Massimiliano Parente è uno dei pochi scrittori italiani contemporanei, forse l’unico. Per rendersene conto, basta leggere L’evidenza della cosa terribile. Contro la vita, contro l’amore, contro la natura: scritto sulla «Recherche» di Marcel Proust (Cooper, pagg. 58, euro 10). Parente evita di perdersi in contemplazioni ombelicali della metropoli o della provincia, rifugge il realismo perché crede che la realtà sia sempre virtuale. Piuttosto, nella narrativa come in questo saggio, va alla radice del dilemma di questa epoca, e anche delle prossime, cioè il rapporto con la scienza e la tecnologia.
La rivoluzione, ormai è chiaro, non è roba per comunisti o conservatori o liberali. La stanno facendo neurologi, fisici, chimici, biologi e sognatori informatici. A fronte delle continue scoperte e dell’evolvere della tecnologia, è difficile per l’uomo non consegnarsi spontaneamente, mani e piedi legati, al materialismo. Il messaggio dominante nella nostra società è questo: tutto è biologia, tutto è chimica, tutto è matematica. La nostra pretesa di possedere un’anima, qualsiasi cosa significhi, e di essere unici è semplicemente senza speranza. Siamo macchine. Poche leggi spiegano il nostro funzionamento. Quando la macchina si rompe in modo irreparabile, si butta via ed è finita. Non resta che attendere lo sfacelo inevitabile del corpo e della mente.
Marcel Proust lo sapeva bene, e tale consapevolezza senza possibilità di scampo è appunto «l’evidenza della cosa terribile» che assale il Narratore in una delle parti più belle e note di Alla ricerca del tempo perduto, ovvero la festa dei Guermantes. Lo splendore associato a questa nobile famiglia, col passare degli anni, si è ridotto a una goffa caricatura, la vecchiaia ha sfigurato i corpi, la vita annichilito o domato gli spiriti. Nell’opera, dice Parente, c’è «l’ombra lunga di Charles Darwin che si propaga in ogni pagina, sotto ogni volto, dietro ogni pupilla». Da lì proviene il materialismo di Proust, offuscato da letture edulcorate e sentimentalistiche. Prendiamo, insieme con Parente, la scena famosissima della madeleine che risveglia nel Narratore i ricordi dell’infanzia. Non c’è nulla di commovente, né di romantico, come pure è stato scritto. È invece una pagina drammatica, nasconde una rivelazione (inumana) che diventa sempre più chiara pagina dopo pagina: il passato non ci appartiene, la memoria è proiezione dei nostri desideri e dei nostri bisogni presenti. Ciò che è andato, è andato per sempre. Sono inclusi i nostri sentimenti e quello che siamo stati, come scrive Proust: «Non è perché gli altri sono morti che il nostro affetto per loro si affievolisce, ma perché moriamo noi stessi». Il ricordo è illusione. L’amore per i nostri morti, che serbiamo come la cosa più sacra, è illusione. Il nostro io è illusione.
Dovremmo dedurne che il mondo è dunque un luogo invivibile? A voler essere consequenziali, sì. Eppure... Per scrivere la Recherche, Proust si chiuse in casa per dieci anni, insonorizzando col sughero la propria stanza al fine di poter dormire tranquillo di giorno e lavorare tutta la notte. Scrive Parente: «Doveva essere disposto, per essere il più grande scrittore assoluto, a farlo senza filtri, senza paraocchi, capace di scendere fino in fondo a se stesso come cavia dell’intera umanità, e essere disposto a guardare il baratro senza distogliere lo sguardo, e raccontarcelo, dandogli una forma unica». Certo. Ma per accettare questa sfida, tutto sommato inutile, «doveva aver amato la vita come nessun altro».
La rivoluzione, ormai è chiaro, non è roba per comunisti o conservatori o liberali. La stanno facendo neurologi, fisici, chimici, biologi e sognatori informatici. A fronte delle continue scoperte e dell’evolvere della tecnologia, è difficile per l’uomo non consegnarsi spontaneamente, mani e piedi legati, al materialismo. Il messaggio dominante nella nostra società è questo: tutto è biologia, tutto è chimica, tutto è matematica. La nostra pretesa di possedere un’anima, qualsiasi cosa significhi, e di essere unici è semplicemente senza speranza. Siamo macchine. Poche leggi spiegano il nostro funzionamento. Quando la macchina si rompe in modo irreparabile, si butta via ed è finita. Non resta che attendere lo sfacelo inevitabile del corpo e della mente.
Marcel Proust lo sapeva bene, e tale consapevolezza senza possibilità di scampo è appunto «l’evidenza della cosa terribile» che assale il Narratore in una delle parti più belle e note di Alla ricerca del tempo perduto, ovvero la festa dei Guermantes. Lo splendore associato a questa nobile famiglia, col passare degli anni, si è ridotto a una goffa caricatura, la vecchiaia ha sfigurato i corpi, la vita annichilito o domato gli spiriti. Nell’opera, dice Parente, c’è «l’ombra lunga di Charles Darwin che si propaga in ogni pagina, sotto ogni volto, dietro ogni pupilla». Da lì proviene il materialismo di Proust, offuscato da letture edulcorate e sentimentalistiche. Prendiamo, insieme con Parente, la scena famosissima della madeleine che risveglia nel Narratore i ricordi dell’infanzia. Non c’è nulla di commovente, né di romantico, come pure è stato scritto. È invece una pagina drammatica, nasconde una rivelazione (inumana) che diventa sempre più chiara pagina dopo pagina: il passato non ci appartiene, la memoria è proiezione dei nostri desideri e dei nostri bisogni presenti. Ciò che è andato, è andato per sempre. Sono inclusi i nostri sentimenti e quello che siamo stati, come scrive Proust: «Non è perché gli altri sono morti che il nostro affetto per loro si affievolisce, ma perché moriamo noi stessi». Il ricordo è illusione. L’amore per i nostri morti, che serbiamo come la cosa più sacra, è illusione. Il nostro io è illusione.
Dovremmo dedurne che il mondo è dunque un luogo invivibile? A voler essere consequenziali, sì. Eppure... Per scrivere la Recherche, Proust si chiuse in casa per dieci anni, insonorizzando col sughero la propria stanza al fine di poter dormire tranquillo di giorno e lavorare tutta la notte. Scrive Parente: «Doveva essere disposto, per essere il più grande scrittore assoluto, a farlo senza filtri, senza paraocchi, capace di scendere fino in fondo a se stesso come cavia dell’intera umanità, e essere disposto a guardare il baratro senza distogliere lo sguardo, e raccontarcelo, dandogli una forma unica». Certo. Ma per accettare questa sfida, tutto sommato inutile, «doveva aver amato la vita come nessun altro».
«Il Giornale» del 13 febbraio 2010