DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Aborto e depressione

Intervista a Theresa Burke fondatrice di Rachel's Vineyard Ministries

KING OF PRUSSIA (Pennsylvania), sabato 11 marzo 2006 (ZENIT.org).- La donna in stato di gravidanza attraversa diverse fasi psicologiche nel suo rapporto con il bimbo che porta in grembo - un fattore spesso trascurato nell’ambito del dibattito sull’aborto.

Così si esprime Theresa Burke, fondatrice di Rachel's Vineyard Ministries, un’attività di ritiri di fine settimana specifici per le problematiche conseguenti all’aborto.

In questa intervista - divisa in due parti - rilasciata a ZENIT, Burke spiega il rapporto tra la donna e il nascituro, e il nesso tra l’aborto e la depressione.

La seconda parte dell’intervista è pubblicata di seguito nell’odierno servizio di “Analisi internazionale”.

Quali sono le caratteristiche del rapporto psicologico tra la donna e il bimbo che porta in grembo?

Burke: La gravidanza non è una malattia o una qualche forma patologica. È un evento naturale che si protrae da milioni di anni.

Il corpo della donna è naturalmente programmato per nutrire e sostenere la vita. Il rapporto psicologico tra la madre e il nascituro si basa sui diversi elementi fisici e ormonali, ma anche sul sostegno che la donna riceve dal sistema sociale e culturale in cui è inserita.

Per la maggior parte delle donne il primo trimestre può essere un momento di aspettativa e di fervore, oppure di rabbia e timore per una gravidanza indesiderata.

Piuttosto comuni sono anche i sentimenti contrastanti: la madre è piena di meraviglia di fronte al mistero del suo corpo che è in grado di produrre vita; e al contempo può anche sentirsi sopraffatta dalle responsabilità derivanti dall’esigenza di farsi carico di un altro essere umano.

Al progredire della gravidanza, la madre può sperimentare sentimenti sia positivi, sia negativi, in relazione ai cambiamenti che intervengono nel suo corpo. Nel terzo trimestre possono sopraggiungere ansie per il parto, pensieri per la salute del bambino, preoccupazioni su come il partner si adeguerà alla presenza di un nuovo componente della famiglia, e angustie sulle nuove esigenze economiche.

Allo stesso tempo, la donna è elettrizzata e piena di speranze per l’imminente nascita del suo bambino e per l’inizio di una fase completamente nuova della sua vita.

Quando arriva il momento del parto e può prendere il suo bambino tra le braccia, il mistero, la meraviglia e l’entusiasmo culminano in un potente legame in cui la madre accoglie con gioia l’arrivo di una preziosa nuova vita in questo mondo.

Si può dire che la donna ha bisogno di tutti e nove i mesi di gravidanza per poter intraprendere quel processo emotivo e psicologico che accompagna la maternità. Sia la madre, che il figlio, attraversano una trasformazione rapida e molto intensa.

Che ruolo svolgono altri fattori, quali la pressione proveniente dalle famiglie, dal partner e dai problemi economici, nella decisione della donna di ricorrere all’aborto?

Burke: Se andiamo oltre la retorica della libertà di scelta, dobbiamo in tutta onestà chiederci: “di chi è veramente la scelta?”.

Da alcune ricerche recenti, risulta che nel 95% dei casi, il partner svolge un ruolo centrale nella decisione di abortire.

Altri studi come il rapporto del luglio 2005 pubblicato dal Post Abortion Review dell’Elliot Institute, rivelano che l’80% delle donne darebbe alla luce il bambino qualora ricevesse un adeguato sostegno.

Un ex agente di sicurezza di una clinica abortista ha testimoniato nel Massachusetts che le donne vengono regolarmente minacciate e costrette dai propri uomini ad andare in clinica.

Troppo spesso l’aborto è la scelta di qualcun altro e troppo spesso sentiamo donne che dicono di non aver avuto altra scelta se non quella dell’aborto.

I dati ci dicono che l’omicidio è la prima causa di morte delle donne incinte. Gli uomini che sono stati condannati per aver ucciso la propria partner in stato di gravidanza, adducono come principale motivazione la volontà di non pagare per sostenere il bambino.

Queste terribili statistiche nazionali indicano chiaramente che esiste un alto livello di coercizione che induce le donne ad abortire loro malgrado.

Senza il continuo sostegno del padre del bambino o della propria famiglia, molte madri temono di non avere sufficienti risorse da dedicare al figlio. Considerati i tassi di povertà tra i genitori single e i problemi che gravano su di loro, questo rappresenta un problema reale.

Troppo spesso, dietro le donne che abortiscono scopriamo una serie di persone che sono molto coinvolte nella “sua scelta” e che spesso esercitano pressioni persuasive e manipolative.

Si può trattare dei genitori che fanno pressione minacciando di privarla del loro affetto o persino di diseredarla se decidesse di non abortire; dei medici e psicologi che usano la loro autorevolezza per far apparire l’aborto una scelta razionale, matura e l’unica scelta sensata considerate le circostanze.

Questo avviene soprattutto quando vi è una minima avvisaglia di qualche problema di salute del nascituro. In questi casi la pressione ad abortire diventa molto forte.

Nei casi di gravi difformità del feto, il 95% delle donne che si avvalgono dell’assistenza perinatale scelgono questo tipo di soluzione considerandola la più umana e emotivamente sopportabile, poiché evita il trauma dell’aborto tardivo che è un’esperienza orribile sia per la madre che per il bambino.

Cosa avviene al rapporto psicologico quando una donna abortisce? Esiste qualche differenza rispetto all’aborto spontaneo?

Burke: Quando una madre viene bruscamente e violentemente staccata dal figlio si verifica un trauma. La sua è un’esperienze di morte innaturale.

In molti casi, lei ha violato la propria etica morale e i propri istinti naturali. La sua immagine di “madre” che nutre, protegge e sostiene la vita subisce un colpo devastante.

Personalmente ho conosciuto migliaia di donne la cui vita è stata distrutta dal trauma dell’aborto, un evento che hanno vissuto come un qualcosa di brutale e ignobile. Interviene poi un sentimento di dolore, di tristezza, di angoscia, di colpa, di vergogna e di rabbia.

Molte imparano a rendersi insensibili attraverso l’alcol e la droga, o pensano di dominare il trauma riaffrontando e ripetendo l’esperienza. Alcune ricorrono alla promiscuità e ripetono l’aborto, entrando in un vortice traumatico di abbandono e di rigetto.

Altre, per soffocare i sentimenti, cadono in fenomeni di disordine alimentare, di attacchi di panico, depressione, ansia e pensieri suicidi. Alcune hanno subito danni permanenti fisici e riproduttivi per cui non possono più avere figli.

L’aborto è un’esperienza di morte. È il tramonto del potenziale umano, del rapporto umano, della responsabilità, del senso materno, della relazione con l’altro e dell’innocenza. Una perdita di questo tipo raramente viene vissuta senza conflitto e contrasto interiore.

È un’illusione pensare di poterla superare senza danni collaterali. Nel mio libro “Forbidden Grief: The Unspoken Pain of Abortion”, insieme a David C. Reardon, pongo il lettore di fronte alla profondità dell’esperienza umana, un luogo in cui il dibattito sull’aborto spesso penetra.

Dopo tutte le polemiche, le manifestazioni, le politiche per la libertà e i diritti, rimangono gli aspetti emotivi dell’aborto che sfidano le parole.

L’agonia psicologica e spirituale conseguente all’aborto viene soffocata dalla società, ignorata dai mezzi di comunicazione, rifiutata dagli psicologi e disprezzata dai movimenti femminili.

Il trauma post-aborto è una malattia grave e devastante che non dispone di portavoci celebri, che non è oggetto di film, né di programmi televisivi o talk show.

L’aborto tocca tre questioni centrali dell’identità di una donna: la sua sessualità, la sua moralità e la sua maternità. Esso comporta anche la perdita di un figlio, o almeno la perdita dell’opportunità di avere un figlio. In entrambi i casi questa perdita deve essere affrontata, elaborata e compianta.

Anche in un aborto spontaneo la madre soffre per la perdita del figlio. La differenza sta però nel diverso grado di vergogna e di senso di colpa rispetto alle donne che hanno abortito. Queste ultime, infatti, hanno abortito in seguito ad una scelta volontaria e consapevole di porre termine alla vita che portavano in grembo, mentre l’aborto spontaneo avviene per cause naturali.

Con l’aborto volontario, la perdita è un segreto. Non vi è alcun sostegno o consolazione che provenga dagli amici o dalla famiglia.

Peraltro è importante considerare che dopo un aborto volontario aumentano le probabilità di incorrere in successivi aborti spontanei. E quando avviene una perdita spontanea di un figlio, concepito dopo un precedente aborto, la donna spesso sviluppa complessi fenomeni di dolore e di depressione, perché è indotta a pensare che si tratti di una sorta di “punizione divina”.

Qual è il rischio di sviluppare forme di depressione a causa del senso di colpa per aver abortito?

Burke: L’aborto, essendo legale, è considerato normalmente anche come un qualcosa di sicuro. Anzi, normalmente è considerato come un “diritto” della donna.

Questo diritto, o privilegio, dovrebbe liberare la donna dal peso di una gravidanza indesiderata. Dovrebbe procurare sollievo e non afflizione e depressione.

Uno dei maggiori problemi è che la donna che viene assalita dalle proprie reazioni istintive legate alla perdita del bambino, non se l’aspetta e non capisce cos’è che non va.

Molte donne ricorrono ai medici per le loro forme di depressione, di ansia o di dipendenza, senza capire la radice della loro malattia. In molti casi le vengono somministrati farmaci, ma mai vengono accompagnate lungo un percorso che porta alla guarigione e al recupero.

Memorie e sentimenti irrisolti inerenti l’aborto diventano fonte di pressione che può esplodere a distanza di anni in modi inaspettati. Presto o tardi i sentimenti irrisolti dovranno essere affrontati, spesso con l’emergere di disturbi emotivi o comportamentali.

Il professor David Fergusson, ricercatore della Christchurch School of Medicine in Nuova Zelanda, ha svolto uno studio in cui voleva dimostrare che l’aborto non comporta alcuna conseguenza psicologica. Ma si è sorpreso nello scoprire che le donne che hanno avuto un aborto avevano una probabilità 1,5 volte superiore di sviluppare malattie mentali, e 2 o 3 superiore di diventare tossicodipendenti o di fare abuso di alcol.

Fergusson ha seguito un campione di 500 donne dalla nascita all’età d 25 anni. “Quelle che hanno abortito avevano elevate probabilità di sviluppare successivamente problemi di salute mentale, tra cui la depressione (aumento del 46%), l’ansia, comportamenti suicidi e tossicodipendenza”, afferma lo studio pubblicato nel Journal of Child Psychiatry and Psychology.

L’aborto è in effetti responsabile di una serie di fenomeni gravi:

-- aumento del 160% nei tassi di suicidio negli Stati Uniti nel 2001, secondo l’Archives of Women's Mental Health;

-- aumento del 225% nei tassi di suicidio in Gran Bretagna nel 1997, secondo il British Medical Journal;

-- aumento del 546% nei tassi di suicidio in Finlandia nel 1997, secondo gli Acta Obstetrica et Gynecologica Scandinavica.

In definitiva, la media degli aumenti nell’incidenza del suicidio riportati da questi tre studi è del 310%!

Gli alti tassi di suicidio successivi all’aborto contraddice chiaramente l’idea che porre fine alla gravidanza possa essere una scelta più sicura rispetto a quella di dare alla luce il bambino.

Lo studio più autorevole sui legami tra ricovero psichiatrico e aborto rivela che nei quattro anni successivi ad una gravidanza, le donne che abortiscono ricorrono alla psichiatrica da due a quattro di più rispetto alle donne che portano avanti la gravidanza.

Un altro studio rivela che anche quattro anni dopo aver abortito, i tassi di ricorso alla psichiatria rimangono del 67% più alti rispetto alle donne che non hanno abortito.

Secondo l’Archives of Women's Mental Health, nel 2001, le donne che hanno abortito risultano aver sviluppato in maggior misura reazioni di aggiustamento, psicosi depressive e disturbi neurologici e bipolari.

Anche il rischio di depressione o psicosi post parto per le nascite desiderate è maggiore per le donne che avevano precedentemente abortito.

Per una media di otto anni successivi all’aborto, le donne sposate hanno dimostrato una propensione a cadere in depressione clinica del 138% superiore rispetto alle corrispondenti donne che avevano portato avanti la loro gravidanza indesiderata. Questo, secondo il British Medical Journal del 19 gennaio del 2002.

Riguardo il problema dell’alcol e della tossicodipendenza, le donne che hanno abortito risultano essere 4,5 volte più portate ad affrontare il loro contrasto e dolore interiore in questo modo.

E questo dato si basa solo su quelle donne la cui dipendenza da alcol o dalle droghe è resa nota. Non sono invece considerate tutte quelle donne che ogni sera si bevono i loro otto bicchieri di vino pensando che ciò sia semplicemente un modo per rilassarsi. Questo aspetto è stato riportato dall’American Journal of Drug and Alcohol Abuse, nel 2000.

Le conclusioni del primo studio di lungo termine condotto dal dr. Vincent Rue riportano abbondanti dati sui disturbi da stress post traumatico.

Dalle statistiche relative agli Stati Uniti risulta che:

-- Il 55% di coloro che hanno abortito afferma di avere incubi e di essere ossessionato dall’aborto;

-- Il 73% afferma di avere dei flashback;

-- Il 58% delle donne afferma di avere pensieri suicidi e di riferirli direttamente all’aborto;

-- Il 68% rivela di essere scontenta di se stessa;

-- Il 79% si sente in colpa e afferma di essere incapace di perdonarsi;

-- Il 63% ha timori per future gravidanze e dell’idea di diventare genitore;

-- Il 49% non si sente a proprio agio vicino ai neonati;

-- Il 67% si descrive “sentimentalmente insensibile”.

Da molti altri studi ed esperienze cliniche si comprende che per molte donne l’emergere di disfunzioni sessuali, di disordini alimentari, di un aumento del consumo di tabacco, di attacchi di panico e di ansia, o di relazioni conflittuali, è un dato costante che consegue all’esperienza dell’aborto.

Esiste un motivo scientifico o politico per cui non è stata svolta una vera ricerca diretta ad analizzare i possibili nessi tra aborto e depressione?

Burke: Come società, sappiamo discutere dell’aborto in quanto problematica politica, ma non sappiamo parlarne ad un livello intimo e personale.

Non vi è alcun obbligo sociale che imponga di affrontare la questione dell’aborto, tanto che tutti cerchiamo di ignorare il problema.

Uno dei motivi per cui non vogliamo parlare del dolore delle donne e degli uomini che hanno vissuto l’esperienza dell’aborto è che, come società, siamo profondamente turbati dalla questione. Mentre la gran parte della gente ritiene che l’aborto debba essere legalmente consentito in certe circostanze, la maggioranza di essi ne è al contempo moralmente turbata.

Secondo uno dei sondaggi più autorevoli, il 77% dell’opinione pubblica ritiene che l’aborto sia la soppressione di una vita umana, mentre il 49% lo equipara all’omicidio.

Solo il 16% afferma di credere che l’aborto sia solo “un’operazione chirurgica diretta a rimuovere del tessuto umano”.

Persino un terzo di coloro che si dicono fortemente favorevoli alla “libertà di scelta” ammette di credere che l’aborto sia la soppressione di una vita umana. Questo è quanto riportato da James Davison Hunter nel suo libro del 1994 “Before the Shooting Begins: Searching for Democracy in America’s Cultural War”.

Da queste conclusioni si desume che la maggior parte degli americani mette da parte le proprie convinzioni morali, in nome del rispetto del “diritto di scelta della donna”.

Come società abbiamo scelto di tollerare la morte di esseri umani non nati, al fine di migliorare la vita delle donne.

Questo compromesso morale viene tuttavia messo in discussione quando le donne manifestano la loro tristezza e il loro dolore a causa dell’aborto. In questo modo fanno sentire scomodi e turbati i loro ascoltatori.

La depressione post aborto ci costringe a guardare non solo al dolore dell’individuo, ma anche all’angoscia della nostra società. È una questione profondamente complessa e preoccupante, su cui la maggior parte della gente non vuole soffermarsi troppo attentamente.

I fautori dell’aborto spesso esitano a riconoscere la realtà del dolore post aborto perché temono che questo possa in qualche modo pregiudicare l’argomentazione politica a favore della legalizzazione.

La maggior parte dei consultori abortisti, ignorando ogni evidenza, assicurano alle donne che le reazioni psicologiche negative conseguenti all’aborto sono rare o persino inesistenti. Qualsiasi cosa che possa creare turbamento o dubbi viene evitata, nel timore che possa “persuaderla a non dare il suo consenso all’aborto”.

In sostanza, nel nascondere alla donna le informazioni capaci di dissuaderla, altre persone scelgono al suo posto.

La collusione tra ignoranza e negazione dà luogo ad un atteggiamento di abuso e di negligenza nei confronti della donna ed apre la strada a profondi e spaventosi traumi personali.

Lei crede che la consapevolezza del rischio di cadere in depressione possa costituire un deterrente per le donne che considerano l’ipotesi di abortire?

Burke: Spero proprio di sì. Le donne hanno il diritto di conoscere i rischi a cui vanno incontro qualora scelgano di ricorrere all’aborto.

La legge impone il consenso informato per ricevere qualsiasi farmaco o trattamento medico. Questo significa che dobbiamo conoscerne ogni implicazione, ogni aspetto dell’intervento e ogni rischio di breve e di lungo termine. Queste sono informazioni essenziali.

Alla luce di queste statistiche allarmanti, relative ai rischi per la salute mentale, per la salute fisica, per i tumori al seno, ecc., è evidente che una rigorosa regolamentazione è essenziale per la tutela della salute riproduttiva e psicologica delle donne.

Ancora più importate credo sia l’esigenza di infondere fiducia alle donne e agli uomini che hanno sofferto la perdita di un figlio a causa dell’aborto e di fargli sapere che hanno motivo di poter sperare in una piena guarigione. Essi devono sapere di non essere soli.

Nel 1989, un gruppo di esperti convocato dalla American Psychological Association ha concluso unanimemente che l’aborto, entro i limiti della legalità, “per la maggior parte delle donne che vi ricorre, non crea rischi di natura psicologica”.

Gli esperti hanno osservato che se dall’aborto derivassero gravi reazioni emotive, vi sarebbe un’epidemia di donne in cerca di cure psicologiche. Il gruppo ha affermato che non vi è alcuna prova di tale epidemia. E dal 1989 non vi è stato alcun cambiamento significativo di questo orientamento.

È chiaro che essi non hanno tenuto conto della enorme crescita di Rachel's Vineyard Ministries!

Nel 2006 la nostra organizzazione darà la possibilità di partecipare a 450 ritiri di fine settimana per guarire dai traumi post aborto. A ciascun ritiro partecipano tra le 12 e le 25 persone.

Questo significa che ogni anno partecipano tra le 5.400 e le 11.250 persone.

Il nostro servizio cresce ad un ritmo del 40% annuo. Nei soli ultimi sette anni, migliaia di uomini e donne ci hanno chiesto aiuto, mentre Rachel's Vineyard si diffondeva in Africa, Taiwan, Russia, Inghilterra, Irlanda, Scozia, Spagna, Portogallo, Sud America, Canada e in tutti gli Stati Uniti.

Inoltre, anche altre organizzazioni post aborto stanno sorgendo ovunque a centinaia. Dunque, a dispetto di quanto pensi l’American Psychological Association - e chi come noi svolge questo tipo di servizio lo sa - è in atto una vera epidemia che è stata vergognosamente ignorata, diagnosticata male e non curata.