di Mattia Ferraresi
Addirittura una lettera di Gesù.
L’ultimo libro di Nicola Legrottaglie,
calciatore più in odore di santità
che di pallone d’oro, riporta una missiva
del vero uomo e vero Dio in cornice
pergamenata, con correttissimo
sfoggio di lettere maiuscole per ogni
pronome personale e possessivo.
“Tutti gli anni si fa una festa in Mio
onore… è gradevole sapere che, almeno
una volta all’anno, c’è qualcuno
che Mi pensa un po’”, e via di questo
passo. Il Gesù che si è preso la briga
di convocare Nicola Legrottaglie è l’ospite
non invitato di una festa tecnicamente
organizzata per lui (Lui), ma
di questo, dell’origine di tanta gioia
familiare, gli ospiti si sono scordati, lo
hanno sostituito con pacchetti, alberi,
buoni sentimenti e varie ristampe aggiornate
del vitello d’oro. Naturalmente
Gesù è amareggiato per la dimenticanza
dell’uomo; affranto come
quello che silenziosamente fissa il
Grande Inquisitore, ma decisamente
più loquace. Le ultime tre facciate di
“Cento volte tanto. Con la fede vivo
meglio” (Piemme) sono chiaramente
una provocazione dell’autore, un richiamo
al senso del tocco religioso
che, attraverso un percorso di ascesi,
ha trasformato il semplice atleta in
Atleta di Cristo, primo italiano nell’associazione
evangelica venuta dal
Brasile. La vicenda extracalcistica di
Legrottaglie è stata messa per iscritto
già l’anno scorso, con il libro “Ho fatto
una promessa”, storia di una conversione
illuminata, intimismo protestante
colmo di valori nell’ambiente
sordido del calcio, il disvalore assoluto.
La promessa a cui fa riferimento
è quella del Legrottaglie bambino,
scricciolo della provincia tarantina
con il calcio nel cuore. La sua era una
famiglia religiosa e una sera il piccolo
Nicola ha fatto un patto con Dio: se
divento professionista, dedicherò tutte
le mie energie per far avvicinare il
mondo a Gesù. Legrottaglie la sua
promessa l’ha mantenuta, non senza i
più ovvi incidenti di percorso, e l’ha
raccontata al mondo. Viste le centomila
copie superate con il primo libro,
si è pensato fosse cosa buona e
giusta replicare con un secondo, agile
volumetto autoagiografico che
avesse come intento principale quello
di glorificare Dio e come intento
collaterale di non scontentare Mammona,
la divinità delle royalties. Ma
superato il doppio fondo dello scetticismo,
fra le pagine del testo il lettore
è messo a parte di verità affatto interessanti.
Innanzitutto, il percorso. Il
primo libro narra la vicenda della
conversione, di come il cristianesimo
dell’infanzia pugliese di Nicola, inibito
da forti dosi di superficialità, sia
rinato grazie all’incontro con il collega
Tomas Guzman, il calciatore paraguaiano
che ha tratto il destino di Nicola
fuori dalle acque torbide della
dissipazione, dove tutto è vanità. Si
sono incontrati sulla piazza senese.
La fede rocciosa dell’uno ha trascinato
l’altro fuori dalla crisi, una flessione
tanto personale quanto calcistica:
prima della rinascita spirituale Legrottaglie
era un difensore a intermittenza.
Al Chievo della grande rivelazione
era accolto con palme e inni
di lode, tutti vedevano in lui il futuro
radioso del calcio italiano. Era la
stagione del Chievo dei miracoli,
grande favola calcistica iniziata all’oratorio
e finita in serie A. Due anni da
protagonista assoluto per un difensore
abituato a far valigie, da Bari a Pistoia,
passando per la Reggiana e da
lì, alla faccia del campanile, al Modena
di De Biasi, dove la curva lo chiamava
“il duca” per il passo elegante e
la mole statuaria. Innesti svevi su base
mediterranea. Quando viene comprato
dalla Juventus, il primo anno è
un disastro. I tifosi non lo possono
sopportare, l’allenatore non si fida,
lui si sente triste e vuoto, un Gresko
in versione bianconera. Un tipico caso
di antonomasia: Legrottaglie diventa
sinonimo di brocco, scarso, impresentabile,
inabile alla marcatura,
renitente alla diagonale, roba che in
tutti i campi dell’oratorio (quelli superstiti)
il nome del difensore pugliese
si aggira come il peggiore degli insulti.
Lo stesso giocatore nell’ultimo
libro ricorda gli insulti dei torinesi e
la rissa scatenata dagli amici fuori da
un locale per difenderlo. “Uscendo in
centro qui a Torino con la mia fidanzata
di allora, per una passeggiata, mi
sono trovato più volte a sentirmi ridere
dietro, sentirmi addirittura offendere
dalla gente. Montava in me, in
quei momenti, una rabbia senza pari.
Avrei voluto menare le mani. Cercavo
di trattenermi perché comunque ero
un personaggio pubblico e non potevo
darmi alla rissa”. Come ricordo, il
premio “bidone d’oro” assegnato dalla
trasmissione radiofonica Catersport.
Seguono due anni di limbo fra
Bologna e Siena: c’è da ricostruire
un’immagine, una credibilità calcistica
e l’equilibrio di una vita dissipata
e decisamente peccaminosa. Ma quello
che nel 2006 viene riportato a Torino,
con la Juventus in serie B, è un
Legrottaglie diverso, un circonfuso di
luce che cita la Bibbia a memoria, un
evangelista del fuorigioco, un uomo
trasformato che uscendo in barella
con un omero fuori dalla sede naturale
alza gli occhi al cielo e viene sorpreso
dalla Lettera ai Romani: “Tutto
coopera al bene di coloro che amano
l’Eterno”. Non c’è ormai più traccia
del giocatore con le meches che coltiva
come orizzonte di soddisfazione la
macchina, l’orologio, il letto ingombro,
le serate all’Hollywood. C’è un
uomo salvato, un calciatore con la
maglia numero 33 sulla schiena e
un’altra invisibile sotto, il cui motto
viene esibito in caso di gol: “Io appartengo
a Gesù”. Lo stesso che Kakà,
altro atleta di Cristo, sfoggiava con
frequenza leggermente più elevata ai
tempi del Milan. Niente segno della
croce in campo, però: da protestante,
Nicola protesta contro il rituale esteriore
e propende per l’intimità.
Quello che arriva a Torino con i segni
visibili della metanoia è però un
uomo ancora in lotta: “Era un momento
tragico per la mia carriera. Sto
giocando alla grande, sono tornato di
nuovo in forma, entro titolare all’interno
di una partita molto sentita come
quella contro il Napoli e la spalla
si rompe. Se non avessi avuto Dio dalla
mia parte, mi sarei davvero disperato.
Non avrei avuto nessuna ancora
a cui aggrapparmi, nessuna risposta.
Ecco allora che, guardando al cielo,
mi sono detto: ‘Questo succede perché
c’è qualcosa sotto: Dio ha in serbo per
me qualcosa di ancora più grande’”.
La conversione ha cambiato molte cose
nella vita di Legrottaglie e oggi, con
la sua seconda fatica letteraria, Nicola
risponde a tutte le domande, le
obiezioni, le fucilate di scetticismo
che sono arrivate a un anno di distanza
dalle rivelazioni scomode del primo
libro, quello della conversione.
“Che cosa c’è di nuovo rispetto allo
scorso anno? – si chiede Legrottaglie –
Sicuramente c’è più Nicola e meno
Legrottaglie”. Una fede che rianima
la persona e deprime il personaggio,
quell’animale affamato di vanità che
lui, Nicola, ha lasciato al guinzaglio
dei luoghi comuni.
L’argomento più discusso è naturalmente
– o perversamente – il sesso.
Legrottaglie ha accettato di esporsi al
giudizio mondano confessandosi un
astinente praticante, anche se, dice
con un tocco di realismo, lui e la fidanzata
“non hanno rinunciato a preliminari,
carezze e petting”. Basta
rapporti completi, dunque. La cosa
non poteva che scatenare il disdegno,
quando non l’ilarità, del mondo non
soltanto calcistico e per questo nel capitolo
“L’educazione e la cura del
tempio dello spirito”, Legrottaglie
torna per chiarire il punto, con risultati
a corrente alternata. “Prima di incontrare
Gesù, mi sono trovato più
volte accanto a una donna con la quale
ero andato a letto, e mi sentivo vuoto.
Il corpo era come un contenitore
senza sostanza. In un certo senso quasi
morto”. La legrottagliana rivalutazione
del corpo passa dunque per l’educazione
moderata dell’uso del
“tempio dello spirito” e scende nei
dettagli: “E allora un marito e una
moglie non devono avere rapporti?
Certo che devono averli. Soddisfare il
proprio coniuge nei limiti delle proprie
possibilità è quello che insegna
la Bibbia. Il sesso, lo ripeto, dentro al
matrimonio non è un’astrusità. E’ la
prassi”. Ma non è tutto: “Una domanda
che mi si fa – scrive Nicola – è: ‘ma
allora marito e moglie, ogni volta che
vanno a letto insieme, devono procreare,
secondo te?’ Risposta: ovviamente
no. L’uso del preservativo serve
esattamente a questo”. La conclusione
di Legrottaglie è apodittica e
convoca, come auctoritas, il faro inequivocabile
della Bibbia, che “non dice
qualcosa del genere ‘ora che siete
sposati, se fate sesso dovete avere un
figlio’”, così come “non sta scritto da
nessuna parte” che un cristiano non
possa prendere la pillola. E a un sommario
studio delle concordanze viene
fuori che Legrottaglie ha ragione:
scorrendo il Genesi, l’Esodo, il Levitico,
i Numeri, il Deuteronomio e anche
i profeti anteriori e posteriori, del
divieto della pillola non si trova traccia.
Per questo il calciatore può dare
un tocco indignato al suo argomentare:
“La disinformazione – conclude –
è una brutta bestia”. Altra è la questione
dell’aborto, sulla quale Nicola
è certo quanto sulla fase precedente.
“C’è una pillola, in particolare: si
chiama Ru486. Si prende in ospedale,
in Italia è stata legalizzata solamente
sotto ricovero, ma qui si sta parlando
di un mix di sostanze che dapprima
tolgono il nutrimento al concepito nel
grembo materno, poi inducono violente
contrazioni per far espellere il
corpo dall’utero della donna. Un
aborto insomma. Ecco, davanti a una
medicina così, che è un grave affronto
alla vita, un cristiano non può che
inorridire e dirsi contrario”.
In mezzo a un lungo prontuario di
aneddoti sulla carriera, sul gruppo di
preghiera a Beinasco, sull’associazione
evangelizzatrice “Missione Paradiso”
e sui molti incontri che Legrottaglie
ha fatto nell’ultimo anno, si trovano
rivelazioni non esattamente concilianti,
come quella sul presunto buonismo
di Cristo: “Gesù non ha mai
avuto un atteggiamento buonista, Gesù
era buono, certamente, ma di fronte
al peccato non si piegava di certo.
Alla prostituta non ha certo detto: ecco,
adesso vai e prosegui nel tuo peccato”.
Lo sforzo della bontà, dunque,
cade di fronte al male, incapace di
realizzare la fratellanza universale,
“questa forma di ecumenismo buonista
che mi lascia perplesso”. Ne segue
la Ratisbona di Legrottaglie: “La fratellanza
è universale nel senso che il
mio Dio mi spinge ad amare il prossimo,
ovviamente. E io lo faccio senza
pensarci due volte. Non ho problemi
con nessuno. Io rispetto tutti. Ma non
può esserci un’interazione spirituale:
se sul piatto ognuno mette la propria
verità, una verità diversa dall’altra,
che addirittura nega quella dell’altro,
non la riconosce… beh, la menzogna
del Diavolo è voler far credere che vi
possa essere una radice comune. Dialogo
umano, lo ripeto, certamente;
confronto civile, senz’altro. Non interazione
spirituale, però”.
La parabola personale di Nicola è
un inestricabile groviglio di coincidenze
non casuali in cui brilla la rivelazione
diretta, interiormente vociante,
il trapasso ascetico che lo ha letteralmente
trascinato sul carro degli illuminati.
Lo ha reso un calciatore che
un giorno farà il missionario – come
ama ripetere – ma anche un missionario
che oggi fa il calciatore, una lama
che riluce nel buio del secolo. Lo ha
migliorato come calciatore e trasfigurato
come uomo. Lui, con la fede semplicemente
“vive meglio”, e pazienza
se la sua personale teodicea non aspira
a rigori rosminiani. Dopo gli anni
bui, anche il rapporto con i tifosi si è
ricucito. In curva qualcuno l’ha soprannominato
“il prete”, nomignolo
troppo cattolico per essere un complimento,
ma tant’è. Ha insidiato il posto
a Fabio Cannavaro – personaggio che
gode di stima a macchia di leopardo
fra gli ultras – e questo gli è valso un
surplus di simpatia. C’è anche un coro
dedicato a lui, sulla musica del limbo,
ma, a dir la verità, la curva non lo intona
praticamente mai. Se lo facessero,
ne sarebbe contento; ma se anche
non succedesse, Legrottaglie ne sarebbe
ugualmente lieto, perché il suo
cuore è irrimediabilmente altrove.
© Copyright Il Foglio 23 marzo 2010