DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Il «Gendercide» di casa nostra

Complice anche la (contro­versa) festa
dell’8 marzo,
grande risalto ha avuto sulla stampa italiana la copertina dell’Economist della scorsa settimana che, su sfondo tetramente nero e dinanzi a un paio di scarpine rosa da neonata, ha gridato « Gendercide » (genocidio di genere), domandandosi, nel sottotitolo, cosa sia successo alle 100 milioni di bambine che mancano all’appello nel mondo.
L
a denuncia del settimanale inglese è stata dura, ricordando anche aspetti meno noti dell’attuale guerra mondiale contro le bambine, per nulla confinata alle frontiere della terribile Cina. L’intersezione funesta tra tecnologia, declino nei tassi di fertilità e antichi pregiudizi (più o meno marcati e consapevoli) verso il sesso femminile sta infatti portando a gravi e sostanziali squilibri a più livelli. Il trend è minacciosamente globale, come puntualizza l’ Economist.
Eppure, al di sotto della legittima e sacrosanta denuncia della penna londinese (e di tutte le altre voci che da tempo vanno condannando le moderne stragi di bambine ante e post nascita), v’è forse una parte di non detto.

L’


Economist
apre la sua denuncia virgolettando inquietanti commenti dinanzi alla nascita di una neonata in Cina. « Useless thing! » (è una cosa inutile).
«
It’s not a child » (non è un bambino), « It’s a girl baby, and we can’t keep it » (è una bambina, non possiamo tenerla).
Leggendo, viene da chiedersi se vi sarebbe stato uguale scandalo in Occidente davanti alla definizione di «cosa inutile», di «non­bambino non tenibile», laddove quella neonata fosse stata malformata. O se quella

La stampa italiana è inorridita davanti alla coraggiosa inchiesta dell’«Economist» sul «genocidio di genere». Ma selezionare i nascituri con criteri di 'perfezione' non è forse una pratica del tutto simile?

gravidanza fosse giunta in un momento inopportuno nella vita della madre, o della coppia.

C
erto, sicuramente nessuno avrebbe ucciso la neonata a parto avvenuto (l’infanticidio parrebbe ancora penalmente sanzionato in tanti Paesi, a prescindere dalla 'qualità' del nato), ma quel commento sulla sua inutilità, sul suo non-poterla-tenere, sarebbe stato civilmente anticipato al tempo della gravidanza. E il
feto sarebbe stato, altrettanto civilmente, abortito.

O
rientare le gravidanze alla nascita o all’aborto è profondamente immorale, è inaccettabile, razzista e discriminatorio se si è mossi in ragione del sesso del nascituro (è da tempo che lo andiamo denunciando a gran voce). Ma orientare le gravidanze alla loro interruzione piuttosto che alla loro naturale prosecuzione in base a scelte altre, a scelte che esulano completamente dal fatto che il concepito sia un maschio o una femmina, è davvero una decisione così eticamente e qualitativamente diversa? Ammantata di legalismo e immersa nel politicamente corretto, non v’è forse, sotto, la medesima
ratio ? Quella, cioè, che getta nella discarica ciò che è ritenuto non necessario, non servibile, fastidiosamente inutile.

G
endercide
si intitolava il celebre libro di Mary Anne Warren, che denunciava le implicazioni della selezione in base al sesso. In esso la scrittrice e filosofa americana pro-life declinava per la prima volta il termine 'genocidio' ( genocide ) in chiave anti-femminile. Era il 1985. Forse, venticinque anni dopo, potremmo aggiungere una nuova variante linguistico­concettuale ai nostri vocabolari. Il nuovo termine potrebbe essere uselesscide : il tentativo generalizzato di gettar via ed eliminare tutto ciò che riteniamo useless.
Inutile.


© Copyright Avvenire 11 marzo 2010