DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

1861, la storia da ripensare. Il Risorgimento fu il frutto di élites estranee alla maggioranza del popolo. Di Franco Cardini

Anzitutto, una premessa. Non mi pare si possa eludere la questione di un ripensa­mento serio sul cosiddetto 'Risorgi­mento' (che cosa mai sarebbe 'ri­sorto', in particolare?) e sul processo di unità nazionale. Al riguardo parla­re di istanze 'revisionistiche' o addi­rittura 'temporalistiche' o cose del genere mi sembra del tutto fuori luo­go. La storia si deve ripensare di con­tinuo. Oggi, a distanza di 150 anni dal­la fondazione del regno d’Italia, è e­vidente che molte prospettive sono andate mutando e che su di esse han­no senza dubbio lavorato gli specia­­listi, ma sono mancati sia (almeno in parte) un vero e proprio aggiorna­mento nelle scuole, sia un dibattito mediatico fruibile da parte del 'grande pubblico', vale a dire di quella porzione della società civile italia­na che non ha ancora ri­nunziato a esser tale. Quello che in sintesi mi pare si possa dire, è che il processo di unità nazio­nale fu mandato avanti da alcune élites peraltro non concor­di fra loro, ma che la maggioranza del­le popolazioni che costituivano la fu­tura Italia unita ne restarono estra­nee. Si potrebbe obiettare che molti eventi storici sono stati caratterizza­ti da un processo dinamico analogo, vale a dire che solo ristrette élites ne sono state protagoniste. Niente di scandaloso. Però vanno sottolineate due cose. Prima: la formula dello Sta­to unitario accentrato che alla fine prevalse era coerente con gli interes­si espansionistici dei Savoia e forse di alcuni imprenditori e finanzieri, era gradita all’ideologismo neogiacobi­no di garibaldini e mazziniani, ma non congrua con la storia e temo nemmeno le strutture e le istituzioni dei vari Stati italiani precedenti; la sto- ria d’Italia è eminentemente poli­centrica e municipalistica, per cui u­na soluzione di tipo 'federale', ana­loga
mutatis mutandis a quella che gli Hohenzollern e il principe di Bi­smarck dettero al problema unitario tedesco, sarebbe stata più adatta e op­portuna di quella che, fra l’altro, ge­nerò la colonizzazione e lo sfrutta­mento del Sud da parte del Nord (con fenomeni collaterali quali il brigan­taggio e la sua tanto orribile quanto in parte vana repressione) e la meri­dionalizzazione di buona parte delle strutture pubbliche del giovane re­gno. Secondo: il carattere élitario del 'movimento risorgimentale' nei suoi esiti ultimi ebbe come effetto obiet­tivo un notevole ritardo nella 'nazio­nalizzazione delle masse', nono­stante i due strumenti della scuola e della leva obbligatoria; da questo punto di vista mi sembra che vedes­sero giusto gli interventisti, 'demo­cratici' o 'rivoluzionari' che fossero, i quali ritenevano che il bagno di san­gue avrebbe cementato l’edificio del­la patria e che gli italiani, che fatta l’I­talia non erano stati fatti, si sarebbe­ro forgiati nel ferro e nel fuoco della trincea. Ma ciò - attenzione! - porte­rebbe a concludere che la visione del­la prima guerra mondiale come 'quarta guerra d’Indipendenza' e compimento del processo di unità nazionale, la visione di Gioacchino Volpe (e alfine anche di Mussolini) e­ra corretta. Attenzione: non sto di­cendo che la dittatura fascista fosse a questo punto l’esito necessario del movimento del ’59-61 (e del’70). Mi li­mito a dire che anzitutto non fu af­fatto 'l’invasione degli Hyksos' come sosteneva Benedetto Croce.
Ne consegue, a mio avviso, che esito migliore avrebbe potuto avere in Ita­lia un movimento di edificazione del­l’unità nazionale che scegliesse la via federalista, indicata da Gioberti ma ­soprattutto - da Cattaneo: anche sal­vando, ebbene sì, un potere tempo­rale pontificio, magari ridotto alla città di Roma e qualche pertinenza. Quel­la via non avrebbe creato la rovinosa 'questione meridionale', non avreb­be determinato decenni di crisi mo­rale resa inevitabile dal contrasto tra Stato e Chiesa con tutto quel che ciò aveva significato per il Paese (anche in termini morali e culturali: un pic­colo ridicolo Kulturkampf il regno l’ha fatto eccome); probabilmente avreb­be evitato la rovinosa politica di op­posizione preconcetta all’Austria (vorrei ricordare che Cattaneo auspi­cava che il 'Commonwealth' au­striaco restasse in piedi), non si sa­rebbe appoggiata alla Prussia nella guerra del ’66 contribuendo in tal mo­do, forse, a evitare la guerra franco­prussiana del 1870 ch’è stata la lon­tana ma primaria fonte dei guai di tut­to il continente per i tre quarti di se­colo a venire. Sarebbe bastato ap­poggiare seriamente il progetto di Na­poleone III (in verità, piuttosto del­l’imperatrice Eugenia) di una Lega franco-ispano-italo-bavaro-austro­ungherese delle potenze cattoliche euromeridionali, con annesso il pro­getto di favorire l’indipendenza po­lacca (l’Austria ci sarebbe stata, alla faccia di Germania e Russia) e di ge­stire oculatamente la crisi e la deca­denza dell’impero ottomano, il che sarebbe stato meglio per tutto il Vici­no Oriente (mentre invece lo abbia­mo fatto gestire dal ’18 al ’48, rovino­samente, da Francia e Inghilterra). Fra l’altro, l’alleanza sognata da Eugenia sarebbe stato un ottimo contributo alla futura unione europea. E lo stes­so sia detto per il nostro mondo im­prenditoriale: un’Europa meridiona­le e un Mediterraneo egemonizzato dalle potenze navali francese, au­striaca e italiana avrebbe impresso tutto un altro trend alla nostra eco­nomia. Pensiamo solo alle implica­zioni di un’integrazione linee ferro­viarie- linee marittime, con la possibilità di avviare sul serio una politica di pene­trazione orientale dai Bal­cani e da Istanbul fino all’I­ran e all’Asia centrale. Un mondo senza le due guerre del ’66 e del ’70 avrebbe po­tuto sul serio attuare in tem­pi rapidi una linea ferrovia­ria Vienna-Isfahan e colle­gare l’Europa continentale al great game russo-inglese, magari nel contempo impedendo alla Rus­sia di avvelenare i Balcani con la dro­ga del nazionalismo irredentista, cau­sa della prima guerra mondiale.
Ma l’Italia si è fatta in un altro modo. Ha perduto l’autobus dell’unione fe­deralista. E dopo il fascismo, la guer­ra, il progressivo sfascismo postbelli­co, oggi siamo pervenuti a un Paese che sta tentando di attuare di nuovo un progetto federale. Non so se è cor­retto come quello che sarebbe stato opportuno intraprendere un secolo e mezzo fa. So che alla luce delle nostre scelte di oggi non si può non conclu­dere che quella del regno unitario fu una 'falsa partenza'. Per cui c’è mol­to da discutere e da studiare. Ma c’è poco da celebrare.
«Avvenire» del 24 marzo 2010