DI E NZO B IANCHI
I l padre accoglie la confessione sincera del figlio minore tornato a casa, una confessione solo ora divenuta sincera, non più interessata: «Ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono degno di essere chiamato figlio». Quella fuga, quella lontananza è stata rottura, rifiuto di un rapporto di vita con la paternità, una rottura di quel legame che nasce dell’accoglienza del dono della vita. Ma il padre non fa rimproveri, non recrimina sul passato, non pone al figlio alcuna condizione, non gli lascia pronunciare le parole che il figlio aveva preparato: «Trattami come uno dei tuoi salariati!». Queste parole di scambio non sono dette, non sono poste davanti al Padre. «Fammi ritornare ed io ritornerò », cioè «Convertimi ed io mi convertirò!». Queste parole del profeta Geremia sono ormai comprese nella verità assoluta dal figlio. Il padre con il suo amore preveniente ha attirato a sé il figlio, il cui ritorno era andare verso chi lo attirava e lo chiamava, proprio come Dio aveva fatto con l’uomo Adamo dopo il peccato: «Dove sei?
Adamo, dove sei? Figlio dove sei?».
Inizia allora la festa: un peccatore è ritornato, un morto è risuscitato.
La casa è sempre rimasta aperta, il figlio deve lasciarsi amare dal padre. Sì, è più importante capire che Dio ci ama che capire che noi dobbiamo amare Dio. Nella sua predicazione e nel suo agire, Gesù ha detto molto di più su Dio che ci ama che non sul nostro dovere di amare Dio. È significativo: può amare Dio colui che ha conosciuto che da Dio è stato amato prima e di amore preveniente. Capiamo le parole di Giovanni: «Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,18), eco di quelle di Gesù ai discepoli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi!» (Gv 15,16). Ecco allora la casa paterna diventare luogo del perdono e della festa: il vestito più bello è messo al figlio, l’anello è messo al suo dito, gli sono portate le calzature perché non sia più a piedi nudi come gli schiavi. Viene ucciso il vitello migliore e si fa festa. Il padre dice «presto»: è urgente la festa, la gioia, perché il peccato è cancellato, il padre non lo ricorda più e dunque tutto dev’essere riportato all’integrità. E i servi si affrettano a preparare la celebrazione della per tutta la famiglia.
La parabola poteva finire qui, sarebbe finita come gli altri due racconti analoghi della pecora e della dracma smarrite, ma qui l’evangelista apre un altro quadro. Appare il figlio maggiore, colui che era re- stato sempre a casa e aveva servito il padre per tanti anni. Di fronte al tornare in vita del fratello prova una reazione di gelosia: in nome della giustizia non può tollerare che quel suo fratello sia causa di festa. Com’è possibile? Se n’è andato, pretendendo l’eredità che poi ha dilapidato, non ha fatto mai avere sue notizie, mentre lui è restato a casa, ha obbedito al padre, ha lavorato, ha tirato avanti per anni con fatica. E ora si fa festa per uno che non lo riconosceva neppure come fratello e che, andandosene, aveva di fatto negato i legami familiari?
No, questa festa non gli appartiene. Lì non vuole saperne di entrare. Ed ecco di nuovo il padre che esce – non lo fa chiamare, ma esce incontro a lui – esce un’altra volta di casa per incontrare un figlio e lo prega insistentemente. Ma il figlio restato a casa recrimina. Vanta una fedeltà – «da tanti anni ti servo» –, mette davanti al padre la sua giustizia: «Non ho mai trasgredito un tuo comando». Ha vissuto fino allora come un mercenario puntuale, si è impegnato verso il padre come un salariato, ed è il padre che manca verso di lui: non gli ha mai dato un capretto per lui e i suoi amici e ora dà il vitello grasso per il fratello indegno di quel nome! C’è risentimento, c’è protesta, c’è un’accusa precisa verso il padre in questo rifiuto.
La spiegazione di questo atteggiamento è sulla bocca di Gesù nel vangelo di Giovanni: «Chi è schiavo non resta sempre nella casa (paterna) solo chi è figlio vi rimane sempre!» (Gv 8,35), cioè chi si sente schiavo sta a casa come un mercenario, non come un figlio, sta a casa ma si sente in prigione, fa le cose perché si sente costretto, senza la libertà propria di chi è figlio, senza amore.
Sì, questo figlio in realtà non era mai stato nella casa del padre: il suo dimorare accanto al padre non lo aveva portato a conoscerne il cuore. Era stato schiavo in una prigione. Il suo comportamento non è fondamentalmente diverso da quello di chi se ne era andato! Tutti e due i figli non vivevano nella relazione paterna, non conoscevano l’amore del padre. E il padre allora dice: «Figlio, figlio amato, quello che è mio è tuo!». Téknon, mio caro figlio, mio caro ragazzo, «ciò che è mio, è tuo», tra noi c’è comunione, tu sei sempre con me, tra noi c’è vita comune, compagnia. Avrebbe potuto dirgli: «Tu dici di non aver mai trasgredito uno dei miei comandi, ma ora che ti invitano a entrare tu ti fai disobbediente ». E invece, anche questa volta, non rimprovera ma prega, chiede soprattutto di accogliere la resurrezione di suo fratello. «Tuo fratello è risorto! Occorre far festa!
». Qui termina il racconto di Gesù, ma sulla conclusione della vicenda restano aperti interrogativi fondamentali per noi che leggiamo la parabola. È entrato il fratello a fare festa? E il padre, è entrato lasciando il figlio maggiore fuori, oppure è ancora là che lo prega affinché la festa sia completa? Questa parabola ci aiuta davvero a chiederci: tu che chiami Dio Padre, quale immagine di Dio hai? L’immagine di un padre padrone? Di un padre giusto, dotato di giustizia retributiva? O di un padre che ama senza porre condizioni? Un padre che perdona sempre? Gesù così ci interpella! A ciascuno di noi la risposta nel nostro cuore: una risposta che possiamo dare solo nel pentimento, tornando a Dio, nel segreto del cuore. In attesa di vedere Dio faccia a faccia, come esclamava sant’Ignazio di Antiochia avvicinandosi al martirio: «Una voce mi dice come acqua zampillante: Vieni al Padre!».
Questo figlio in realtà non era mai stato nella casa del genitore, perché non vedeva il suo cuore: proprio come quello che se n’era andato, non ne conosceva l’amore