Anzitutto, una premessa. Non mi pare si possa eludere la questione di un ripensamento serio sul cosiddetto 'Risorgimento' (che cosa mai sarebbe 'risorto', in particolare?) e sul processo di unità nazionale. Al riguardo parlare di istanze 'revisionistiche' o addirittura 'temporalistiche' o cose del genere mi sembra del tutto fuori luogo. La storia si deve ripensare di continuo. Oggi, a distanza di 150 anni dalla fondazione del regno d’Italia, è evidente che molte prospettive sono andate mutando e che su di esse hanno senza dubbio lavorato gli specialisti, ma sono mancati sia (almeno in parte) un vero e proprio aggiornamento nelle scuole, sia un dibattito mediatico fruibile da parte del 'grande pubblico', vale a dire di quella porzione della società civile italiana che non ha ancora rinunziato a esser tale. Quello che in sintesi mi pare si possa dire, è che il processo di unità nazionale fu mandato avanti da alcune élites peraltro non concordi fra loro, ma che la maggioranza delle popolazioni che costituivano la futura Italia unita ne restarono estranee. Si potrebbe obiettare che molti eventi storici sono stati caratterizzati da un processo dinamico analogo, vale a dire che solo ristrette élites ne sono state protagoniste. Niente di scandaloso. Però vanno sottolineate due cose. Prima: la formula dello Stato unitario accentrato che alla fine prevalse era coerente con gli interessi espansionistici dei Savoia e forse di alcuni imprenditori e finanzieri, era gradita all’ideologismo neogiacobino di garibaldini e mazziniani, ma non congrua con la storia e temo nemmeno le strutture e le istituzioni dei vari Stati italiani precedenti; la sto- ria d’Italia è eminentemente policentrica e municipalistica, per cui una soluzione di tipo 'federale', analoga
mutatis mutandis a quella che gli Hohenzollern e il principe di Bismarck dettero al problema unitario tedesco, sarebbe stata più adatta e opportuna di quella che, fra l’altro, generò la colonizzazione e lo sfruttamento del Sud da parte del Nord (con fenomeni collaterali quali il brigantaggio e la sua tanto orribile quanto in parte vana repressione) e la meridionalizzazione di buona parte delle strutture pubbliche del giovane regno. Secondo: il carattere élitario del 'movimento risorgimentale' nei suoi esiti ultimi ebbe come effetto obiettivo un notevole ritardo nella 'nazionalizzazione delle masse', nonostante i due strumenti della scuola e della leva obbligatoria; da questo punto di vista mi sembra che vedessero giusto gli interventisti, 'democratici' o 'rivoluzionari' che fossero, i quali ritenevano che il bagno di sangue avrebbe cementato l’edificio della patria e che gli italiani, che fatta l’Italia non erano stati fatti, si sarebbero forgiati nel ferro e nel fuoco della trincea. Ma ciò - attenzione! - porterebbe a concludere che la visione della prima guerra mondiale come 'quarta guerra d’Indipendenza' e compimento del processo di unità nazionale, la visione di Gioacchino Volpe (e alfine anche di Mussolini) era corretta. Attenzione: non sto dicendo che la dittatura fascista fosse a questo punto l’esito necessario del movimento del ’59-61 (e del’70). Mi limito a dire che anzitutto non fu affatto 'l’invasione degli Hyksos' come sosteneva Benedetto Croce.
Ne consegue, a mio avviso, che esito migliore avrebbe potuto avere in Italia un movimento di edificazione dell’unità nazionale che scegliesse la via federalista, indicata da Gioberti ma soprattutto - da Cattaneo: anche salvando, ebbene sì, un potere temporale pontificio, magari ridotto alla città di Roma e qualche pertinenza. Quella via non avrebbe creato la rovinosa 'questione meridionale', non avrebbe determinato decenni di crisi morale resa inevitabile dal contrasto tra Stato e Chiesa con tutto quel che ciò aveva significato per il Paese (anche in termini morali e culturali: un piccolo ridicolo Kulturkampf il regno l’ha fatto eccome); probabilmente avrebbe evitato la rovinosa politica di opposizione preconcetta all’Austria (vorrei ricordare che Cattaneo auspicava che il 'Commonwealth' austriaco restasse in piedi), non si sarebbe appoggiata alla Prussia nella guerra del ’66 contribuendo in tal modo, forse, a evitare la guerra francoprussiana del 1870 ch’è stata la lontana ma primaria fonte dei guai di tutto il continente per i tre quarti di secolo a venire. Sarebbe bastato appoggiare seriamente il progetto di Napoleone III (in verità, piuttosto dell’imperatrice Eugenia) di una Lega franco-ispano-italo-bavaro-austroungherese delle potenze cattoliche euromeridionali, con annesso il progetto di favorire l’indipendenza polacca (l’Austria ci sarebbe stata, alla faccia di Germania e Russia) e di gestire oculatamente la crisi e la decadenza dell’impero ottomano, il che sarebbe stato meglio per tutto il Vicino Oriente (mentre invece lo abbiamo fatto gestire dal ’18 al ’48, rovinosamente, da Francia e Inghilterra). Fra l’altro, l’alleanza sognata da Eugenia sarebbe stato un ottimo contributo alla futura unione europea. E lo stesso sia detto per il nostro mondo imprenditoriale: un’Europa meridionale e un Mediterraneo egemonizzato dalle potenze navali francese, austriaca e italiana avrebbe impresso tutto un altro trend alla nostra economia. Pensiamo solo alle implicazioni di un’integrazione linee ferroviarie- linee marittime, con la possibilità di avviare sul serio una politica di penetrazione orientale dai Balcani e da Istanbul fino all’Iran e all’Asia centrale. Un mondo senza le due guerre del ’66 e del ’70 avrebbe potuto sul serio attuare in tempi rapidi una linea ferroviaria Vienna-Isfahan e collegare l’Europa continentale al great game russo-inglese, magari nel contempo impedendo alla Russia di avvelenare i Balcani con la droga del nazionalismo irredentista, causa della prima guerra mondiale.
Ma l’Italia si è fatta in un altro modo. Ha perduto l’autobus dell’unione federalista. E dopo il fascismo, la guerra, il progressivo sfascismo postbellico, oggi siamo pervenuti a un Paese che sta tentando di attuare di nuovo un progetto federale. Non so se è corretto come quello che sarebbe stato opportuno intraprendere un secolo e mezzo fa. So che alla luce delle nostre scelte di oggi non si può non concludere che quella del regno unitario fu una 'falsa partenza'. Per cui c’è molto da discutere e da studiare. Ma c’è poco da celebrare.
mutatis mutandis a quella che gli Hohenzollern e il principe di Bismarck dettero al problema unitario tedesco, sarebbe stata più adatta e opportuna di quella che, fra l’altro, generò la colonizzazione e lo sfruttamento del Sud da parte del Nord (con fenomeni collaterali quali il brigantaggio e la sua tanto orribile quanto in parte vana repressione) e la meridionalizzazione di buona parte delle strutture pubbliche del giovane regno. Secondo: il carattere élitario del 'movimento risorgimentale' nei suoi esiti ultimi ebbe come effetto obiettivo un notevole ritardo nella 'nazionalizzazione delle masse', nonostante i due strumenti della scuola e della leva obbligatoria; da questo punto di vista mi sembra che vedessero giusto gli interventisti, 'democratici' o 'rivoluzionari' che fossero, i quali ritenevano che il bagno di sangue avrebbe cementato l’edificio della patria e che gli italiani, che fatta l’Italia non erano stati fatti, si sarebbero forgiati nel ferro e nel fuoco della trincea. Ma ciò - attenzione! - porterebbe a concludere che la visione della prima guerra mondiale come 'quarta guerra d’Indipendenza' e compimento del processo di unità nazionale, la visione di Gioacchino Volpe (e alfine anche di Mussolini) era corretta. Attenzione: non sto dicendo che la dittatura fascista fosse a questo punto l’esito necessario del movimento del ’59-61 (e del’70). Mi limito a dire che anzitutto non fu affatto 'l’invasione degli Hyksos' come sosteneva Benedetto Croce.
Ne consegue, a mio avviso, che esito migliore avrebbe potuto avere in Italia un movimento di edificazione dell’unità nazionale che scegliesse la via federalista, indicata da Gioberti ma soprattutto - da Cattaneo: anche salvando, ebbene sì, un potere temporale pontificio, magari ridotto alla città di Roma e qualche pertinenza. Quella via non avrebbe creato la rovinosa 'questione meridionale', non avrebbe determinato decenni di crisi morale resa inevitabile dal contrasto tra Stato e Chiesa con tutto quel che ciò aveva significato per il Paese (anche in termini morali e culturali: un piccolo ridicolo Kulturkampf il regno l’ha fatto eccome); probabilmente avrebbe evitato la rovinosa politica di opposizione preconcetta all’Austria (vorrei ricordare che Cattaneo auspicava che il 'Commonwealth' austriaco restasse in piedi), non si sarebbe appoggiata alla Prussia nella guerra del ’66 contribuendo in tal modo, forse, a evitare la guerra francoprussiana del 1870 ch’è stata la lontana ma primaria fonte dei guai di tutto il continente per i tre quarti di secolo a venire. Sarebbe bastato appoggiare seriamente il progetto di Napoleone III (in verità, piuttosto dell’imperatrice Eugenia) di una Lega franco-ispano-italo-bavaro-austroungherese delle potenze cattoliche euromeridionali, con annesso il progetto di favorire l’indipendenza polacca (l’Austria ci sarebbe stata, alla faccia di Germania e Russia) e di gestire oculatamente la crisi e la decadenza dell’impero ottomano, il che sarebbe stato meglio per tutto il Vicino Oriente (mentre invece lo abbiamo fatto gestire dal ’18 al ’48, rovinosamente, da Francia e Inghilterra). Fra l’altro, l’alleanza sognata da Eugenia sarebbe stato un ottimo contributo alla futura unione europea. E lo stesso sia detto per il nostro mondo imprenditoriale: un’Europa meridionale e un Mediterraneo egemonizzato dalle potenze navali francese, austriaca e italiana avrebbe impresso tutto un altro trend alla nostra economia. Pensiamo solo alle implicazioni di un’integrazione linee ferroviarie- linee marittime, con la possibilità di avviare sul serio una politica di penetrazione orientale dai Balcani e da Istanbul fino all’Iran e all’Asia centrale. Un mondo senza le due guerre del ’66 e del ’70 avrebbe potuto sul serio attuare in tempi rapidi una linea ferroviaria Vienna-Isfahan e collegare l’Europa continentale al great game russo-inglese, magari nel contempo impedendo alla Russia di avvelenare i Balcani con la droga del nazionalismo irredentista, causa della prima guerra mondiale.
Ma l’Italia si è fatta in un altro modo. Ha perduto l’autobus dell’unione federalista. E dopo il fascismo, la guerra, il progressivo sfascismo postbellico, oggi siamo pervenuti a un Paese che sta tentando di attuare di nuovo un progetto federale. Non so se è corretto come quello che sarebbe stato opportuno intraprendere un secolo e mezzo fa. So che alla luce delle nostre scelte di oggi non si può non concludere che quella del regno unitario fu una 'falsa partenza'. Per cui c’è molto da discutere e da studiare. Ma c’è poco da celebrare.
«Avvenire» del 24 marzo 2010