MARINA CORRADI
C hi ha visto i fedeli di sant’Antonio, già dall’alba di lunedì scorso in una fila che abbracciava la piazza della Basilica, e che nei giorni successivi e fino a ieri sera si è rinnovata, alimentata da sempre nuova gente venuta anche da lontano, non ha potuto non meravigliarsi. E non solo per quella moltitudine, non solo per la tenace resistenza della pietà popolare all’omologazione culturale che oggi impone ben altri oggetti di culto.
La meraviglia nasce anche da un altro elemento, forse più evidente per chi ha assistito alla cerimonia della traslazione del corpo del santo, domenica notte. Perché guardando quel sarcofago, e assistendo nel silenzio della Basilica vuota al faticoso lavorio di cavi che ne estraevano la cassa; e contemplando poi l’urna di cristallo coperta di polvere, chiusa dai sigilli purpurei dell’ultima ostensione, ti pareva quasi di toccare con la mano lo spessore del tempo.
Nella cassa, una bolla risalente all’ostensione del 1981 portava la firma autografa di Giovanni Paolo II. Che in quell’anno era un giovane Papa, fisicamente forte e sano, un leone. Mentre in questa notte di febbraio del 2010 ciascuno in Basilica, nel sentire quel nome, ha evocato la figura del pontefice malato e sofferente, che ci ha lasciato ormai da cinque anni. Ma, se i trent’anni che ci separano da quel 1981 sono già tanti per gli uomini, è impensabile allora il tempo – 779 anni – trascorso dalla morte di Antonio. Otto secoli, un abisso per uomini. Fatichiamo a immaginarci quell’anno 1231: l’Italia ancora brughiera e foreste, e città turrite contro i nemici, ma indifese dalle pestilenze. Le strade di polvere, le carestie in agguato, e il pauroso buio delle notti, rischiarate solo dalla luce tremante delle candele. È davvero perdutamente lontano il mondo di Antonio, per chi è nato nel secolo ventesimo.
E quell’urna con le ossa annerite del santo, e le altre più piccole con la sua carne tornata in cenere: tutto, a chi contemplava le reliquie, testimoniava la pesantezza, la durezza implacabile del tempo – che rende gli uomini polvere.
Ma, davanti a un simile annientamento della carne, ancora più singolare era il contrasto con quella folla di vivi in attesa nella piazza, nei giorni successivi e fino a ieri; vivi che battevano i piedi per scaldarsi dal freddo, e si tenevano svegli con un caffè bollente. Quella marea di vivi a venerare un uomo morto da ottocento anni, che cosa straordinaria. Andrebbero, forse, per Cesare o per Carlo Magno, per un eroe o un poeta? Si alzerebbero nel cuore della notte, verrebbero da molto lontano, per il più grande degli uomini? Forse, finché di quell’uomo è vivo il ricordo; finché ancora i vecchi ne raccontano. Poi, l’oblio copre ogni memoria; la incenerisce, proprio come fa con le ossa.
Tranne che con i santi. E soprattutto per quelli al popolo più cari. Per santa Rita, per Francesco, per Antonio, la venerazione e la memoria sfidano i secoli. Come se fossero vivi tra noi, ancora. Come sfuggiti alla congiura implacabile che vuole che i morti impallidiscano fino a svanire dagli affetti dei viventi. I santi, dunque, violano la ferrea dittatura del tempo? E come avviene, come è possibile? Ce lo siamo chiesti contemplando la mano destra di Antonio, la sua mano benedicente ischeletrita nell’urna. Così evidentemente morta, eppure, negli sguardi commossi dei pellegrini, così viva.
Deve esserci un segreto. Qualcosa che la fisica e tutte le scienze non spiegano, né possono in alcun modo misurare. È una faccenda che deve avere a che fare con Dio. Con quel Dio che i santi vedono faccia a faccia. Che ne sia un riverbero, questo loro sfrontato felice restare fra noi, mille anni dopo? Che sia in realtà questo riverbero ciò che davvero cercano , magari senza saperlo appieno, quelle migliaia là fuori, e che portano al santo i loro vecchi, i loro bambini?
© Copyright Avvenire 21 febbraio 2010