DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

HASTA LA VICTORIA! I dissidenti cubani in sciopero della fame muoiono in carcere e il regime in affanno

di Maurizio Stefanini

Quando si cammina a Cuba, specie
per le strade più vecchie, sono
molte quelle case che tu le guardi, e ti
chiedi: ma come farà a stare in piedi?
Mura che cadono, vernice scrostata,
finestre rotte… Eppure, reggono. Un
giorno, qualcuno, con un po’ di buona
volontà, decide che è ora di dare una
risistemata, e comincia col risistemare
una vite. In quel momento, crolla
tutto”. Dopo la morte, il 23 febbraio
scorso, di Orlando Zapata Tamayo, dopo
ottantatré giorni di sciopero della
fame, anche il dissidente Guillermo
Fariñas Hernández è finito in ospedale,
l’11 marzo scorso. E il 10 marzo Félix
Bonne Carcassés, un terzo dissidente,
ha annunciato che se Fariñas
muore si metterà a sua volta a fare
sciopero della fame a oltranza al suo
posto. “Questa è Cuba. La vite che fa
crollare tutto potrebbe essere Zapata,
Fariñas, o semplicemente la rissa a
un mercato durante la coda a un banco
di pomodori”.
L’apologo lo racconta al Foglio Yoani
Sánchez: l’ormai leggendaria blogger
che, dopo aver lasciato gli studi di
filologia per andare in esilio in Svizzera,
ha deciso di tornare in patria
“per non darla vinta al regime”, e ha
utilizzato la pratica di Internet che si
era fatta tra le Alpi per lanciare Generazione
Y. “Un Blog ispirato da
gente come me, con nomi che iniziano
con o contengono una y. Nati nella Cuba
degli anni Settanta e Ottanta, marcati
dalle scuole al campo, dalle bamboline
russe, dalle uscite illegali e
dalla frustrazione”. Il suo sito è arrivato
a quattordici milioni di visitatori
al mese, mentre altre 68 mila persone
la seguono tra Facebook e Twitter,
contro i diecimila appena che frequentano
il sito di Fidel Castro. Time
l’ha classificata tra “le cento persone
più influenti del 2008”, anche se per
sopravvivere fa la guida turistica non
autorizzata. E ha avuto in Spagna un
premio Ortega y Gasset del giornalismo
e negli Stati Uniti un Maria
Moors Cabot Award, che però non le è
stato concesso di andare a ritirare.
Così come non le è stato consentito di
andare né alla Fiera del Libro di Torino,
né al Congresso internazionale
della lingua spagnola a Valparaíso, in
Cile. Anzi, lo scorso 6 novembre è stata
per la prima volta aggredita fisicamente.
“Niente sangue ma lividi, colpi,
capelli strappati e botte in testa,
reni, ginocchia e petto”, raccontò dopo
essere stata liberata: o meglio, buttata
giù da una macchina. A tirarcela
dentro a forza, trattenercela per venti
minuti e picchiarla a colpi di judo e
karate, mentre stava dirigendosi a
una marcia-performance musicale
pacifica, tre agenti della Sicurezza di
stato in abiti civili.
Botte in quantità erano state distribuite
anche durante lo sciopero della
fame di Zapata, quando vari oppositori
avevano cercato di scendere in
piazza per appoggiare la sua protesta.
E almeno trenta persone sono state
arrestate dopo la sua morte, per impedir
loro di recarsi al funerale. L’analisi
di Yoani Sánchez è che sia proprio
in questo diverso tipo di repressione
la principale differenza tra Fidel
Castro e suo fratello Raúl: “In passato
– ci spiega – il governo cercava di
infliggere ai dissidenti la morte civile.
Non c’era possibilità di esprimersi,
non c’era possibilità di organizzarsi,
tutti i percorsi di una possibile critica
e protesta erano sistematicamente
tagliati. Grazie a Internet e alle
nuove tecnologie, però, i cittadini sono
riusciti lentamente a ricostruire
alcuni percorsi. E così ora si sta passando
a un tipo di repressione diversa:
secca, molto intimidatoria. C’è una
paramilitarizzazione della polizia, ci
sono agenti dei Servizi che si presentano
in borghese a pretendere di agire
come se fossero agenti in uniforme”.
Se vogliamo, insomma, dal modello
totalitario sovietico, Cuba sta
tornando al più normale autoritarismo
arbitario della tradizione latinoamericana.
“Sì: da una repressione
asettica a una repressione brutale”.
Eppure, segnali di apertura non sono
mancati, da quando è al potere
Raúl. La stessa Yoani Sánchez si è
trovata il suo lavoro di blogger un po’
semplificato, quando il regime ha
concesso anche ai cittadini cubani di
acquistare tessere prepagate per accedere
ai punti internet degli hotel
per stranieri: anche se a prezzi di sette-
dodici dollari all’ora, in un paese
dove il salario medio è di 17 dollari al
mese. La povertà limita anche la portata
della prima grande riforma di
Raúl: la liberalizzazione dell’acquisto
di elettrodomestici. Di questi giorni è
poi l’annuncio della prossima chiusura
di cento imprese agricole considerate
inefficienti, con la ricollocazione
di quarantamila lavoratori: una notizia
che va messa assieme, da un lato,
alla progressiva chiusura dei “comedores
obreros”, le mense che davano
un pasto gratis ad almeno 3,5 degli
11,2 milioni di cubani; dall’altro, all’iniziativa
di affittare a privati 1,7 milioni
di ettari di terre demaniali, i cui
affittuari avrebbero il permesso di assumere
braccianti e di stipulare altri
tipi di contratti.
Oltre a qualche abbozzo di Perestroika,
c’è stato qualche esperimento
di Glasnost. Ad esempio “Juventud
Rebelde”, organo ufficiale della
Unión de Jóvenes Comunistas de Cuba,
che ha inaugurato una moderata
fronda: attaccando la censura, criticando
la “verticalità sociale”, chiedendo
di “cambiare tutto ciò che deve
essere cambiato”. E il 21 gennaio
alla tv c’è stata una clamorosa puntata
di “Mesa Redonda”, una specie di
“Porta a Porta” locale, che aveva infranto
un tabù clamoroso. “A Cuba c’è
razzismo, anche se di bassa intensità
e di tipo psicologico e non istituzionale”,
avevano riconosciuto gli intervenuti.
L’antropologo Pablo Rodríguez
aveva ammesso che “sebbene non vi
siano ghetti neri, esista una coesistenza
e la violenza razziale non sia su
grande scala”, tuttavia “esiste una notevole
violenza verbale”. L’economista
Esteban Morales aveva spiegato
che dopo il 1962 qualsiasi dibattito
sul tema era stato rimosso “per non
mostrare divisioni della società cubana
di fronte agli Stati Uniti”. E lo storico
Heriberto Feraudy dopo aver
detto che “a molti sarebbe sembrato
impossibile che si realizzasse un dibattito
in tv su questo tema” aveva aggiunto
che le leggi e le “missioni internazionaliste”
non bastano contro il
“male che sussiste nelle menti”, se
non le si accompagna con “l’azione
culturale”. Insomma, “il razzismo esiste:
non solo per eredità della società
anteriore, ma per imperfezioni della
società attuale”.
Intanto era già in corso la protesta
che avrebbe portato alla drammatica
morte del “negro” Zapata. E se Raúl
l’ha deplorata, la stampa ufficiale non
ha mancato di insistere sul fatto che il
defunto era un “delinquente comune”.
Di professione muratore e idraulico,
Zapata era stato in effetti processato
nel 1993 per violazione di domicilio;
nel 2000 per lesioni non gravi, truffa
e possesso di arma bianca; nel 2002
per alterazione dell’ordine e disordine
pubblico. Incarcerato il 6 dicembre
del 2002, era stato posto in libertà condizionata
il 9 marzo del 2003. Ma a
quel punto si era unito a uno sciopero
della fame di dissidenti, e il 20 marzo
2003 si era ritrovato tra i 75 arrestati
della cosiddetta “Primavera nera”. Disadattato
radicalizzatosi in carcere
nel contatto con i detenuti politici, come
spesso accade nelle rivoluzioni, o
oppositore diffamato, come pure accade
nei regimi autoritari, Zapata aveva
continuato a ribellarsi e ad accumulare
condanne. Anche qui, il dissenso e
la famiglia sostengono che erano le
guardie del carcere a picchiarlo in
continuazione. La stessa decisione di
intraprendere lo sciopero della fame
che l’ha portato alla tomba sarebbe
stata dovuta ai tre ultimi pestaggi ricevuti.
Un’ulteriore denuncia è sui diciotto
giorni di privazione dell’acqua
cui il “ribelle” sarebbe stato sottoposto,
per costringerlo a mangiare.
Quando è arrivato in ospedale aveva
la schiena piagata, ed era talmente
consumato che hanno dovuto mettergli
le flebo sul collo.
Fariñas, a differenza di Zapata Tamayo,
non è un proletario, ma un intellettuale,
con un passato di integerrimo
rivoluzionario. Entrambi i suoi
genitori lottarono contro Batista, suo
padre accompagnò il Che in Congo nel
1965. E lui, dopo aver frequentato una
scuola militare in Unione sovietica,
combatté nella “missione internazionalista”
in Angola. Ferito diverse volte
in combattimento, nel 1980 era tra i
militari di guardia all’ambasciata del
Perù, nel tentativo di impedire la fuga
di massa dei cosidetti “marielitos”.
Costretto a lasciare le Forze armate
per i postumi delle ferite in Angola, si
iscrisse all’università e ottenne una
laurea in Psicologia. Ma dopo la fucilazione
del generale Ochoa, suo antico
comandante, lasciò per protesta il
Partito comunista. In galera finì una
prima volta nel 1995, dopo aver denunciato
per corruzione la direttrice
dell’ospedale pediatrico in cui lavorava.
Creatore di un’agenzia di stampa
indipendente, più volte aggredito da
agenti del regime, dal 1995 in poi si è
messo diciannove volte in sciopero
della fame. Nel 2005 addirittura per
sette mesi, chiedendo la libertà di accesso
a Internet per tutti i cubani. L’ultima
protesta è iniziata il giorno dopo
la morte di Zapata, e ha come obiettivo
la liberazione di ventisei prigionieri
politici in gravi condizioni di salute.
“E’ ora che il mondo si renda conto di
quanto questo governo è crudele, e ci
sono momenti nella storia dei paesi in
cui ci debbono essere martiri”. Anche
Fariñas è negro.
E’ negro anche Bonne: ingegnere e
professore, fu uno dei quattro arrestati
nel 1997 per “azioni contro la sicurezza
nazionale dello stato cubano” e
“sedizione”: aveva diffuso uno scritto
sul quinto congresso del Partito comunista
cubano. E’ negro Manuel Cuestua
Morúa: un leader del dissenso di
ispirazione socialdemocratica vicino
alle sinistre europee, in passato accusato
da altri dissidenti di essere troppo
morbido col regime. Ma sul caso
Zapata è stato durissimo: “Se la sono
presa con lui perché era negro!”. E’
negro Juan Carlos González Marcos
“Pánfilo”: disoccupato e alcolista, nei
mesi scorsi, grazie a YouTube, aveva
fatto ridere mezzo mondo per come
aveva cominciato a irrompere sugli
schermi, reclamando in modo sconclusionato
contro la fame dei cubani:
condannato a due anni, è stato rilasciato
ma sotto stretta sorveglianza. E’
negro il medico Óscar Elías Biscet:
cattolico antiabortista condannato a
venticinque anni, perennemente in
cella di punizione. E’ negro Darsy Ferrer,
condannato con la pretestuosa imputazione
di “acquisto illegale di cemento
al mercato nero”. Ed è negro
Jorge Luis Pérez “Antúnez”: dopo diciassette
anni di carcere per “propaganda
nemica orale” vive tuttora assediato
dalla polizia politica. “Come Zapata,
anch’io sono stato torturato per
il colore della mia pelle”, denuncia.
“Questa rivolta dei negri è l’aspetto
nuovo”, spiega al Foglio Carlos
Carralero, scrittore esule in Italia e
presidente dell’Unione per le libertà
a Cuba, che ha inviato all’Unione europea
una protesta sull’“intolleranza
feroce del regime dei fratelli Castro”.
Carralero ricorda tra questi “negri ribelli”
anche Juan Almeida García:
ora coordinatore del suo gruppo, figlio
di quello che fu il numero tre e il
negro più illustre del regime, il comandante
Juan Almeida Bosque. Carralero
dice che “a Cuba, in questo
momento, ci sono sei-settemila dissidenti
dichiarati. I prigionieri politici
nessuno sa quanti siano veramente,
neanche Elizardo Sánchez”. Ovvero il
promotore di quella Commissione cubana
dei diritti umani e riconciliazione
nazionale, che cerca affannosamente
di tenere il conto basandosi
sulle testimonianze dei detenuti liberati.
“L’ultima stima era di 211”. Carralero
ce ne ricorda un altro in pericolo
di vita: Ariel Sugler Tamayo, cui
tre anni di detenzione hanno fatto
perdere sessanta chili. “Ha terribili
problemi di reni, emorragie intestinali,
tonsillite cronica, il fratello dice
che ha tutti gli organi compromessi”.
“Il sacrificio di Orlando Zapata ha
segnato un prima e un dopo nella lotta
per i diritti umani”, dice Antúnez.
“Molti che hanno sempre appoggiato
il sistema totalitario adesso si interrogano
su che tipo di regime è questo
che definisce terrorista chi muore di
sciopero della fame”. “La gioventù sa
che in questo sistema non ha più futuro”.
“La supposta liberalizzazione
di Raúl non è stata che un’illusione
creata dai media stranieri”, ci dice
infine Yoani. “I pochi ritocchi cosmetici
non hanno potuto influire veramente
nella vita privata. La gente,
che pure aveva molte aspettative, è
rimasta delusa. E per questo la repressione
è aumentata”. D’altronde,
ogni tentativo autentico di riforma
non farebbe che precipitare la crisi.
“Raúl non è stato eletto dal popolo,
ma ha ricevuto un feudo per il quale
risponde a chi glielo ha dato. Al fondo,
il suo obiettivo è solo guadagnare
il tempo che gli serve per concludere
la sua vecchiaia in pace e morire nel
suo letto, senza dover fuggire in esilio
o essere chiamato in tribunale a rendere
conto”.
Molti attribuiscono a Raúl Castro
una propensione per il modello cinese:
un’apertura economica accompagnata
dal mantenimento dell’autoritarismo
politico. “E’ un’alternativa che
avrebbe potuto essere costruita a partire
dalle riforme economiche del
1994, quando fu consentito ad esempio
di aprire i ristorantini privati”,
spiega Yoani. “Ma poi, su chi aveva
guadagnato qualcosa con il proprio
lavoro si sono sempre abbattute periodiche
sfuriate ‘antiborghesi’, l’economia
è tornata a essere centralizzata,
e anche sull’ultima apertura in
agricoltura pesano questi precedenti.
Non c’è certezza del diritto, la gente
non sa se guadagnando e comprandosi
così una macchina o una casa non
finirà per essere punita e riespropriata
come ‘profittatrice’. D’altra parte
noi siamo cubani, non cinesi. A Cuba
non c’è una cultura che possa continuare
a tenere la gente sottomessa,
una volta che le forze produttive vengano
liberate”.

© Copyright Il Foglio 18 marzo 2010