DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

RISCOPERTA LA LINGUA SEGRETA DELLE DONNE CINESI Ideogrammi clandestini che profumano di libertà

ROBERTO MUSSAPI
U
no scrigno, che si chiama lingua. Un tesoro, che si chiama memoria. Una virtù, che si chiama resistenza. Resistenza al buio, alla morte: sì perché qui si parla di una vita inferiore alla morte, una vita da schiava, da bambina venduta al sovrano, tenuta nell’analfabetismo assoluto affinché nulla possa comunicare. Stiamo parlando di uno scrigno proveniente da un lontano Paese d’Oriente.
Non è uno dei tesori che Marco Polo fece conoscere al nostro mondo, non è uno dei prodigi che il mercante portò in Europa dalla Cina favolosa del Gran Khan. È uno scrigno pieno di dolore e sacralità.
Stiamo parlando di un oggetto che contiene il prodigioso spirito umano di resistenza alla violenza, al buio, all’orrore. È uno scrigno femminile. Lo custodiscono le vittime, se lo trasmettono segretamente, da millenni, le donne cinesi.
Si chiama Nashu, è una lingua misteriosa, unica, nel suo genere mai apparsa altrove sulla Terra. È la voce segreta dell’universo femminile della Cina: da millenni, dopo averla inventata, vi ricorrono per comunicare e resistere a esistenze disperate. Milioni di donne raccontano in questa lingua le angherie del marito a cui sono state vendute, l’umiliazione del signore di cui sono concubine, la disperazione di essere femmine, anche sotto l’imperatore maoista, e quindi dannate a una vita tremenda, quando non eliminate alla nascita. Uno straziante rosario di dolore, un idioma segreto, 'dialetto delle confidenze', la voce della parte muta di un Paese immenso. La lingua delle donne cui era proibita la conoscenza alfabetica, nasce dal cuore, in silenzio, come resistenza al dolore, alla sopraffazione. Bandita da Mao Zedong, si riteneva estinta lo scorso anno, quando morì Yang Huangyi, un’ultranovantenne che risultava essere l’ultima allevata da una madre a conoscenza di quegli ideogrammi preclusi agli uomini.
Ma non esiste editto, non esiste tiranno che possa far morire una lingua, poiché la lingua, nel senso profondo e originario, non è una convenzione, ma una risposta fisiologica, naturale dello spirito al fatto stesso di venire al mondo, molto più se l’esistenza si riveli tragica.
Un gruppo di studiose della regione in cui è nato questo codice della disperazione femminile, è riuscito a trascrivere centinaia di versi finora sconosciuti. Vengono alla luce diari segreti, confidenze impossibili a mariti padroni, anonime vite nascoste nell’urna impenetrabile ma generosa di una lingua segreta nata per resistere al dolore, per non morire, per mantenersi comunque in vita, nell’unico modo possibile, comunicando, creando comunione con altre creature oppresse.
Ora si sta ristampando il primo dizionario, ed è stata inaugurata una scuola femminile in cui si tengono corsi per apprendere la lingua perduta delle donne.
Conosco i pregi delle globalizzazione, ma ne temo gli aspetti negativi, nefasti. Che strazio se questa lingua del silenzio e del dolore e della resistenza si tramutasse in una moda, come pare possa accadere.
Esibita nei salotti, svilita, sottratta alla sua aura di sacralità. Accade persino delle religioni, nell’età del cinico disincanto. Può accadere a una lingua, che non è una religione ma pertiene alla sfera religiosa dell’uomo, che vuole comunicare con il cielo e i consanguinei sulla Terra, che pretende di rispondere con la sua lingua e voce all’armonia che sente averlo portato alla luce e al mondo. Speriamo che lo stupore e lo strazio vincano sulla frivola sete di novità che anima il salotto globale di questi decenni. Che quell’urna di parola e amore non sia profanata come accadde in Italia alle tombe a opera degli editti napoleonici. Che sia fonte di luce, quello scrigno di dolore fatto parola e lingua.


Avvenire 7 febbraio 2010