Il deflagrare dello scandalo per i casi di pedofilia del clero in  Irlanda, Germania, Austria e Olanda sta mettendo in ginocchio le Chiese  di quei Paesi. Pagine di giornale, reportage televisivi e articoli sul  Web portano alla luce casi del passato e la Chiesa finisce per essere  dipinta come una congrega di stupratori di bambini. La Santa Sede ha  fatto notare come il grave fenomeno non vada generalizzato, e sia  statisticamente poco rilevante se paragonato ai casi di abusi che  interessano altri ambiti - professionali, educativi, religiosi - in  primo luogo la famiglia, dove avviene la maggior parte delle violenze.
Mercoledì  scorso su L’Unità,  Filippo Di Giacomo ha ricordato che negli oltre ottanta casi di abusi  denunciati qualche anno fa nella diocesi di Boston, «solo quattro sono  stati riconosciuti colpevoli», mentre in Irlanda, le due commissioni che  hanno investigato sui circa 2800 casi denunciati, «ne hanno considerati  fondati solo il 10 per cento. Ciò vuol dire che il 90 per cento delle  accuse, benché fortemente mediatizzate, erano false».
Ma la difesa  basata sulle statistiche non appare convincente fino in fondo. Così come  finiscono per lasciare perplessi due atteggiamenti opposti, e  ugualmente presenti oggi nelle gerarchie: da una parte la «tolleranza  zero» ridotta a slogan, della quale ci si fa scudo per allontanare  immediatamente come un corpo estraneo il prete sospettato o colpevole di  questi abominevoli delitti. Ovviamente è sacrosanto che il pedofilo in  clergyman, violentatore dei bambini, sia allontanato dal ministero.
Ed  è giusto che se è stato commesso un reato, sia la magistratura a  intervenire. Però la fretta con cui oggi certi vescovi tendono a  esorcizzare il problema, quasi che quei loro sacerdoti fossero alieni  piovuti da Marte e infiltratisi tra il clero, è un po’ sospetta. Allo  stesso modo lascia perplessi l’atteggiamento opposto, quello che  trincerandosi dietro il rispetto delle norme canoniche, il diritto alla  difesa che non può essere mai negato, la presunzione d’innocenza e la  necessità di non creare scandalo, finisce per sopire, per non avvertire  il problema in tutta la sua drammaticità.
Ciò che sembra  mancare, in entrambi i casi, è uno sguardo autenticamente cristiano e  realista. 
Lo sguardo cristiano non può non partire dalla  coscienza del peccato originale, una ferita dalla quale i preti e anche i  vescovi, in quanto uomini, non sono immuni. Dunque l’abisso del  peccato, anche quello più abominevole - le parole più dure di Gesù nel  Vangelo sono proprio per chi scandalizza i piccoli: «Sarebbe meglio per  lui che gli fosse messa al collo una macina da mulino e fosse gettato  nel mare» - è qualcosa con cui fare i conti e per il quale chiedere  perdono.
Gli scandali, in ogni caso, evidenziano non soltanto  le mancanze del clero, ma anche quelle della gerarchia. Non è giusto  generalizzare, specie in momenti come questo, ma bisogna pur  riconoscelo. 
Ci sono vescovi che non hanno saputo  intervenire, guardare in faccia il problema, affrontarlo. Ci sono  vescovi che non hanno saputo impedire che il sacerdote accusato potesse  ancora nuocere e soprattutto non hanno saputo esprimere la necessaria  vicinanza alle vittime e il dovuto sostegno alle loro famiglie davastate  dopo un’esperienza del genere. Oggi si sbatte immediatamente sulle  prime pagine la foto del prete soltanto sospettato di essere un  molestatore di bambini, mentre fino a ieri, di fronte a molteplici e  concordanti accuse, ci si limitava a trasferirlo da una parrocchia  all’altra, dove il pedofilo poteva ricominciare, indisturbato, a  compiere abusi.
Una domanda seria sulla capacità di governo nella  Chiesa, nelle diocesi innanzitutto, è quella che più manca nella  riflessione di queste ore. Anche perché, ponendosela, bisognerebbe  riconoscere che la storia recente della Chiesa non è stata tutta rose e  fiori: andrebbero rivisti meccanismi e criteri che portano alla  designazione dei vescovi come pure ci si dovrebbe interrogare su come  questi esercitino la loro paternità nei confronti dei loro preti, i  quali talvolta rischiano di diventare soltanto anonime pedine nelle mani  della burocrazia ecclesiastica. E bisognerebbe interrogarsi pure  sull’adeguatezza della formazione offerta nei seminari, visti certi  risultati, che al di là dei casi patologici di cui si sta discutendo,  mostrano quanta instabilità affettiva vi sia nei sacerdoti.
La  Chiesa cattolica non può affrontare il problema degli abusi sui minori  come una qualsiasi categoria professionale, senza lo sguardo della fede.  Una fede che oggi è messa in crisi e appare indebolita.
C’è  attesa dunque per la lettera di Benedetto XVI ai fedeli d’Irlanda, che  verrà resa nota nelle prossime settimane: Papa Ratzinger, fautore da  molti anni della linea della fermezza disciplinare, saprà coniugare la  «tolleranza zero» con la responsabilità e con uno sguardo autenticamente  cristiano.
© Copyright Il Giornale, 14 marzo 2010