MARINA CORRADI
Quasi ogni giorno dalla Germania arrivano  notizie di casi di abusi pedofili addebitati a sacerdoti. Storie  risalenti a cinquant’anni fa, come a Ratisbona, e difficili da  verificare.
O nuove denunce, da vagliare con rigore, per fare piena  luce, come vuole il Papa , sul più intollerabile dei crimini. Per  rendere giustizia alle vittime e, eventualmente, agli innocenti. Ma  sembra che una gran ruota mediatica si sia messa in moto, quella ruota  che giudica e condanna già nel pronunciare un nome; e all’infinito  replica quei nomi, e quelle già decretate condanne. Allora tra quanti si  sentono appartenenti alla Chiesa percepisci un’ombra di scoramento  amaro: ma la nostra Chiesa, i nostri preti, possibile che se ne parli  solo per associarli alla colpa, di tutte, più terribile? Smarrimento, e  il dubbio che questa onda mediatica, nel denunciare episodi anche  autentici, taccia di un’altra parte, molto più grande, della realtà. Che  insegua con i riflettori colpevoli veri o presunti, e ignori la  silenziosa immensa moltitudine di sacerdoti fedeli. (Trecento, secondo  il Vaticano, gli autentici casi di pedofilia imputabili a sacerdoti  nell’ultimo mezzo secolo; quattrocentomila i sacerdoti cattolici nel  mondo). No, non è riducibile a quelle accuse, al pure tragico fallimento  di alcuni, la testimonianza resa dai preti ai credenti. Che leggono i  giornali, li chiudono sgomenti, ma vanno invece con la memoria a un  oratorio, a un’infanzia; alla faccia di un uomo. Al ricordo di uno che  ti accoglieva, e voleva bene, quando magari attorno c’era solo la  strada; che era certo che anche nei peggiori ci fosse del buono; che era  padre più del padre vero, perché, a differenza di non pochi padri di  oggi, era convinto che ognuno di noi ha un compito, e un destino buono.  Ci sono milioni di uomini e donne al mondo, che nella loro infanzia e  adolescenza hanno questo ricordo. Magari centrale, magari solo in un  angolo – voce poco ascoltata in distratte lezioni di catechismo.  Tuttavia, da adulti, anche tanti dei più lontani rimandano i loro figli  al catechismo: come nell’eco di una parola ascoltata frettolosamente,  non ben compresa, e però, intuiscono ora, importante. Come nel ricordo  della faccia di un uomo, che comunque perdonava – e che andresti a  cercare, con una strana urgenza nel cuore, il giorno in cui sapessi che  il tempo ormai è breve.
Fanno più rumore, certo, quegli alberi  spezzati, schiantati dal male, che la grande foresta che intorno  silenziosamente cresce.
La limpidezza voluta da Benedetto  XVI nell’anno sacerdotale si confronta con lo sguardo degli uomini, e  con il volano vorace dei media.
Con un accanimento che, ha  notato il portavoce della Santa Sede padre Lombardi, «a Ratisbona e a  Monaco ha cercato elementi per coinvolgere personalmente il Papa nella  questione degli abusi». E addirittura, si direbbe, con un compiacimento  nel cercare di disfare col fango l’immagine stessa del sacerdozio. Come  se ci fossero, sotto, altri conti da saldare con questi uomini così  cocciutamente diversi, così assurdamente celibi, così non disposti a  conformarsi alla mentalità corrente. Benedetto XVI parlando venerdì  scorso alla Congregazione per il Clero ha usato una espressione, per  indicare il cuore del sacerdozio: «essere di un Altro». (Incomprensibile  al mondo: essere di un Altro, con la A maiuscola? Di un Altro, chi? Ma  se ogni uomo moderno sa bene, di appartenere soltanto a se stesso). E  dunque la tempesta monta. Tradimenti veri, come colpi di scure nella  storia di bambini e adolescenti, oppure voci, e anche bugie. Tempesta:  ma che non tocchi, questa giostra di verità mescolate a veleni, la  memoria di quella faccia, di quell’uomo nel campo dell’oratorio, la  domenica. Che giocava a pallone, e portava in montagna, e poneva domande  che gli altri non fanno. Quell’uomo, così certo in una speranza  incrollabile. Che – essendo di un Altro – poteva amare quei figli  d’altri, come figli suoi.
© Copyright Avvenire, 14 marzo 2010