il principale - per la scelta del candidato alla guida della regione è quello della sua capacità di gestire i problemi locali. E l’ideologia allora conterebbe poco o nulla nella scelta. E’ vero che, dopo alcuni giorni, in un’intervista ad Avvenire, il tiro è stato (molto) aggiustato... Lei, monsignor Sgreccia, quali considerazioni fa sul tema?

E’ vero che le elezioni amministrative hanno di per sé una valenza locale. Ed è vero che a tale livello le alleanze si fanno in primo luogo su problemi concreti. Tuttavia un accordo politico tra partiti (in cui sono ben presenti cattolici) non può lasciare scoperte zone d’ombra su temi fondamentali per i cattolici, come quelli del diritto alla vita e della famiglia. Magari negli accordi non se ne parla... però poi non è difficile prefigurare che, a urne chiuse, tali ambiguità si dissolvano in senso negativo per chi difende la legge naturale...

Ci sono candidate che hanno già dichiarato - e, conoscendo la loro storia e la loro tenacia, ci si sarebbe meravigliati del contrario - di non voler rinunciare per nulla a concretizzare le loro idee zapateriche su vita e famiglia...

Qui si pone veramente una questione di coscienza per i cattolici: se si prevede che sulle questioni della vita e della famiglia la candidata, eletta, continuerà sulla strada fin qui intrapresa e dichiarata pubblicamente, non si può sottacere che incombe un problema di incompatibilità per il cattolico che mette in conto di votarla...

Ma in politica chi si stupisce se, per una poltrona, si mercanteggiano i ‘valori irrinunciabili’?

Può anche darsi che accada. Ma è sempre un danno. Ed è sempre anche una viltà.



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L’associazione per Eluana Englaro. È una questione di preposizioni

di Annalena Valenti
Tratto da Tempi del 17 febbraio 2010

È solo una questione di preposizioni, quelle della grammatica italiana. Di, a, da, in, con, su, per, tra, fra.

Le parole portano in sé il loro significato? Ad esempio la preposizione “per” non ha un senso positivo soprattutto se usata in opposizione a “contro”? In un dizionario italiano online si legge che “per” ha due principali varietà di significati. Primo: significa la relazione di mezzo, quindi di passaggio, strumento, maniera, causa, scopo. Alcuni esempi: Entrò per un foro molto stretto; passeggio volentieri per il giardino; le rovine di Cartagine giacciono qua e là per la campagna; lo presi per un lembo della veste; te lo presto per due giorni; lo farò per tuo amore, eccetera. Secondo: significa sostituzione, scambio, somiglianza, maniera e simili relazioni. Alcuni esempi: Ci starò io per te (cioè invece di te); ho venduto la casa per mille lire; io lo so per certo; rimase per morto; questa somma per lui è troppa. Da quando è stata presentata dal signor Englaro, mi sto chiedendo a che tipo di “per” corrisponda l’associazione per Eluana. Qualche idea dopo la lettura e rilettura della grammatica di cui sopra mi è venuta, vedi ad esempio lì dove c’è la parentesi. Lettura totalmente grammaticale. Anche se portano in sé, con sé e per sé il significato, è solo una questione di preposizioni.

Eluana Englaro uccisa dal narcisismo

di Rodolfo Casadei
Tratto da Tempi del 12 febbraio 2010
Tramite il sito dell'Istituto Bruno Leoni

Non vorrei lasciar scivolare via il primo anniversario della morte di Eluana Englaro senza condividere l'amarezza profonda che mi provocano le parole del signor Beppino, ogni volta che le sue infelici dichiarazioni arrivano all'attenzione di tutti.

Al presidente del Consiglio Berlusconi che esprimeva il suo rammarico per non aver potuto impedire la morte di Eluana (a causa della sciagurata intromissione del presidente Napolitano) papà Englaro ha replicato che non avrebbe parlato così se l'avesse vista di persona negli ultimi tempi della sua vita, e che oggi la medicina "può creare una condizione che non esiste in natura e che è solo lo sbocco senza uscita di una serie di terapie". Interessante questo giudizio sulla medicina che crea situazioni che "non esistono in natura". Anzitutto spinge a chiedersi cosa sia la medicina: è una pratica naturale o soprannaturale o extranaturale? Se la medicina è una pratica naturale, non può creare situazioni innaturali: sarebbe una contraddizione. Se si dice che la medicina crea una situazione che va contro la natura, questo significherebbe che la medicina è magia o stregoneria, o che l'hanno portata fra noi gli extraterrestri. I laicisti sono sempre molto confusi su questo punto: rigettano l'idea di natura come troppo teistica, poi parlano di situazioni contro natura create dall'uomo. Ma se dite che l'uomo è natura e nient'altro che natura, come può egli creare situazioni "contronatura"? I laicisti si contraddicono a ogni piè sospinto.

Vengono poi in mente tutte le situazioni create dalla medicina che non si danno in natura: le persone che vivono con organi trapiantati, che sopravvivono grazie a trasfusioni, alla somministrazione di antibiotici (quelli sì contronatura, tanto che inquinano l'ambiente quando vengono espulsi dal corpo), all'utilizzo di reni artificiali o polmoni di ferro. Cosa pensa di fare il signor Beppino con tutte le persone che si ritrovano in queste "condizioni che non esistono in natura"?

In realtà la mancanza di logica di papà Beppino (e dei suoi fan) si spiega con una psicopatologia: il narcisismo. Come tutti sanno, verosimilmente Eluana non soffriva. Non c'erano dolori atroci che facessero propendere per l'opportunità di porre fine alla sua vita. Però Eluana era diventata brutta, bruttissima come può diventare una persona da 17 anni in stato vegetativo persistente. E' questo che Englaro non sopportava: la vista della sua bella figlia trasformata in una brutta figlia. Englaro ha sempre messo l'esperienza visiva al di sopra delle altre esperienze sensoriali. A lui solo la vista trasmette emozioni, e la vista gli rimanda una brutta immagine della sua Eluana. Alla maggior parte dei genitori basta stringere la mano ai propri figli, anche in coma o in stato vegetativo persistente, per provare sensazioni che poi vengono elaborate in emozioni positive. Non così Beppino. Da qui è nata la sua feroce volontà di eliminare quella immagine, che non corrispondeva più a quella che in passato gli aveva dato piacere. Tutto il resto (il diritto all'autodeterminazione, il dibattito sulla vita che non è più vita, la volontà presunta di Eluana, ecc.) è stato solo pretesto, ideologia volta a giustificare una pulsione distruttiva. E il giudizio si estende ai fan di Englaro: gente che maledice Berlusconi perché ci ha imposto le sue televisioni, e poi ragiona sulla base del narcisismo televisivo dominante.

Mai più il rispetto di una presunta volontà diventi «abbandono terapeutico»

Quante ambiguità attorno alla drammatica morte di Eluana
di Francesco D’agostino
Tratto da Avvenire del 10 febbraio 2010

A un anno dalla morte di Eluana, il signor Englaro torna a spiegarci le ragioni fondamentali della sua «battaglia».

Non è stata, primariamente, la pietà a muoverlo, ma la convinzione che ad Eluana fosse negato un diritto civile fondamentale, quello di disporre della propria vita. È per questo, egli ci spiega, che ancora oggi tante persone lo fermano per salutarlo, stringergli la mano e «ringraziarlo»: egli avrebbe, in buona sostanza, aiutato gli italiani a dilatare l’orizzonte delle loro libertà civili.

Da parte mia, e lo dico col massimo rispetto per il signor Englaro e per le sue sofferenze di padre, non trovo che egli si meriti alcun «ringraziamento». Penso, anzi, che il vero effetto della sua lunga battaglia sia stato quello di aver contribuito ad incrinare il corretto uso di un principio, quello di «autonomia», che è prezioso sul piano dell’esperienza politica, culturale e religiosa, ma rischioso sul piano bioetico. Il punto è che l’autonomia, come ogni altro diritto, non può non avere limiti; non può cioè trasformarsi in una pretesa insindacabile.

Questa però era l’intenzione che ha mosso il signor Englaro: che, in questioni estreme, letteralmente di vita e di morte, si adottasse il riferimento alla volontà dei malati come il criterio regolativo fondamentale per il trattamento da riservare loro. Ma siamo certi di poter sempre accertare, senza ombra di dubbio, quale sia la volontà dei malati? Siamo certi che le indicazioni che Eluana avrebbe lasciato e che sono state ricostruite, anni e anni dopo, attraverso testimonianze (problematiche, come in genere tutte le testimonianze), manifestassero davvero la sua volontà o non piuttosto alcune sue presunte 'preferenze'? Chi ha letto i fatti che Avvenire ha pazientemente verificato riguardo questa dolorosa vicenda arriva a conclusioni diverse.

E poi, brutta parola, «preferenze». Perché non parlare di «volontà»? Perché la parola «volontà», particolarmente se riferita a questioni di vita e di morte, è estremamente pesante e va usata con rispetto e circospezione. «Volontà» implica piena consapevolezza, adeguata informazione, assunzione di responsabilità, capacità di motivare le scelte che si vogliono porre in essere: altrimenti essa, per dir così, si degrada in altro da sé, per l’appunto in «preferenze» o, per usare il termine prediletto da Kant, in un mero «arbitrio». È per questo che utilizzare in bioetica la categoria della volontà è altamente rischioso: perché è pressoché impossibile valutarne l’autenticità. I medici sono sempre stati consapevoli che la malattia, le emozioni, le ansie, le paure, l’età avanzata, la situazione sociale e familiare del paziente alterano di norma la sua volontà e lo inducono spesso a rivolgere a chi li cura richieste ingenue, illusorie, insensate, futili, sproporzionate, illegali, obiettivamente dannose. Richieste che il medico deve saper filtrare e alle quali spesso deve dire di no, non per mancare di rispetto alla volontà del malato, ma perché in quelle richieste non si manifesta la volontà, ma l’arbitrio. La prova è data da quanto sia facile far abbandonare ai malati, ancorché terminali, propositi eutanasici, quando si attiva con loro un rapporto autentico e caldo, quando non li si abbandona alla disperazione, quando li si convince che non resteranno soli nella lotta contro la malattia. Per questo, nella insuperata tradizione della medicina ippocratica, il primo e fondamentale principio non è il rispetto astratto e formale della volontà del malato, ma l’impegno umano e concreto per curarlo e, se possibile, guarirlo.

Poteva essere guarita Eluana? Probabilmente no, ma la scienza non era e non è tuttora in grado di escluderlo del tutto. Poteva essere curata? Certamente sì; è stata curata fino alla fine, e in modo ammirevole, dalle suore di Lecco. Averla fatta morire eutanasicamente, (cioè con asserita «dolcezza»!), è stato un modo di rispettarne la volontà autentica e profonda o non piuttosto un modo di assecondare formalisticamente alcune sue dichiarazioni, probabilmente «arbitrarie» (per la maniera in cui furono formulate, per quella in cui sono state ricostruite, per l’emotività che comunque le avrebbe contrassegnate, per la stessa età che aveva Eluana, quando le avrebbe formulate)? È evidente che il signor Englaro dà a queste domande una risposta molto diversa da quella che qui sto ipotizzando. Ma è a mio avviso ancor più evidente che in questioni estreme, come quelle di cui stiamo parlando, cioè di vita e di morte, il solo porre tali questioni (e spero che nessuno voglia negare che porre queste domande sia legittimo) dovrebbe metterci tutti in allarme.

Chi si rallegra per la conclusione della vicenda Englaro, pensando che attraverso di essa si sia dilatata la tutela dei diritti umani fondamentali, dovrebbe riflettere seriamente se in realtà non si sia ottenuta piuttosto la legalizzazione di una forma, particolarmente tragica, di abbandono terapeutico.

Quando Eluana chiamò «mamma» L’invocazione due anni dopo l’incidente Il racconto, dettagliato, nella documentazione clinica dell’ospedale di Sondrio

DI LUCIA BELLASPIGA E PINO CIOCIOLA
O
spedale di Sondrio, Divisione di Lun­godegenza, ore 4 del mattino del 15 ottobre 1993. Eluana è in stato vege­tativo 'permanente' – come si diceva allora – da quasi due anni. Nella sua stanza succe­de qualcosa: «La paziente ha cominciato a la­mentarsi facendo versi...», si legge nella 'Do­cumentazione clinica' che la riguarda (e rac­conta i 17 anni dall’incidente alla morte). Non è un’eccezione che Eluana emetta suoni, so­spiri, gemiti, le accade da due anni e lo farà per altri 15, fino al giorno prima della morte a 'La Quiete' di Udine. Ma quella notte non si placa, forse appare più agitata del solito, forse ha accanto un’infermiera più attenta, forse lì con lei è rimasta sua madre, non lo sappiamo. Fatto sta che Eluana continua a 'lamentarsi', come volesse dire qualcosa, e chi è lì la incoraggia, porge l’orecchio a quei 'versi', finché – è scritto nella cartella clinica – «stimolata a dire la parola 'mamma' è riu­scita a dirla due volte, in modo comprensibi­le ». Sono passati quasi due anni dall’inciden­te d’auto che prima l’ha condotta in fin di vi­ta e poi sprofondata nello stato vegetativo, ma Eluana chiama mamma Saturna, evoca l’im­magine cui ci si rivolge nel bisogno.
Nei due anni di ricovero a Sondrio mamma Saturna la raggiunge quotidianamente da Lecco, pur di restarle accanto e continuare a spiare in lei quei segnali che solo un genitore può cogliere, il movimento di un dito, un so­spiro più lungo... Messaggi spediti dal profon­do di una coscienza nascosta, da sottolinea­re con trepidazione al medico di turno: «La madre riferisce, nel pomeriggio, la comparsa di movimenti spontanei di estensione del go­mito sinistro», era scritto qualche pagina pri­ma. Ogni genitore resta sempre in attesa, scru­ta ed ascolta, aspetta una risposta che maga­ri arriverà tra vent’anni, stimola, chiama, ac­carezza, spera. Così Eluana «saltuariamente esegue ordini semplici su comando della ma­dre », ad esempio «flessione dorsale dei piedi, flessione esterna delle ginocchia». Poi quel­l’invocazione due volte ripetuta, e chissà co­me avrà rimbalzato sul cuore di Saturna do­po anni di silenzi: «Mamma, mamma».
Ha viaggiato molto, Eluana, nei 17 anni di 'sonno', di ospedale in ospedale, per brevi ricoveri, esami, riabilitazioni, e ogni volta – si legge – «nessun problema durante il trasferi­mento ». È tranquilla, non necessiterebbe nemmeno di farmaci antiepilettici, nessuna crisi, mai. Il penultimo viaggio importante è quello che la porta a Lecco, dalle suore Mise­ricordine, dove la famiglia chiede che sia o­spitata perché è là che Saturna l’aveva parto­rita il 25 novembre del 1970, e là ora avrebbe potuto continuare ad assisterla, a due passi da casa. La speranza non muore, specie se i me­dici a Sondrio hanno scritto che «a tratti fissa e sembra contattabile», o che «se adeguata­mente stimolata esegue ordini semplici», non un mignolo mosso, non un colpo di palpebra ma addirittura «la apertura e chiusura della mano sinistra»...
Fantasie di una madre che vede ciò che vuo­le vedere? No, osservazioni di medici e in­fermieri: «...Emetteva qualche vocalizzo, fis­sava e cercava di incrociare lo sguardo del­l’interlocutore ». «Messa prona con appog­gio sui gomiti accettava la posizione», anche se poi «non riusciva a raddrizzare il capo». « Sembra muovere le dita dei piedi su co­mando... ». Alla fine, «considerata la giovane età della paziente e la continua evoluzione anche se lenta, si consiglia il prosieguo del trattamento riabilitativo».
La speranza non muore, ma ce ne vuole dav­vero tanta, e Saturna si ammala di dolore, le loro strade si separano. Eluana è curata nella casa di cura delle Misericordine fino alla not­te tra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa, quan­do il padre la fa trasferire a 'La Quiete' di U­dine, dove dovrà morire (un ricovero ufficial­mente finalizzato al suo «recupero funziona­le » e «alla promozione sociale dell’assistita»). E durante il viaggio questa volta Eluana si di­batte,
fino a espellere il sondino.

Avvenirre 9 febbraio 2010

«Lei, creatura E l’evidenza della sua vitalità» Suor Albina: così abbiamo accompagnato Eluana «Come si può non amare chi è inerme come un neonato?»

MARINA CORRADI
il fatto

N
evica in questo inizio di febbraio, e il lago è can­cellato dalle nuvole basse. Nella stanza al secondo piano del­la clinica Beato Talamoni Eluana non c’è più da un anno, dalla not­te del 3 febbraio 2009, quando un’ ambulanza la portò via, a Udine, dove sarebbe morta. Quella not­te pioveva forte, e anche oggi su Lecco si rovescia pioggia mista a neve, ed è buio come se l’inverno non dovesse finire mai. In clini­ca, tutto è uguale. Suor Albina Corti, la responsabile, è sempre di corsa tra corridoi e reparti. Quando finalmente si ferma e ti si siede davanti ne incontri il volto aperto da lombarda, restio alle parole e però incline al sorriso.
« Sì, è un anno » , dice, come chi ri­corda qualcosa che ha costante­mente nei pensieri. Poi, cam­biando impercettibilmente il to­no della voce: «Sa, l’altro giorno u­na dipendente è venuta ad an­nunciarmi che aspetta un bam­bino. Era contenta e anche un po’ preoccupata, per via del lavoro. Ma, le ho detto, i problemi li af­fronteremo: intanto dobbiamo essere felici per il tuo bambino che arriva. E insieme abbiamo gioito di questa nuova vita. Allo­ra, istintivamente ho pensato a E­luana. Era viva anche lei, mi sono detta; era anche lei come quel bambino una persona, una crea­tura
» . Una persona, e quasi una figlia, dopo quindici anni qui dentro. Imboccata, lavata, accudita per quindici anni. Suor Rosangela, quella che era accanto a Eluana ogni giorno, non partecipa a que­sto colloquio, non interrompe il suo silenzio. Ma anche nei tratti forti di suor Albina, in quel dire ' era viva', compare un’incrina­tura, l’affiorare di una sofferenza profonda.
Madre, « se per qualcuno è mor­ta, lasciatela a noi che la sentia­mo viva » : furono le vostre sole parole un anno fa. Per molti E­luana era solo un corpo vegetan­te. In quale modo voi la sentiva­te
viva?
« Che fosse viva – risponde la suo­ra – era un’evidenza, e non solo perché respirava naturalmente, senza alcuna macchina. Pensi a un bambino neonato: non capi­sce, non parla, non risponde, ma forse non è una evidenza che è u­na persona? E quel solo suo esse­re
vivo, non dà gioia? »
Le risponderebbero in molti: un bambino cresce e va verso la vi­ta, Eluana era lì da tanti anni im­mobile, assente…

« Non era così totalmente inerte e
assente. Quando la si chiamava per nome reagiva con una quasi impercettibile agitazione che però noi, abituate a starle accan­to, coglievamo. E la sua pelle, sembrava assaporare le carezze. Certo sperare in un migliora­mento non era immaginabile, a meno di chiamare questo miglio­ramento ' miracolo'. Però Eluana era viva. Quando l’altro giorno ho sentito delle ricerche riportate dal
New England Journal of Medicine

su quei pazienti in stato vegetati­vo in cui alcune aree cerebrali rea­giscono agli stimoli, mi sono chie­sta se anche lei non poteva esse­re in simili condizioni » .

Com’era concretamente la gior­nata di Eluana, come viveva in quella stanza al secondo piano?

« Molti si immaginano una came­ra di rianimazione, un corpo at­taccato a una macchina. Qui non c’era nessuna macchina. Eluana respirava naturalmente. Al matti­no
veniva lavata, e per tagliarle i capelli ogni tanto veniva un par­rucchiere. Era una donna fisica­mente sana, bella, non magra, mai ammalata, con una pelle ro­sea da bambino. Dopo l’igiene c’era la fisioterapia, poi veniva messa in carrozzella, se c’era bel tempo si andava in giardino. A Natale, l’avevamo portata in chie­sa con noi » . È la vita che fa oggi in una di que­ste stanze un altro paziente nelle stesse condizioni. Nella sua ca­mera però si alternano la moglie e i parenti e gli amici, in una rete di affetti. Eluana, di visite non ne riceveva quasi: negli ultimi tem­pi il padre aveva ristretto la cer­chia delle persone ammesse a ve­dere la figlia. Suore, infermiere e medici le erano però sempre ac­canto. Suor Rosangela, soprattut­to. E non smettevano di parlarle, come si parla a una persona viva. « Quel giorno che è stato annun­ciato che venivano a prenderla – riprende suor Albina senza guar­darci, come fissa nel suo ricordo – noi non ci credevamo. Era stato minacciato tante volte, e non era successo niente. Quel pomerig­gio invece è arrivato il padre, e mi ha detto che Eluana se ne anda­va. L’ho pregato: ci ripensi, per fa­vore, signor Englaro. Lui non ha risposto, ha salutato e se ne è an­dato. Mi è sembrato in quel mo­mento un uomo pietrificato dal­la sua stessa scelta » . E in quella notte di pioggia, ri­corda la suora, « Eluana sembra­va all’improvviso agitata. Sono ar­rivati gli infermieri. Noi le parla­vamo, le ripetevamo di stare tran­quilla. Le dicevamo che andava in un posto in cui le volevano be­ne » ( di nuovo la voce della suora si incrina). « Le abbiamo dato un bacio. L’hanno portata via » .
L’assedio dei giornalisti, il lam­peggiare dei flash, l’Italia ammu­tolita a guardare. E qui quella stanza abbandonata. Le fotogra­fie
e i quadri alle pareti, i due pe­luches sul letto ( il terribile vuoto delle stanze di chi se ne va per sempre). E le quattordici Miseri­cordine di Lecco a aspettare, in­sieme a tutta la loro congregazio­ne: a pensare a quella ragazza, per quindici anni come una figlia, che andava a morire di sete e di fame. Quelle donne, a pregare.
Madre Albina tace, le parole non possono bastare. Dice solo, pen­sando all’ultimo saluto: « Ho pen­sato che la Via Crucis la si fa da soli. Anche il Signore, quel gior­no, si è trovato solo » .
Dai corridoi intanto, dalle stanze, il sommesso rumore di un ospe­dale
quieto e affaccendato: car­relli che passano, telefoni che suonano, voci. ( Qui e altrove, in chissà quante case di cura, quan­ti malati ogni giorno, passivi in un letto, vengono lavati, curati, ali­mentati come Eluana? Non in sta­to vegetativo magari, ma sempli­cemente persi nella demenza o nell’Alzheimer; o nati incapaci, e per sempre incoscienti e bambi­ni? Li curano, li accudiscono nel­l’antica certezza quasi tacita­mente tramandata dal cristiane­simo: sono persone. Ma, pensate a un mondo di questa certezza di­mentico, che rivendicando li­bertà, diritti e ' dignità della vita' mandi gli inermi a morire, come Eluana. E poi come su Wikipedia affermi di lei: morta ' per morte naturale').
Madre, lei cosa risponderebbe a quelli, e sono tanti, che dicono: se toccasse a me d’essere immo­bile e incosciente in un letto, fa­temi
morire?
« Direi di pensarci davvero. Senza fermarsi a immaginare astratta­mente ciò che non sanno. Perché organizzano una vita da malati di cui non hanno alcuna esperienza. E una morte, di cui sanno ancor meno » .
Una pausa. « Perché, vede – e qui la suora sembra riprendere ener­gia e speranza – certi pazienti co­me Eluana bisogna vederli con i propri occhi. Non immaginarli soltanto: perché allora prevale la paura. Vederli come sono, vivi, in una stanza piena delle loro cose, come una stanza di casa nostra; vivi e così indifesi, così inermi. Proprio come bambini neonati. Come si può non amare chi è co­sì inerme e bisognoso di noi, an­che se non capisce e non rispon­de? Come si può non amare un bambino? » .
E c’è in questa domanda la chia­ve della dedizione delle Miseri­cordine a Eluana, e di tanti altri, a tanti altri sconosciuti malati. Un amore per la vita non astratto, ma che attinge alla sorgente di una maternità profonda, e più gran­de di quella carnale. Dove un pa­dre ha giudicato che quel modo di vita era intollerabile, non degno, delle madri per quindici anni hanno abbracciato: grate di un fremito della pelle, grate comun­que di quel respiro. Come due di­versi sguardi sul mondo si sono incrociati sopra a questa tran­quilla clinica di Lecco. Poi, quel­la notte, l’ambulanza è partita e E­luana se ne è andata. Altri come lei, forse, arriveranno. E suor Al­bina e le sue sorelle e le infermie­re li cureranno. Serene, certe. Co­me dicendo, nella forza pacata delle loro facce: « Non vedete? È un’evidenza, che sono vivi » .

«Era una donna fisicamente sana, non magra, mai ammalata, con una pelle rosea. Dopo la fisioterapia veniva messa in carrozzella, se c’era bel tempo si andava in giardino».

Avvenire 9 febbraio 2010

AD UN ANNO DA ELUANA. È SEMPLICE STARE DALLA PARTE GIUSTA

MARCO TARQUINIO
A
mare la vita umana, difenderla, sostenerla e – comunque e sempre – accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo. E viene na­turale. È naturale e umano proteggere chi è piccolo e fragile, aiutare chi è in pericolo, consolare chi sof­fre. È naturale e umano dar da mangiare e da bere a chi non può provvedere da solo. Innaturale e terri­bile è invece l’idea di negare, in qualunque modo, la vita di chiunque o anche solo di abbandonarla nel­la debolezza, nell’estrema dipendenza, nella diffi­coltà. Innaturale e terribile è anche solo pensare di lasciar andare alla deriva una persona totalmente disabile.
Amare la vita è semplice. E, infatti, sono le persone semplici che sanno farlo meglio. Quei semplici che sono semplici perché – per quanto abbiano speri­mentato, per quanto abbiano studiato, per quanto abbiano indagato – hanno colto, e conservano, il sen­so di una verità basilare: ogni essere umano è « de­gno » e nessuna vita, mai, è padrona di un’altra vita. Quando le cose, dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte, sono così chiare, è facile capire che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Chi sta con la vi­ta – chi è per la vita – mai la ferisce e mai arbitraria­mente la finisce. Chi coltiva un’idea di morte – chi si allea con la morte – fa l’esatto contrario. Eppure, og­gi, c’è molto che sembra rendere incredibilmente ar­dua la comprensione di che cosa è giusto e di che co­sa è sbagliato. E c’è chi tenta, in tutti i modi, di ren­derci difficile, addirittura impossibile, dire dei « sì » e dei « no » limpidi e chiari.
Per questo, oggi, a un anno dalla dolorosissima mor­te di Eluana Englaro « per disidratazione » , cioè per sete – così ha certificato l’autopsia –, ci sembra im­portante tornare a indicare a noi stessi e a tutti, con la necessaria chiarezza, l’esempio di coloro che, con dolcezza e sapienza umana e medica, amano e ser­vono
la vita e non la negano. Vi raccontiamo le suore Misericordine che nella ca­sa di cura ' Talamoni' di Lecco continuano a offrire ai loro pazienti la stessa dedizione e la stessa fedeltà che diedero per 17 anni alla giovane donna in stato vegetativo persistente poi portata a morte a Udine. E vi raccontiamo i medici che al Centro ' Cyclotron' dell’Università di Liegi stanno dando nuove e sem­pre più impressionanti risposte scientifiche alle do­mande di chi non s’arrende e non dichiara perse e « senza qualità » le persone classificate in stato vege­tativo. Facciamo parlare Lucrezia ed Ernesto Tresol­di che hanno riavuto il loro Massimiliano, dopo die­ci anni di asserito stato vegetativo «permanente» (ag­gettivo oggi abolito dagli uomini di scienza, tranne che da quelli superficiali o tenacemente pro- euta­nasia), perché l’amore aiuta i « miracoli » e quel figlio ferito e perso in una disabilità sconfortante loro non l’hanno mai voluto lontano dalle loro vite e da casa sua. E diamo voce a tutte le altre famiglie toccate dalla durissima prova di una persona cara e presen­te chiusa in uno stato che la rende apparentemente o effettivamente « irraggiungibile » ( famiglie che non lasciano soli questi loro congiunti, ma che, troppe volte, sono lasciate drammaticamente sole dalle pub­bliche strutture di assistenza). Questi sono gli esempi, i fatti. E poi ci sono le chiac­chiere. I digrignanti sofismi di chi vuol far credere che accudire i malati più gravi, i cosiddetti « senza spe­ranza » , sarebbe crudele. Le algide polemiche di chi osa descrivere come una « violenza » le tenere cure prestate a chi non può badare a se stesso. L’alterigia antidemocratica di chi invoca l’azione di « saggi ma­gistrati » per sovvertire le leggi che già stabiliscono (come la legge 40) o, si spera, stabiliranno presto (co­me la legge sulle dichiarazioni anticipate di tratta­mento) un limite di rispetto nella manipolazione della vita nascente e un dovere minimo di assisten­za degli inabili. Le chiacchiere anche feroci di chi, in­somma, pretenderebbe di rovesciare il senso reale delle cose. Fino a dichiarare « inumano » lo stare, sen­za esitazioni e senza accanimenti, semplicemente dalla parte della vita.
Parole cattive, ferrigne propagande che non valgo­no un attimo del tempo di ricerca e di cura del pro­fessor Laureys o del professor Dolce e neanche il più piccolo e umile dei gesti che compiono ogni giorno, a Lecco, suor Albina e le sue consorelle. Parole cat­tive che vogliono rendere « morte » sinonimo di « li­bertà » , e perciò non sono e non saranno mai spec­chio
dell’animo vero della gente.

Avvenire 9 febbraio 2010

La morte di Eluana e l'assuefazione all’“evidenza negata”. di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 27 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Ha destato scalpore la lettura della 'Re­lazione di consulenza tecnica medico-legale', relativa alla morte di Eluana Englaro, fatta dal gip di Udine in occasione della seduta in cui ha de­finitivamente stabilito che il tut­to è avvenuto “regolarmente”.

Nella relazione vengono riportate le note dell’équipe del dottor Amato De Monte che sede­va accanto a Eluana e registrava di ora in ora gli “elementi indicativi di sofferenza”.

Come ha riportato Lucia Bellaspiga sulla pagine di Avvenire (14 gennaio 2010) si tratta di un rapporto “meticoloso”, in cui è descritta l’agonia di Eluana.

“La sua voce – è scritto – si è sentita sette volte”. I suoni si moltiplicano il 4, il 5 ed il 6 di febbraio. Una infermiera ha annotato 'Sembrano sospiri'. L’8 di febbraio (il giorno prima di morire) il rapporto parla di “nessun suono”, ma ore e ore di “respiro affaticato e affannoso”. Nei palmi delle mani, strette, i segni delle sue stesse unghie.

Un gelo al cuore la descrizione del cadavere: “Trattasi di cadavere femminile, della lunghezza di circa 171 centimetri, del peso di 53.5 chili, cute liscia ed elastica, capelli neri... Entrambi i lobi pre­sentano un foro per orecchini. Indossa una camicia da notte in cotone rosa”.

La relazione è agghiacciante non solo perchè mostra che Eluana mostrava segni di evidente e solida vitalità, ma soprattutto conferma l’atroce sofferenza a cui è andata incontro morendo di sete.

Intervistata da ZENIT la dott.ssa Chiara Mantovani, Vicepresidente nazionale per il Nord Italia dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI), ha osservato che l’articolo pubblicato da “Avvenire” “avrebbe dovuto scatenare polemiche, cortei, manifestazioni pubbliche e scioperi della fame. Invece, niente”.

“Neppure di fronte al racconto discreto ma agghiacciante della morte di Eluana – ha affermato –, neppure davanti a frammenti di cronaca in differita che muovono lo stomaco, si è mosso chicchessia, nessun profeta della morte pietosa si è indignato per come è morta la Englaro”.

La Vicepresidente dell’AMCI sostiene che purtroppo ci stiamo “abituando all’evidenza negata” e fa l’esempio della pillola abortiva RU 486 mostrata come “innocua, discreta, civile e rispettosa della legge 194/78”.

“Neppure – ha aggiunto – quando si viene a sapere ufficialmente che in Emilia Romagna ci si fa un baffo delle regole per la somministrazione, così che l’aborto è diventato davvero un fatto privatissimo e clandestino – nel senso che non ha diritto di cittadinanza nelle preoccupazioni sociali ed etiche –, neppure allora qualcuno si sente in dovere di chiedere scusa”.

Per la Mantovani, “nessuno chiede scusa o dice mi sono sbagliato perchè domina l’ideologia del ‘quel che voglio, quando lo voglio, perché lo voglio’ non si ha tempo per ragionare e ripensare, magari persino pentirsi. I fatti? Tanto peggio per i fatti”.

In merito alla vicenda della Englaro la dott.ssa Mantovani ha sottolineato i fatti contenuti nella 'Re­lazione di consulenza tecnica medico-legale' e cioè: “Eluana non presentava un fisico minato, si è lamentata fino a che ne ha avuto la forza, e il modo di nutrirla non poneva problemi medici”.

“Evidentemente – ha argomentato l’esponente dell’AMCI - i problemi erano di altro tipo, stavano (e restano) nello sguardo con cui ci si rivolge a persone come lei: scomparsa per sentenza la compassione che ha generato in due millenni l’assistenza ai bisognosi, negata la dignità senza condizioni per ogni essere umano, subordinato il diritto di vivere al desiderio proprio o di altri, non ci si può meravigliare se ci guardiamo reciprocamente con sospettosi criteri di efficienza”.

Inoltre ci sono anche dati tecnici che “inquietano” ed in particolare la “mezz'ora tra il decesso e la registrazione dell'elettrocar­diogramma” giustificata come un “ritardo dovuto alla difficoltà di reperimento del­lo strumento”.

A questo punto la Mantovani pone domande scottanti: “Che forse il personale della clinica di Udine non si aspettava di dover utilizzare un elettrocardiografo per stilare il certificato di morte di una donna portata lì per morire? Difficoltà di reperire uno strumento? Credibile in queste ore a Port-au-Prince, non alla Clinica 'La Quiete'”.

La Relazione parla di Eluana che 'ha capelli neri, cute liscia ed elastica, corpo normale, nessun decubito'. E dicevano che ormai era morta. Ma la Mantovani aggiunge: “e se fosse stata piagata, calva, magra? Allora l’opinione pubblica, sarebbe più tranquilla?”.

“Forse sì – risponde -, perché sembra che un sottile e insapore veleno sia stato messo nell’acqua potabile: l’indifferenza e la presunta pietà (così la chiamava Giovanni Paolo II, nella Preghiera per la vita) conducono alla stessa irragionevole persuasione, che se non sei viva secondo i parametri dell’efficienza e della bellezza e della comunicazione, non sei davvero viva”.

“Non c’è rimedio ad un tale avvelenamento della ragione (quella che interroga obiettivamente i fatti e ne trae conseguenze e assume responsabilità anche quando costano) - ha aggiunto la Vicepresidente per il Nord dell’AMCI - se non l’esercizio quotidiano e oggi eroico del rispetto per il reale”.

E allora, ha concluso, “facciamo il possibile per accorgerci del reale prima che ce lo raccontino i certificati di morte”.

Eluana, Porta Pia, la gnosi e l’Europa. di Angela Pellicciari

Un noto professore di bioetica pubblica un libro con prefazione di Beppino Englaro. E paragona il caso Eluana alla breccia di Porta Pia. Sullo sfondo, ben visibile, l’antica eresia gnostica. Che odia la vita.


[Da «il Timone», n. 85, luglio/agosto 2009]

«Più che di per sé (di persone ne muoiono tante, anche in situazioni ben peggiori), il caso Eluana è importante per il suo significato simbolico. Da questo punto di vista è l’analogo del caso creatosi con la breccia di Porta Pia attraverso cui il 20 settembre 1870 i bersaglieri entrarono nella Roma papalina»: così scrive il professore di bioetica Maurizio Mori in un libro pubblicato di recente con la prefazione di Beppino Englaro.

Cosa c’entra Eluana col Risorgimento? C’entra. E molto. Come nel 1861 trionfano quanti pensano che gli italiani, per essere civili, debbano smettere di essere cattolici, così ora, auspica Mori, è stata aperta una breccia che provocherà il cambiamento della «idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria [...] per affermarne una nuova da costruire».

Nel Risorgimento trionfa il pensiero liberal-massonico nemico della Rivelazione e del Magistero, come oggi, così afferma il direttore dell’Avvenire Dino Boffo intervistato il 4 marzo sul Foglio da Nicoletta Tihiacos, vince papà Englaro sostenuto nella sua battaglia da «una cupola di indole massonica, che ha messo in campo una solidarietà formidabile, cementata in modo trasversale, capace di superare qualsiasi appartenenza politica, di categoria, di professione».

Cosa accomuna il Risorgimento al caso Englaro? La volontà gnostica di cambiare la realtà (la massoneria è una forma di gnosi). Si definiscono gnostici coloro che ritengono di incarnare l’avanguardia morale ed intellettuale dell’umanità. Gnostico, alla lettera, è colui che conosce, colui che sa. Gli gnostici sono convinti che loro spetti il compito di illuminare gli ignoranti (cioè quasi tutti) sulla direzione di marcia della storia. Certi di essere i migliori, hanno la convinzione che il loro sia un pensiero scientifico, capace di indicare con sicurezza in quale direzione l’umanità debba procedere per marciare spedita verso il progresso. Nemico del limite, che nega per principio, convinto di essene in grado di definire che cosa è bene e che cosa è male, il pensiero gnostico è all’origine delle immani catastrofi che hanno caratterizzato l’epoca moderna. Si va dalla Rivoluzione Francese, che vuole fare nuove tutte le cose ricorrendo al terrore, alla carneficina che Napoleone esporta in tutta Europa. La gnosi non si ferma mai. Non ammette i propri errori. Non ammette che la negazione del limite e della legge naturale portino inevitabilmente con sé la distruzione di tutto ciò che è umano.

Dopo il disastro dell’Illuminismo, invece di tornare a Dio si passa ad una nuova forma di idolatria e ci si rifugia nell’intimità del Romanticismo. Tempo qualche decennio e si torna a progettare alla grande lo Stato, definito “etico”: è la volta del Liberalismo. Tanto per fare un esempio, è in nome della scienza che Cavour decreta la morte per legge degli Ordini religiosi. Il progresso incarnato dal liberalismo, spacciato per scientifico, costa agli italiani, ridotti in miseria, un’emigrazione di massa. Nel Novecento arriva l’epoca del totalitarismo, propagandato ancora una volta in nome della scienza. Comunismo e nazismo sono due visioni del mondo che ritengono di essere scientifiche: l’uno crede nel socialismo, definito scientifico, di matrice marxista, l’altro nella scientifica dottrina della razza.

Ridotto il mondo in rovine, la gnosi vira ancora una volta passando dall’idolatria dello Stato a quella dei desideri individuali. E cosi, in nome della scienza, si è arrivati a negare l’evidenza: l’umanità non sarebbe più biologicamente divisa in due sessi, ma culturalmente caratterizzata da cinque generi fra cui i bambini devono imparare ad orientarsi per scegliere quello ad essi più congeniale. E così il Parlamento europeo è stato capace di condannare la Santa Sede ben trenta volte: per violazione dei diritti umani. Quei diritti che gli gnostici ritengono di essere gli unici a conoscere e definire. E così il Preambolo della Carla Europea dei Diritti specifica che compito dell’Unione è: «rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce dell’evoluzione della società, del progresso sociale e degli sviluppi scientifici e tecnologici».

Diritti intesi a partire dagli “sviluppi scientifici e tecnologici”! Diritti relativizzati, cangianti da epoca ad epoca, da ideologia ad ideologia, che garantiscono solo quelli che li vanno codificando, beninteso in nome della tecnoscienza. I diritti umani, al contrario, ricorda Papa Ratzinger all’ONU nell’aprile del 2008, «sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo […] rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti».

Tornando ad Eluana e al libro di Mori: questi si ripromette di far trionfare una nuova concezione della vita e della morte. Il bioeticista pensa che sia ora di farla finita con la concezione sacrale della vita umana: «Come Porta Pia è importante non tanto come azione militare quanto come atto simbolico che ha posto fine al potere temporale dei papi e alla concezione sacrale del potere politico, così il caso Eluana apre una breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione sacrale della vita umana». Parole forti. Parole che si comprendono forse meglio tenendo presente un altro luogo comune della gnosi: la convinzione che la materia, che i corpi, che la creazione, siano il prodotto di un dio malvagio. L’idea che prima ci si libera del corpo meglio è.

Se si tiene presente il desiderio titanico con tanta lucidità espresso da Mori, se di tiene presente che si vuole affermare una nuova concezione dell’umanità (vale la pena di ripeterlo: si tratta di «cambiare l’idea di vita e di morte ricevuta dalla tradizione millenaria»), si possono anche cogliere gli elementi comuni che unificano tanta parte delle convinzioni maturate negli ultimi decenni. E cioè: la liberalizzazione della droga, la pretesa che il vero problema sia la sovrappopolazione, la convinzione espressa con sempre maggiore frequenza che l’unico animale distruttivo sia l’uomo, la santificazione dei preservativi, l’affermazione dell’aborto come diritto, la promozione della sessualità per definizione slegata dalla capacità riproduttiva. Come interpretare diversamente la notizia riportata dal Corriere della Sera del 16 gennaio 2008 di un «invito informale, qualche sera fa, all’università di Hong Kong, per una cena a buffet, a un patto: che gli studenti fossero tutti gay o lesbiche. Ospite della serata una banca d’affari, il colosso americano Lehman Brothers». Come mai una banca d’affari (l’unica fallita!) promuove l’omosessualità? Come mai invece di pensare a far soldi i manager della Lehman pensano a come indirizzare i comportamenti sessuali degli studenti? Bisogna ammettere che la cultura moderna è impregnata di gnosi. Gnostica è anche la bordata finale: la diretta, aperta, sponsorizzazione della morte. La propaganda per la “buona morte”, la “dolce morte”. Anche questa scientificamente, asetticamente, procurata. Chiunque abbia assistito ad un’agonia, di uomini come di animali, sa che la morte non è né dolce né buona. La vita combatte con tutte le sue forze contro la morte. Perché la morte è l’unica realtà che Dio non ha creato: «la morte è entrata nel mondo per invidia di Satana», scrive la Sapienza. Gesù Cristo si è incarnato per vincere la morte. La morte può, sì, essere vissuta insieme a Cristo santamente, ma è sempre il dramma supremo della vita umana. Il mito della dolce morte è il punto di arrivo della ribellione a Dio “amante della vita”.

La popolazione italiana, nonostante tutto, resiste alla gnosi. Roma tiene saldamente in mano la fiaccola della libertà nella verità. Il Papa rivendica la forza del logos, della ragione dell’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio. L’attacco gnostico a Roma e agli italiani sferrato nell’Ottocento dal pensiero liberale ha prodotto ingiustizie colossali ed il dramma dell’emigrazione. Oggi la breccia di Porta Pia rischia, per noi, di essere l’Europa. In nome dell’uguaglianza e della qualità della vita rischiamo di vederci imporre leggi contro la vita ed il diritto naturale.

© il Timone
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La morte di Eluana? Da archiviare. Per teorema

di Alberto Gambino
L
a decisione del Gip di Udine, che ha archiviato il procedimento penale a carico di Beppino Englaro e di altri 13 sanitari indagati per la morte di Eluana, si colloca all’interno di quella
tendenza dei nostri magistrati di considerare 'diritto', cioè legge dello Stato, ciò che è piuttosto frutto di orientamenti giudiziari. Il ragionamento alla base di questo tipo di decisione considera ogni singola sentenza della magistratura come un tassello che, aggiungendosi a quanto disposto da altri giudici, offre nel suo insieme il quadro delle regole applicabili nei confronti di quelle vicende che non trovano nella legge una disciplina espressa.

D
unque, per entrare nel caso concreto, le posizioni di Beppino Englaro e di altre 13 persone indagate per il reato di omicidio volontario vanno archiviate in quanto la morte di Eluana, pur configurandosi come decesso provocato dalla volontaria interruzione del sostentamento a opera dei soggetti indagati, tuttavia sarebbe conforme alle indicazioni della magistratura. Tale circostanza rende così applicabile al caso in questione l’articolo 51 del Codice penale, che prevede la non punibilità per i comportamenti posti in essere a seguito di un ordine dell’autorità o di una norma giuridica. In realtà, però, la causa di giustificazione che esclude la punibilità in questo caso consegue, da un lato, a un provvedimento autorizzatorio emanato da un giudice, e, dall’altro, all’interpretazione che di quel provvedimento ha dato un altro giudice.

P
er essere precisi, la posizione di Beppino Englaro va archiviata in quanto la Corte d’Appello di Milano lo aveva autorizzato a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale somministrato tramite sondino alla figlia; la posizione dei sanitari, che materialmente hanno provocato il decesso, va archiviata in quanto, come ha disposto il Tar della Lombardia, la prima decisione (quella della Corte d’Appello di Milano emessa solo nei confronti del tutore Englaro) in realtà sarebbe stata 'operativa' non solo nei confronti di Englaro, ma anche nei confronti del personale sanitario. Ora si usa il condizionale non già perché la sentenza del Tar Lombardia potrebbe comunque aver dato una lettura erronea della vicenda, ma per una ragione ben
più importante: quella decisione del Tar, e dunque quella interpretazione su cui il Gip di Udine fonda parte decisiva del decreto di archiviazione, è stata impugnata ed è tuttora pendente davanti al Consiglio di Stato, e non è perciò da considerarsi decisione definitiva.

D
unque l’impalcatura su cui si regge la giustificazione della non punibilità dei sanitari che hanno eseguito il distacco del sondino non può
lì trovare le sue fondamenta. Non è stato, infatti, risolto definitivamente il nodo giudiziario se il decreto ottenuto dal tutore Englaro avesse forza espansiva tale da operare anche nei confronti di altri enti e cittadini (cioè strutture e medici) estranei al giudizio. Ed è noto che, di regola, i decreti di autorizzazione legittimano al compimento dell’atto autorizzato esclusivamente il soggetto richiedente.

I
l tragico epilogo della vicenda, deviata dagli schemi giudiziari della
giurisdizione amministrativa incardinata con il Tar lombardo (tant’è che il procedimento penale poi si è svolto ad Udine, luogo dove si è eseguita l’interruzione del sostentamento ed è avvenuta la morte della paziente), ha lasciato insoluta la questione dell’operatività del decreto anche per i sanitari. Si finisce così col ragionare in base a un assioma: che il decreto che autorizzava il tutore Englaro a disporre il distacco del sondino operasse anche verso strutture di assistenza e personale sanitario, come argomentato dalla decisione del Tar Lombardia, dimenticandosi però che questa tesi, come detto, non ha ancora ricevuto il rango di giudicato definitivo, essendo pendente ricorso davanti al Consiglio di Stato.
T
esi, dunque, legittima, ma discutibile, e riguardante un tema enorme, che coinvolge prerogative di soggetti pubblici, contenuti professionali di chi presta assistenza alla cura, necessaria omogeneità dei protocolli regionali e principio di unitarietà del nostro sistema sanitario, solo per citare alcuni aspetti. Ma, soprattutto, tesi priva di esplicita soluzione giurisprudenziale definitiva e, dunque, non idonea a configurare causa di giustificazione rispetto a un comportamento inquadrabile in una fattispecie
penale.

«Permanente»? Solo l’ignoranza. Approssimazione terminologica, svarioni scientifici, omissioni decisive E una definizione di «stato vegetativo»

Giusto un anno fa, in questi stessi giorni, si discuteva su dove po­tesse essere attuato il decreto della Corte di Appello di Milano che consentiva a Beppino En­glaro di sospendere alimentazione e idratazione a sua figlia. Un posto disponibile fu trovato, per una tragica ironia della sorte si chiamava «La Quie­te ». Poco dopo Eluana vi è morta disidratata, in una delle settimane meno 'quiete' della storia del nostro Paese. È morta «improvvisamente», ci ha spiegato chi ha fatto l’autopsia. La sua agonia non è durata a lungo, come invece è accaduto a Terry Schiavo, ma è una ben magra consolazione per chi ha lottato fino all’ultimo perché Eluana continuasse a vivere.
A
quasi un anno di distanza, i cosiddetti 'gran­di giornali' ancora insistono nel dire che quel­la di Eluana non era una vita. Prima di Nata­le sul settimanale del
Corriere della Sera Umberto Veronesi, che pure è un dottore di prima qualità, ha elencato una imbarazzante serie di impreci­sioni. Ad esempio, il celebre medico spiega con sussiego che «dal coma permanente (come espri­me il termine stesso) non si torna indietro mai». Ma in medicina il «coma permanente» non esi­ste, mentre un’espressione simile – «stato vegeta­tivo permanente» – è stata abbandonata dalla co­munità scientifica nel 1996. Difficile attribuire lo svarione all’ignoranza. Veronesi, poi, definisce quella di Eluana una vita «artificiale». Ma sappia­mo bene che ad assisterla erano suore senza spe­cializzazione medica: semplicemente se ne pren­devano cura, con la pulizia personale, con la fi­sioterapia, e per nutrirla si servivano di un sondi­no nasogastrico, non c’erano macchinari: quale sa­rebbe stata l’artificialità?
S
appiamo piuttosto dagli studi degli ultimi an­ni che spesso c’è una vita nascosta nelle per­sone in stato vegetativo, un’attività cerebrale insospettata e misteriosa, che solo adesso, con le nuove tecnologie, ha iniziato a svelarsi. «Un cor­po senza vista, senza parola, senza udito, e so­prattutto senza coscienza, solo perché gli organi viscerali funzionano e il cuore continua a batte­re », spiega invece Veronesi. Tralasciando pure il fat­to che nessuno al mondo, fino a oggi, è mai riu­scito
a misurare la coscienza delle persone, com­prese quelle in stato vegetativo, poiché la coscienza non è un parametro misurabile come, per esem­pio, il colesterolo, bisogna dire che è veramente una perfidia parlare della vita di Eluana in termi­ni di «organi viscerali» funzionanti. Significa vo­ler ridurre una persona alle sue ultime necessità corporali, quelle meno nobili: evocare le viscere di una persona per far intendere che la sua vita vale poco, ci pare, in tutta onestà, un escamotage meschino.
V
eronesi cita poi il «coraggio e il senso civile» di Beppino Englaro, che però nel frattempo non è diventato un eroe nazionale. Nono­stante il grande spazio che i media gli hanno con­tinuamente e generosamente dedicato, Beppino non ha conquistato l’opinione pubblica, e nep­pure la politica, che non ha mai davvero cercato di coinvolgerlo. La morte solitaria di Eluana nel­la clinica di Udine, lontana dalle suore che l’han­no accudita tanti anni, e pure dalla sua famiglia, è qualcosa che la gente ricorda malvolentieri, e che ha lasciato l’amaro in bocca a tutti. C’è una legge intanto in Parlamento, che aspetta di essere ap­provata, perché come Eluana non muoia più nes­suno. Il Senato ha fatto la sua parte. Aspettiamo che la Camera confermi il testo, che speriamo ri­manga così com’è. Mai più un’altra Eluana.

Avvenire 14 gennaio 2010

IL « DISPIACERE » DI AUGIAS PER AVER DETTO IN TV DI « MONACHE » E MORTE A PAGAMENTO. Scuse. E troppe altre parole

I eri, in prima pagina, avevamo invitato Corrado Augias a scusarsi. Con le suore Misericordine, e con tutte le suore italiane che accudiscono malati, accusate di essere capaci di sopprimerli per cento euro sottobanco. Un grossolano e sprezzante esempio di anticlericalismo rigurgitato martedì in diretta sul servizio pubblico televisivo, durante il 'Diario italiano' di Rai3.
Ieri, l’imperturbabile giornalista e condutto­re ha aperto la trasmissione leggendo pub­bliche scuse di questo genere: «Comincio con una precisazione doverosa. Nella punta­ta
di martedì, ospite Gustavo Zagrebelsky, si accennava al caso di Eluana Englaro, diven­tata un caso nazionale e di coscienza. Rife­rendo le parole testuali di un medico di un ospedale romano, io ho detto: 'Invece di fare tutto quel putiferio, il signor Englaro, avreb­be fatto meglio ad allungare cento euro alla monaca e a farla finita'. Non intendevo in alcun modo riferirmi alle religiose Miseri­cordine che hanno assistito Eluana nel suo penoso decorso, e anzi dirò di più: mi di­spiace del possibile equivoco. Quelle parole vanno intese come metafora, rimandavano e rimandano a un problema generale; e cioè che, sollevando il caso di principio, il signor Englaro ha consegnato un risultato contra­rio alle sue aspettative e a quelle di numerosi italiani. Una cattiva legge, come quella che si sta preparando, è peggio di quel tacito ac­cordo che ogni giorno negli ospedali di tutto il mondo lascia agli interessati e ai medici la soluzione umana del problema». Prendiamo atto del «dispiacere» prontamente espresso da Augias. Ma notiamo con rinnovato di­spiacere nostro – noi che la parola «monaca» la pronunciamo ed evochiamo con grato ri­spetto – che all’esercizio moderato delle scu­se, Augias ha accompagnato – inesorabile e inelegante – l’enfasi della propaganda (fino a definire «umana» la mercanteggiata soluzio­ne finale per malati e disabili gravissimi) e un increscioso arrampicarsi sugli specchi.
Una metafora la «monaca» cinica? Una me­tafora nella metafora il prezzo di una vita fis­sato in una 'mancia' di cento euro? Ha det­to molto, Augias, e infine troppo. Bastava di­re:
ho sbagliato. (mt)

Avvenire 14 gennaio 2010

NELLE CARTE IL GELO DI UN’AGONIA PROCURATA E NUDE VERITÀ Eluana non era «devastata» ma è stata straziata

LUCIA BELLASPIGA
« I
n data 9 feb­braio il cadavere del­la signorina E­luana Englaro veniva trasferi­to all’obitorio della 'Quiete' su barella in ac­ciaio. Trattasi di cadavere fem­minile, della lunghezza di circa 171 centimetri, del peso di 53.5 chili, cute liscia ed elastica, ca­pelli neri... Entrambi i lobi pre­sentano un foro per orecchini.
Indossa una camicia da notte in cotone rosa». Il resto ve lo rispar­miamo. Dura 133 pagine la 'Re­lazione di consulenza tecnica medico-legale', letta la quale il gip di Udine l’altro giorno ha de­finitivamente stabilito che il tut­to è avvenuto 'regolarmente'.
Un testo che si regge a fatica e che toglie il sonno, e non tanto nelle pagine dell’autopsia, quan­do ormai Eluana è morta, ma in quelle tragiche, disumane dell’a­gonia, quando era viva e nelle stanze udinesi della 'Quiete' la
si faceva morire.
Ora lo sappiamo: nei giorni e
nelle notti in cui alla giovane donna venivano sottratti l’acqua e il nutrimento (il sostegno vita­le, lo chiama il documento), l’é­quipe del dottor De Monte sede­va accanto a lei e la osservava, prendeva appunti, diligente­mente compilava di ora in ora la 'Scheda di rilevazione degli ele­menti indicativi di sofferenza'.
Una crocetta alla voce 'respiro affaticato e affannoso' ne indica frequenza e durata, un’altra rile­va 'l’emissione di suoni sponta­nei', un’altra ancora i singoli la­menti sfuggiti a Eluana 'durante il nursing', ovvero mentre le ma­ni di medici e infermieri nulla 'potevano' per salvarle la vita e dissetarla (il Protocollo parlava chiaro, e loro erano lì per appli­carlo, volontari), ma sul suo cor­po continuavano a operare quel­le piccole attenzioni richieste dallo stesso Protocollo: 'Si pro­cederà all’igiene giornaliera di routine al fine di garantire il de­coro...'. Il decoro.
Sono pagine meticolose, capilla­ri. Gelide. Il 3 febbraio, primo giorno di ricovero alla 'Quiete' di Udine (nel cuore della notte la
giovane era stata prelevata da un’ambulanza e strappata alla clinica di Lecco dove viveva da quindici anni), la voce di Eluana si è sentita sette volte, e l’équipe solerte le ha annotate tutte. I suoni si moltiplicano il 4, e poi il 5, finché il 6 (all’alba di quel giorno si è smesso definitiva­mente di nutrire e dissetare la giovane) la mano di un’infermie­ra scrive per la prima volta: 'Sembrano sospiri'. E forse lo sono, se il giorno 7 cessano an­che quelli. Eluana morirà im­provvisamente già il 9 febbraio alle 19 e 35, senza più la forza di gemere: 'nessun suono', ma ore e ore di 'respiro affaticato e af­fannoso'. Nei palmi delle mani, strette, i segni delle sue stesse unghie.
Ancora più esplicite le pagine del diario clinico di quei sette giorni udinesi, racconto di un’a­gonia che inizia sull’ambulanza, quando il dottor De Monte an­nota la terribile tosse che scosse Eluana, e prosegue con asettico cinismo: Eluana si lamenta, E­luana non ha quasi più saliva, non suda nemmeno più, le mu­cose si asciugano, 'iniziata umi­dificazione', 'idratata la bocca', 'frizionata su tutto il corpo con salviette rinfrescanti'. Il decoro.
L’igiene. C’è anche lo spasmo con cui la prima notte arrivò a e­spellere il sondino: allora lo scri­vemmo e ci diedero dei bugiar­di... 'Non eseguito cambio pan­nolone perché non urina più': è il giorno della morte. Tutto rego­lare, dicono i magistrati, tutto
perfettamente annotato. A parte quella mezzoretta tra il decesso e la registrazione dell’elettrocar­diogramma, un 'ritardo dovuto alla difficoltà di reperimento del­lo strumento', scrive il capo dell’équipe... A parte, ancora, quelle tre ore che l’8 febbraio, il giorno prima della morte, in pie­na agonia, una giornalista di Rai 3 Friuli e un fotografo trascorro­no nella stanza di Eluana ripren­dendone gli affanni.
Ci avevano detto che Eluana non avrebbe sofferto, e veniamo a sa­pere che morì tra gli spasmi, con 42 di febbre. Che da molti anni pesava 65 chili. Che risultava «o­biettivamente in buone condi­zioni generali e di nutrizione, con respiro spontaneo e valido, vigile durante buona parte della giornata». Che da due anni ave­va di nuovo «il mestruo». Che l’alimentazione col sondino «non aveva mai dato complican­ze » e i «parametri vitali si erano sempre mantenuti stabili, la pa­ziente non ha presentato mai patologie ad eccezione di spora­diche bronchiti-influenzali, prontamente risolte con antipi­retici ». Ce l’avevano descritta co­me un corpo 'inguardabile', u­na vista 'devastante, piagata dal decubito, magra come uscita da un campo di concentramento'.
È pure calva, aggiunse Roberto Saviano... 'Ha capelli neri, cute liscia ed elastica, corpo normale, nessun decubito', recita ora l’autopsia. Ma lo attesta il perito: «Le disposizioni sono state mi­nuziosamente seguite».

Avvenire 14 gennaio 2010

«Su Eluana mancavano certezze scientifiche» Il neurologo Laureys: l’autopsia non fuga i dubbi

DA R OMA P INO C IOCIOLA
« S
ono sicuro di poter sostenere con for­za un’unica cosa: di assoluta assenza di sofferenza si può parlare esclusiva­mente in pazienti anencefalici, cioè che non han­no più la corteccia cerebrale » , e non era il caso di Eluana Englaro: Steven Laureys dirige il ' Coma Science Group ', conduce da molti anni ricerche sui criteri diagnostici più effi­caci per determinare le percezioni nei pazienti in coma, in stato vegetativo e in minima coscienza ed è, probabilmente, il più au­torevole scienziato mon­diale su questi temi.
Ha letto l’autopsia fatta su Eluana. Nella quale ad esempio si certifica che il suo cervello « pesa­va 1.100 grammi » ed era « normoconformato » , cioè assolutamente normale come massa e peso rispetto al corpo di Eluana, che era alta 171 cen­timetri e pesava (al momento della morte) 53 chi­li e mezzo. Corpo sul quale « non si evidenziano
decubiti » . E tanto altro.
Sebbene attraverso un’analisi post mortem, pro­fessor Lauryes, si può stabilire adesso se Eluana fosse in uno stato vegetativo persistente o in quello di coscienza minima?

No. Sulla base delle nostre conoscenze, gli esami

post mortem
non consentono di distinguere tra uno stato vegetativo e uno di minima coscienza. Lo stato vegetativo e quello di coscienza minima sono comunque diagnosticati a livello clinico.
A Eluana restava almeno una flebile possibilità di riacquistare parte della sua coscienza?

Al momento sappiamo che le possibilità di ' re­cupero' dopo dodici mesi in stato vegetativo po­st- traumatico sono vicine allo zero, mentre per gli stati di coscienza minima non abbiamo crite­ri temporali per l’irreversibilità. Sappiamo sol­tanto che le possibilità di recupero in uno stato di coscienza minima sono maggiori che per lo stato vegetativo.

A quali accertamenti avrebbe dovuto essere sot­toposta Eluana – in vita – per una corretta dia­gnosi
del suo quadro clinico?
Come abbiamo recentemente dimostrato ( con la pubblicazione sull’autorevole rivista di neurolo­gia

Bmc neurology 2009, ndr ),
valutazioni com­portamentali, ripetute attraverso scale standar­dizzate e testate, la ' Coma recovery scale', con­sentono di avere diagnosi più precise rispetto a quelle ottenute attraverso scale di valutazione non standardizzate. Alle tecniche di neuro- im­magine si sta attualmente riconoscendo un ruo­lo importante, ma al momento non sono indica­te come obbligatorie dalle linee guida.
Sarebbe a dire?

Secondo il mio punto di vista, come abbiamo an­che più volte pubblicato, usando ' protocolli pi­lota' le misurazioni oggettive della funzione ce­rebrale possono aiutare a confermare la diagno­si clinica, come nel caso della morte cerebrale. In­fatti, insieme alla ripetizione dei controlli com­plementari, aiutano a prendere decisioni diffici­li sulla prosecuzione di un trattamento o meno.

Il cervello di una persona in stato vegetativo pre­senta
massa e peso minori?
Sì, basta leggere quanto pubblicò già nel 2005 Graham (
The boundaries of consciousness. Lau­reys editor, 2005 Elsevier) nella collana scientifi­ca internazionale Progress in brain research che si occupa specificamente delle ricerche sul cer­vello.
Come si capisce con certezza se una persona in stato vegetativo è in grado di deglutire o meno? Ed è possibile farlo attraverso un’autopsia?

Questo di nuovo è un segno clinico che preferi­rei... diagnosticare
pre- mortem.
Si può dire con certezza che Eluana non pro­vasse
alcun dolore?
Se Eluana si fosse trovata in stato vegetativo con-
sidererei molto improbabile che avesse una per­cezione cosciente del dolore. Al contrario, qua­lora il suo fosse stato uno stato di coscienza mi­nima sono sicuro che avrebbe sentito dolore e a­vrebbe sofferto. Avrebbe conservato un certo li­vello di emozioni.
A proposito, professor Lauryes: è possibile cer­tificare che le persone in stato vegetativo non pro­vino
emozioni?
Al momento, studi di neu­ro- immagine funzionale su gruppi di pazienti in stato vegetativo mostrano attivazione cerebrale che la maggior parte della co­munità scientifica ritiene insufficiente per avere u­na percezione cosciente del dolore. Tuttavia mi sento di poter sostenere con forza un’unica cosa: di assoluta assenza di sofferenza si può parlare esclusivamente in pa­zienti anencefalici, che cioè non hanno più la
corteccia cerebrale.
Non si può escludere che la paziente abbia sentito dolore e che la procedura della morte indotta le abbia procurato sofferenza, anche con la presenza di emozioni

Ma era vita. E «legittima». Eluana è morta «improvvisamente». Il gip di Udine archivia le accuse di omicidio

DA R OMA P INO C IOCIOLA

Q
ualcosa continua a non tornare. Per Eluana, dopo la sospensione di cibo e acqua, «la mor­te è sopraggiunta improvvisamente, senza u­na compiuta progressione sintomatologica le­gata alla disidratazione», fa sapere il gip di Udine, Pao­lo Milocco, dopo i risultati degli esami eseguiti sul cor­po della donna, morta il 9 febbraio 2009. Nonostante ciò, «i consulenti hanno potuto escludere cause di mor­te di natura traumatica e tossica», concludendo che to­glierle cibo e acqua «ha innescato una serie di compli­cazioni all’apparato cadiovascolare fino all’arresto car­diaco », perché «sia la tetraplegia che la patologia pol­monare da cui la paziente era affetta l’avevano resa particolarmente vulnerabile sotto tale aspetto». Eppu­re Eluana – come dichiarò Carlo Alberto Defanti, suo neurologo dal 1995 – non aveva mai avuto bisogno di antibiotici in 17 anni di stato vegetativo persistente.
Il gip ha così deciso l’archiviazione del procedimento relativo a Beppino Englaro e altre 13 persone per omi­cidio volontario: il decesso di Eluana non è stato «con­seguenza di pratiche diverse da quelle autorizzate e specificate nei provvedimenti giudiziari».
Restano aperte molte contraddizioni, cui il gip non fa cenno. Una per tutte: l’autorizzazione al ricovero di E­luana nella casa di cura 'La Quiete' di Udine (dove venne portata il 3 febbraio per esser fatta morire) fu concessa dalla Asl locale il 23 gennaio 2009 per un 'Pia­no di assistenza individuale' finalizzato al «recupero funzionale e alla promozione sociale dell’assistita» e al «contrasto dei processi involutivi in atto»: ovvero uffi­cialmente per curarla. Solo il 4 febbraio la presidente de 'La Quiete', Ines Domenicali, comunicò al diretto­re dell’Asl, Giorgio Ros (e all’assessore regionale alla Sanità, Vladimir Kosic) che la paziente veniva affidata all’associazione 'Per Eluana' con una nuova finalità: «Attuare i contenuti del decreto della Corte di appello di Milano», che aveva offerto a Beppino Englaro la pos­sibilità di condurla alla morte. Una grave irregolarità che già il 4 febbraio il direttore dell’Asl contestò alla presi-
dente (con lettera spedita invano anche alla Procura u­dinese e all’assessore Kosic)... La Domenicali non gli ri­spose mai. Anche nella relazione degli ispettori inviati il 6 febbraio a Udine dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi (consegnata sempre in Procura), come pure in quella dei Carabinieri del Nas, si leggeva che Eluana «risulta ammessa con specifiche finalità di accudimento e re­cupero », mentre «la situazione appare non conforme a norme e regolamenti vigenti nella realtà regionale del Friuli Venezia Giulia». Ma ancora una volta tutto inva­no.
Eppure ieri, fra chi ha commentato soddisfatto l’ar­chiviazione (a partire da Beppino Englaro e l’anestesi­sta Amato De Monte, che guidò l’ équipe a Udine: «Ci siamo sempre mossi nella legalità») c’è stato anche il governatore friulano Renzo Tondo, che rifiutò d’inter­rompere il protocollo per la morte di Eluana soste­nendo che 'La Quiete' nella vicenda fosse «assoluta­mente in regola» con norme regionali e convenzioni fra Regione e istituti socioassistenziali.
Altra contraddizione è quanto confidò – mai smentito – il 4 febbraio al
Gazzettino Maurizio Mori (presidente dell’associazione 'Consulta di bioetica onlus', che dal 1996 seguì da vicino il caso Eluana e il padre Beppino): per ottenere il ricovero a 'La Quiete' c’era «una lista d’attesa, ma le gravi condizioni di Eluana hanno ri­chiesto una sorta di procedura d’urgenza». Però il dot­tor Carlo Alberto Defanti nella documentazione che la precedette a Udine certifica che Eluana «non ha avu­to in passato patologie rilevanti» ed è in «buone con­dizioni di salute». E le 'gravi condizioni' citate da Mo­ri? Eluana a Lecco viveva, senza chiedere nulla: qual’e­ra l’«urgenza»?

Ma era vita. E «legittima»


Lo chiama «trattamento», il gip, ma si riferisce al cibo e all’acqua che Eluana riceveva ogni giorno per vivere. E sostiene che proseguire a darglielo – questo «sostegno vitale» – «non era legittimo». Perché? «Contrastava con la volontà espressa dai legali rappresentanti della paziente». Eluana non era una malata terminale, era una disabile, grave, gravissima, come migliaia e migliaia d’altri. Nati così o così diventati. Basterà la volontà di un «legale» rappresentante per deciderne la sorte come se la loro vita fosse una cosa o una casa? Nessuna legge lo afferma.
Ma tutto è avvenuto «regolarmente», dice un altro giudice, impugnando un protocollo. E questo dovrebbe bastare. Eppure no, non basta: Eluana era vita, non attaccata a macchine né a farmaci. Spenta in quanto imperfetta.


Avvenire 12 gennaio 2010

Natale ed il ricordo di Eluana, Icona della Natività del 2009


ELUANA, ICONA DELLA NATIVITA' 2009

Natale. Ed è subito Eluana. Il suo ricordo emerge vivo tra le luci di questi giorni. E l'acqua, e la sete, e la morte veloce, quasi a togliere il disturbo. E' lei, Eluana, l'icona di questa Natività del 2009. Natale infatti è una corda tesa tra il rifiuto e l'accoglienza, la trincea che segna il fronte d'una guerra mai spenta. Accogliere o rifiutare. E' sempre stato così, da Adamo ed Eva e quella Parola di Dio a spalancare la libertà dinnanzi all'albero della vita. E Sodoma, chiusa nel suo orgoglio, a tagliar gambe e braccia agli stranieri fuori schema e misura per la città, l'estremo rifiuto immagine d'ogni rifiuto. E l'annuncio del Vangelo rigettato sin dai primordi, e i martiri d'ogni seme e lingua ad irrorare di sangue i sentieri del mondo, rifiutati, percossi e uccisi in odio all'amore infinito fattosi, nella carne degli apostoli, annuncio di vita. Natale è una grotta scavata nel rifiuto d'un Re bambino offerto per donarsi, e le pietre ruvide della tronfia sicumera di molta politica, di molta pseudo-religione, allora come oggi. Natale è il rifiuto d'una vita indifesa, celata alla ragione del successo e dell'efficienza: Natale è il rifiuto del dolore, della precarietà, il trionfo dell'abbaglio mondano. Nessun posto nell'albergo del mondo per una vita ferita, straziata, eppur vita, eppure vibrante del soffio dello Spirito, eppure traguardo d'amore per chi le donava ore e secondi. Natale quest'anno è il rifiuto di Eluana, certificato da un tribunale, lo stesso che decretò lo sterminio degli innocenti a Betlemme.

Ma Natale è anche lo struggimento dei poveri pastori, piccoli e disprezzati, vita che non era vita degna d'essere vissuta, nessun valore a quella manciata di villani perduti a contaminarsi pascolando greggi immonde. Come quel povero grumo di carne ed ossa cui era ridotta Eluana. Un corpo ritenuto ormai indegno ad imprigionare brandelli d'una vita che non meritava d'esser neppure chiamata vita. Ed il rifiuto, accompagnato dal crepitio di parole vane a dar ragione all'irragionevole arroganza di rubare acqua e vita ad una persona indifesa. Anche questo è Natale, l'orizzonte angusto e angosciante della notte della ragione e del cuore. Una notte come duemila anni fa, ed in essa la Gloria d'un altra irragionevolezza, feconda stavolta, e pregna di gioia e speranza, quella di un Dio che si fa carne umile, e banale, e sporca, e ultima, e inutile, nelle mangiatoie d'ogni dove, i luoghi dimenticati ai bordi della vita, laddove sono "espulsi i prodotti del concepimento", le gelide mura d'una clinica dove si troncano le vite inchiodate alla Croce. Natale è l'irragionevolezza d'un Dio che si fa nulla per chi è nulla; disprezzo per i disprezzati; rifiuto per i rifiutati; maledizione per i maledetti. Natale è Eluana, come i pastori, come Giuseppe, come Maria. E come Gesù. Natale è accoglienza, il vagito di un Bimbo che è la mano di Dio tesa a stringere, ad accogliere, ad amare Eluana d'amore eterno ; e con lei, ognuno di noi sperduto e vagabondo tra i rifiuti e i fallimenti. E con lei anche tutti coloro che l'han lasciata morire, chi l'ha "liberata" si diceva, perdonati di certo, in quelle lacrime di Bimbo fatte adulte sulla Croce; le lacrime tramutate in sangue preziosissimo a cancellare i peccati di quanti non han saputo, e forse non sanno, quel che hanno fatto.

Antonello Iapicca Pbro




In questo Natale meditiamo e preghiamo con Giovanni Paolo II e la Lettera Evangelium Vitae

In questo Natale vogliamo ricordare Eluana. Per questo abbiamo pensato all'icona del Natale tradizionale dell'iconografia orientale.

In essa il Bambino Gesù era raffigurato avvolto in fasce che sembrano bende in una magiatoia singolare. L'allusione alla passione del Cristo è suggerita in modo chiaro. Innanzitutto il bambino ha già le proporzioni di un uomo adulto. Inoltre il suo corpo è avvolto in fasce che assomigliano troppo alle bende della sepoltura perché l'accostamento non sia voluto. Le fasce, infatti, sono il riconoscimento che l’angelo dette ai pastori (Lc 2,13), ma stanno a indicare le bende che le donne mirofore, e Pietro e Giovanni trovarono nel Sepolcro vuoto. Da ultimo, la mangiatoia appare come una costruzione rettangolare che di fatto è una tomba. Il neonato è adagiato in una tomba, poiché egli è nato affinché con la sua morte fossero vinti la morte e il peccato. È così chiaramente indicato il nesso tra l'Incarnazione e la Croce. La mangiatoia, inoltre, richiama un’immagine diffusa anticamente: l’uomo si nutre di peccati perché ha paura di morire e cerca la salvezza nello stesso modo in cui l’animale prende il cibo dalla mangiatoia. Ora Dio lo va a incontrare proprio in quel luogo e si «fa cibo» per lui: è chiaro il richiamo all’Eucarestia.

Al centro dell'icona si trova la grotta.
La gioia per la nascita del Salvatore è come attenuata dalla notte della grotta, una notte che pesa su tutta la scena e che altro non è se non la notte del peccato:
Dio, nato da donna, è venuto nella carne perché lo vedes­sero coloro che erano assisi nelle tenebre e nell'ombra di morte. Una grotta e una mangiatoia lo hanno accolto!” (Stichiri idiomeli della Vigilia.).

Nei Vangeli non si fa menzione della grotta. E’ san Giustino il Filosofo che ne parla per la prima volta. Però sappiamo che fin dal IV secolo la grotta di Betlemme era profondamente venerata dai pelle­grini (una basilica era stata costruita sopra di essa). Sant'Ireneo vede nella grotta della Natività una prefigurazione della discesa del Cristo agli inferi. La grotta di Betlemme, la grotta che si trova sotto la croce nelle icone della Crocifissione, e gli inferi delle icone della Risurrezione ricordano dunque tutte una medesima realtà: “La valle d'ombra e di morte” (Sal 23, 4), cioè in ultima analisi il peccato.
Nella tua onnipotenza hai voluto cancellare il peccato, il peccato irriducibile, infinitamente orgoglioso e delirante sen­za ritegno in un mondo preda del furore; e quelli che esso aveva sedotto, tu, nostro benefattore, li hai salvati dalle sue insidie nel giorno della tua incarnazione volontaria” (VI tropario della VII ode).

È proprio su questo sfondo oscuro e tenebroso che si staglia colui che costituisce il cuore di tutta l'icona: il bambino che giace nella mangiatoia.

Infine Giuseppe viene ritratto nel momento più difficile della propria vicenda personale: la sua posizione è quella del dubbio mentre si trova nella tentazione, infatti viene avvicinato da un pastore sotto mentite spoglie (Satana) che gli suggerisce di non credere al sogno che ha ricevuto: «Come è possibile che una Vergine possa concepire un figlio! Come è possibile che la grandezza di Dio si sia nascosta in questa grotta!».

Come non riconoscere gli stessi dubbi che han percorso questo anno dove gli interrogativi sulla vita e sulla morte hanno monopolizzato la scena? Che Dio abbia permesso una vicenda tanto dolorosa e lacerante quanto quella di Eluana per darci una parola? Noi ne siamo convinti, assolutamente. E la Parola è questo natale, e in quest'icona possiamo incontrare tutto quel che abbiamo vissuto in questi mesi. Il dubbio, il buio, la morte. Ma proprio qui, al centro di questa vicenda, che non è solo di Eluana ma che ci riguarda tutti, ecco che appare la Vita, un bimbo, piccolo, inerme, fasciato di morte eppure vivo. E' Lui la risposta di Dio al nostro cuore, al cuore di tutti. La VITA DENTRO LA MORTE.

Per questo vi proponiamo, come lettura spirituale per questo Natale del 2006, la Lettera di Giovanni Paolo II Evangelium Vitae, sul valore e l'inviolabilità della vita umana. Vi invitiamo a meditarla, ad incontrarvi il senso della nostra vita, e della nostra morte. Il Natale è il Vangelo della Vita, la Parola che non ha fine.

Antonello Iapicca Pbro

QUI TROVI L'EVANGELIUM VITAE