DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Tra terrorismo, laicismo e relativismo, solo un Dio ci può salvare

7 Febbraio 2010

Pubblichiamo l'introduzione al libro di Sergio Belardinelli, "L'altro illuminismo. Politica, religione e funzione pubblica della verità" (ed. Rubbettino) uscito in questi giorni in libreria.

Dopo un lungo letargo, dovuto alla diffusa convinzione che la religione, almeno in Occidente, si fosse definitivamente ritirata nell’ambito assai poco rilevante del privato individuale, il terrorismo di matrice islamica ci ha come risvegliati di soprassalto e il problema della dimensione pubblica della religione è diventato uno dei punti più caldi del dibattito culturale contemporaneo. Che si parli di fanatismo fondamentalista o di identità europea, di laicità dello stato o di bioetica, in ultimo è pur sempre del controverso rapporto tra politica e religione che si tratta. E sebbene alcuni segnali facciano pensare al contrario, dobbiamo per forza sperare che di questa nuova consapevolezza si avvantaggino sia la politica che la religione.

La posta in gioco è molto alta. Si tratta in ultimo di contrastare quella sorta di “tendenza all’estremo”, che incomincia a manifestarsi su scala planetaria e della quale la violenza terroristica di matrice religiosa è soltanto una delle possibili manifestazioni. E se è vero che l’Occidente cristiano e liberale ha sviluppato senz’altro gli anticorpi che lo rendono immune rispetto al rischio che la religione possa diventare uno strumento di dominio e di terrore, è altrettanto vero che esso non avverte con altrettanta lucidità i rischi che potrebbero scaturire dal suo disincanto individualistico, dalla riduzione di ogni orizzonte di senso all’ambito della coscienza e dell’autonomia individuale. Succede così che la “dialettica del riconoscimento” diventa sempre più difficile. Al suo posto troviamo il risentimento, l’egoismo, l’indifferenza e la paura. “L’uomo da solo –direbbe René Girard- non può trionfare su se stesso”.

Ci vorrebbe appunto un Dio. “Ormai solo un Dio ci può salvare”, diceva Heidegger. Ma il Dio di Gesù Cristo non si presta a troppo facili strumentalizzazioni. Costituisce la principale condizione che ha reso possibile l’affermarsi in Occidente dell’irripetibile unicità di ogni persona, ma non consente che si declini questa unicità nei termini di certo individualismo moderno; esalta il desiderio di felicità che c’è nel cuore di ogni uomo, ma a coloro che fanno il bene, almeno su questa terra, promette la croce; considera la politica come l’arte più nobile per servire il “bene comune”, ma sul potere politico (anche su quello ecclesiastico) vede sempre in agguato la “bestia” che sale dagli abissi; assegna come un diritto il vivere secondo gli usi e i costumi della propria comunità, ma a coloro che agitano come un feticcio l’identità di questa o di quella cultura (anche di quella occidentale) ricorda che, dopo Cristo, può esserci soltanto l’identità della famiglia umana; quanto a coloro che vorrebbero risacralizzare il mondo, viene loro ricordato che proprio Cristo, uso ancora parole forti di René Girard, “ha sconfitto il sacro rivelandone la violenza”.

E’ dunque un rapporto problematico, difficile, conflittuale quello tra religione cristiana e politica. Lo è fin dall’inizio, allorché gli Zeloti interpretano il messaggio di Gesù come un messaggio rivoluzionario contro l’occupazione di Roma sui territori di Israele; occupazione guardata invece con indifferenza dai Sadducei. Lo diventa ancora di più con la svolta costantiniana, la cui commistione tra cristianesimo e potere politico persisterà fino a tutto il medioevo, assumendo addirittura vere e proprie forme teocratiche. E tale resta anche oggi, dopo che la secolarizzazione moderna ha fatto registrare una sorta di rivincita della politica sulla religione, che in molti vorrebbero spingere fino a privare quest’ultima di qualsiasi dimensione pubblica.

A proposito del rapporto tra cristianesimo e cultura politica moderna, esistono fondamentalmente due modi di interpretarlo. Il primo è quello dei cosiddetti laicisti radicali o, con linguaggio anglosassone, secolaristi, i quali, in curioso accordo con certi tradizionalisti cattolici, considerano la politica moderna in netta antitesi con la tradizione cristiana. Il secondo è quello di coloro che vedono invece tra cristianesimo e cultura politica moderna una semplice continuità, specialmente in ciò che la politica moderna ha enfatizzato in termini di libertà, democrazia, stato di diritto ecc. Come ha scritto Martin Rohnheimer, “ambedue le posizioni sono in parte vere e in parte scorrette. La prima si caratterizza per una notevole miopia storica, che tende a negare non soltanto le radici cristiane della civilizzazione europea occidentale, ma anche il cristianesimo come principale e decisivo fattore di progresso e civilizzazione. La seconda sembra alquanto ingenua e anche poco sincera, in quanto nega una certa intrinseca conflittualità fra il cristianesimo e l’impronta laica della modernità”. Tuttavia, in accordo con Rohnheimer, mi sembra importante sottolineare come questa seconda interpretazione sia sicuramente più vicina alla verità delle cose di quanto sia la prima.

Per i motivi che in parte ho già accennato, esiste certamente una sorta di tensione irriducibile tra cristianesimo e politica. Il cristiano è nel mondo, senza essere del mondo, e tale tensione sussiste in ogni epoca, quindi anche in quella moderna. Non per questo però siamo costretti a declinare la laicità moderna in modo anticristiano e il cristianesimo in modo antimoderno. Il cristianesimo non è riducibile a politica; indica alla politica alcuni “limiti”, certo. Ma questo costituisce precisamente il suo contributo più importante a una politica che voglia essere davvero liberale e democratica, senza scadere nel clericalismo, né nel laicismo, due tentazioni sempre in agguato. Sono precisamente questi “limiti” –ad esempio, l’inviolabile dignità di ogni uomo, i diritti alla vita e alla libertà che ci portiamo dietro per nascita, non per concessione politica- a costituire l’argine più consistente a possibili derive “autarchiche” o, peggio ancora, “totalitarie”.

Qualcosa di simile possiamo dire per l’idea di verità. Mi rendo ben conto che si tratta di un’idea assai discreditata e che farla entrare nel titolo di un libro su politica e religione può apparire addirittura provocatorio, visto che lo spazio pubblico democratico si caratterizza soprattutto per il pluralismo delle posizioni in campo e per una sorta di rinuncia preventiva (e sacrosanta) a prendere decisioni in nome della verità. E’ pur vero però, che proprio l’illuminismo, dal quale hanno preso forma le nostre istituzioni e la nostra cultura liberaldemocratica, viveva principalmente del pathos della verità e che, come peraltro aveva intuito Friedrich Nietzsche, se viene meno questo pathos, rischia di venir meno anche l’illuminismo.

Per il fatto di vivere in un contesto socio-culturale contrassegnato dalla presenza di diverse opinioni in ordine a ciò che è vero e giusto e di prendere quindi le nostre decisioni politiche a maggioranza, ci siamo erroneamente convinti che un’opinione valga l’altra; siamo diventati relativisti, con la convinzione che questo fosse il modo migliore per essere tolleranti. Ben lungi dal rappresentare una gabbia per l’autonomia e la libertà degli individui, proprio la verità può esserci d’aiuto per dare il giusto senso alle nostre scelte e alla dialettica democratica stessa. Le nostre decisioni politiche, ad esempio, vengono prese a maggioranza, non perché la verità non esiste, ma semplicemente perché, grazie a una certa idea che abbiamo dell’uomo e della sua incommensurabile dignità, è molto meglio una decisione sbagliata presa con il consenso della maggioranza che una decisione giusta imposta con la forza. Altro che relativismo. E’ quasi stucchevole trovarsi a discutere di tutto, anche di questioni di vita e di morte, senza la fiducia che esistano argomenti più validi di altri –più validi perché più vicini alla realtà delle cose, non certo perché condivisi da un maggior numero di persone o perché “creduti” in base a una qualsiasi fede. E credo che sia proprio questa mancanza di fiducia nella verità la causa “prima”, anche se non molto “prossima”, di gran parte dei problemi che gravano sulla nostra cultura e sulle nostre istituzioni politiche.

Ciò che intendo dire è che, lungi dal costituire il fondamento di una cultura liberale e democratica, il relativismo ne costituisce la malattia, l’anticamera del più radicale funzionalismo. Quando affermiamo una qualsiasi verità, da quelle più semplici, tipo “la neve è bianca”, a quelle più complesse, tipo “Luigi è un vero amico”, non lo facciamo con la riserva mentale che ciò che affermiamo potrebbe anche non essere vero o che sia vero semplicemente perché ne siamo convinti. Piuttosto ne siamo convinti perché è vero, perché appunto constatiamo che la neve è bianca e che Luigi è un vero amico. Senza questa fiducia in una verità che in ultimo ci si rivela, della quale non siamo padroni, che possiamo accettare o non accettare, ma che rimane comunque indisponibile, nemmeno i nostri grandi valori politici avrebbero consistenza. Pluralismo, tolleranza, principio di maggioranza, l’idea stessa di stato di diritto finirebbero inevitabilmente per confondersi con la demagogia e con la lotta per il potere fine a se stesso. Grazie alla verità, invece, il dibattito pubblico è come costretto a tener viva un’istanza di oggettività e di indisponibilità, che considero preziosa, specialmente di fronte al rischio che si confondano pluralismo e relativismo, diritti e desideri, tolleranza e indifferenza, e che il tanto sbandierato dialogo tra culture si trasformi in una sorta di rituale astratto, dove tutti hanno le stesse ragioni, come vorrebbe l’ideologia del multiculturalismo.

Un luogo comune abbastanza diffuso vuole in effetti che il nostro mondo occidentale sia ormai avviato sulla strada del relativismo multiculturalista, nella convinzione che questo sia il solo modo per fronteggiare le sfide della globalizzazione e il confronto con culture diverse dalla nostra, senza cedere al fanatismo e alla violenza. Si tratta di un gravissimo errore, il quale, oltre a danneggiare noi occidentali, danneggerà anche gli “altri”, alimentando proprio quel fanatismo che vorremmo evitare. Non è facendoci “nessuno” che si favorisce l’incontro e il dialogo tra culture differenti e spesso ostili. Ma l’errore forse si spiega, se pensiamo alla stanchezza da cui ci siamo fatti prendere. Parole come ragione, verità, giustizia, dignità dell’uomo, che pure stanno alla base delle nostra cultura anche politica, sono diventate poco a poco quasi impronunciabili nella loro dimensione universalistica. E intanto dobbiamo fare i conti con il terrorismo jahadista, la guerra, la biopolitica, le questioni di vita e di morte, le grandi migrazioni, la grande crisi economica e altro ancora –tutte questioni che di certo non possono essere fronteggiate rimanendo all’interno di quella sorta di aura debole che ci schiaccia ormai come un macigno. La speranza che muove questo libro è che siano proprio queste sfide a costringerci a cercare altre strade, a guardarci intorno, ma soprattutto a guardarci dentro, per chiarire, a noi stessi e agli altri, ciò che siamo e ciò che vogliamo.


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