Narcos e massacri nella città messicana al confine con gli Stati Uniti
Il sindaco: “Oltre il ponte comanda Obama, questa è terra di nessuno”
Il sindaco: “Oltre il ponte comanda Obama, questa è terra di nessuno”
MIMMO CANDITO
CIUDAD JUAREZ
Son quasi due milioni di abitanti sotto il sole di fuoco e il vento che ti taglia la faccia a stilettate crude, ma il posto più affollato di questa città di confine tra Messico e Stati Uniti eccolo qui, in uno scatolone bianco di cemento e di vetri verdi: si chiama Laboratório de Ciencias Forenses, vi si entra muti e con i piedi in avanti.
Lo chiamano Laboratorio, ma è soltanto l’obitorio, il deposito dei morti ammazzati. Qui ce ne stanno impilati fino a 300, di cadaveri tenuti al gelo, dentro la puzza greve della formalina che ti chiude la gola. Ho dovuto vedere l’obitorio di Beirut, e quello di Baghdad, e quello di Kabul, e di Mogadiscio, e di San Salvador, di Teheran, fetidi rifugi angosciosi di guerre senza fine, sotto cannonate che facevano ballare i muri; qui però le cannonate non si sentono, il vento che monta dal deserto addossato alle case è anche lui muto, ma Ciudad Juárez è una città in guerra anche senza i muri che ballano.
«Fino all’anno scorso avevamo quindici morti al giorno, in media», mi dice il sindaco. «Qualche volta trenta, altre volte dieci». Non pare nemmeno rammaricato, dà i suoi numeri con la quieta pazienza di una statistica ragionieristica. Però poi s’illumina: «Ah, ma a gennaio e febbraio siamo scesi a cinque morti al giorno». E mi guarda soddisfatto, «Spero che alla fine il conto di marzo confermi, più o meno, questa riduzione». Ma intanto, ieri ne hanno ammazzati altri sette, uno era un agente della Policía Federal, e il Laboratorio è ora circondato, quasi, dai suoi compagni, un centinaio nelle loro uniformi nere, le camionette schierate, alcuni con la faccia coperta dal passamontagna e il mitra al braccio sotto il sole di fuoco. Sotto il sole qui si muore ammazzati.
La guerra di Ciudad Juárez è la guerra delle narcomafie, da qui passano tonnellate di marijuana e di cocaina, senza nemmeno troppi misteri. La droga porta nei suoi sacchi miliardi di dollari, ma nel fondo si trascina anche fiumi di sangue. I morti ammazzati di Ciudad Juárez furono 1800 due anni fa, 2600 lo scorso anno, quest’anno - e siamo nemmeno al terzo mese - sono già 600, senza contare questi sette disgraziati di ieri. Ogni tanto poi la mattanza si concentra su obiettivi precisi, come ricorda la fila di croci rosa al confine con El Paso, a memoria di centinaia e centinaia di donne uccise, spesso dopo essere state seviziate e violentate. Le organizzazioni internazionali hanno più volte gridato al «femminicidio», ma la mattanza non si è fermata, portata avanti con lucida freddezza da persone conosciute o sconosciute, violenti, violentatori, assassini individuali o di gruppo, occasionali o professionisti.
La quotidianità a Ciudad Juárez è difficile: se esci di casa è certo che ti va bene e che ci tornerai, ma può anche accadere che qualcuno - per la tua faccia che, a lui non piace proprio, o per quello che sei, o perché ti hanno confuso con un altro, o perché ti sei trovato dove qualche pallottola se ne andava perduta nell’aria, o comunque perché anche tu sei un delinquente e ammazzi facile - può essere che quel tizio lì con la sua pistola o il suo kalashnikov ti faccia entrare nel Laboratório con i piedi in avanti; le probabilità te le giochi con la sorte.
E quando cala il buio, è meglio starsene a casa. Il coprifuoco - quello delle guerre con le cannonate - qui non c’è; però, è come se ci fosse. E l’ultimo spettacolo del teatro Matrix, la multisala che durante il giorno è affollata di ragazzi con i capelli di gel, quello spettacolo delle 11 di notte e di una sola sala è un’eccezione strana, fatta solo per chi ama giocare duro. «Sono pochi» - mi dice la maschera, con il cravattino e il gilet - «tutte le altre proiezioni finiscono il turno delle 9, e neanche quello ha molti spettatori».
La rotta del narcotraffico un tempo passava per il Caribe; le avionetas cariche di sacchi di juta e di plastica partivano da una delle tante piste di terra perdute nella giungla verde e gialla della Colombia e, superato il mare, finivano per atterrare da qualche comoda parte nella Florida; Miami a quel tempo era una città di violenza che neanche al cinema, morti ammazzati e droga che si sniffava come il caffè cubano preso a colazione. Ci fecero su anche la serie «Miami Vice», con i colori brillanti del cielo blu e le palme sullo sfondo. Poi Washington decise che non si poteva continuare, e mandò nella giungla verde e gialla della Colombia i suoi rangers, gli elicotteri all’infrarosso, i commandos che possono ammazzare senza nemmeno chiedere chi sei. E la rotta si chiuse. E si trasferì quaggiù, dove il Messico combacia con il Texas e a dividere i due paesi c’è soltanto un fiume grigio chiaro, che gli americani chiamano Rio Grande e i messicani, invece, Rio Bravo. (E hanno ragione i messicani, naturalmente.)
Il sindaco di Ciudad Juárez si chiama José Reyes Ferríz, è un ometto basso e gentile, con gli occhiali senza montatura, e la camicia e la cravatta come fanno gli americani, che in ufficio non indossano la giacca. È bianco di pelle, potrebbe essere un americano anche lui; le città di frontiera combinano meticciati dove l’identità è una variabile fuori controllo. Si alza dalla poltrona di pelle scura e mi chiama al grande finestrone che dà luce al suo ufficio; con la mano mi invita a guardar fuori. A cento metri c'è un gran ponte che si inarca sul fiume; da questa parte stanno le case piccole e basse del Messico, dall’altra, i grattacieli alti e forti dell’America yankee. «Siamo come un unico territorio, noi Ciudad Juárez, e quello che vediamo accanto e che quasi tocchiamo con la mano è invece El Paso, che ha un nome spagnolo e però parla inglese e lo comanda Obama».
Di là dal ponte, davvero con la mano che quasi lo tocchi, sventola un gigantesco bandierone a strisce e stelle che il vento scuote alto nel cielo.
È questa combinazione di una terra che è la stessa identica e che però un fiume ha diviso in due, con due identità e due storie e due passaporti, è questa combinazione che ha fatto la guerra senza cannoni di Ciudad Juárez. «Vede, qua sotto la mia finestra passano due linee ferroviarie, eccole lì, una porta a Chicago e l’altra a Los Angeles, e poi c’è la Panamericana, che spalanca la porta degli Stati Uniti da ogni Sud che stia da questa parte del Rio Bravo. Non v’è nessun’altra città che dia tante opportunità di comunicazione e di trasporto». Lo dice con la consapevolezza di chi amministra un territorio che potrebbe essere il paradiso e invece è inferno puro. A lui, un giorno fecero trovare davanti al portone del municipio un grosso cane morto, sventrato, che aveva un cartello legato al collo: «Sindaco, o te ne vai entro quindici giorni o ti ammazziamo, prima la tua famiglia e poi tu». I quindici giorni sono passati, e anche le quindici settimane. Lui, José Reyes Ferríz, sorride quieto sulla sua grande poltrona di pelle scura e quel bandierone a stelle e strisce dentro l’orizzonte della finestra: «Ho imparato che queste cose fanno parte del lavoro. L’ho imparato, e non ci penso troppo». Ma della sua famiglia non vuole parlare, e nemmeno di se stesso. Però si sa che, quando chiude a chiave la porta del suo ufficio, poi anche lui prende la macchina, attraversa il ponte, e se ne va a dormire a El Paso, che è Stati Uniti d’America e parla inglese anche se ha un nome spagnolo. A vigilare l’ufficio resta soltanto quella vecchia guardia con l’abito marrone chiaro e un grande distintivo della polizia appeso al collo.
Su quel ponte del sindaco (però Ciudad Juárez ne ha addirittura tre, e puoi scegliere quello che vuoi) passa un fiume ininterrotto di auto ma anche di camion, con i loro carichi che ogni tanto controlli e ogni tanto lasci passare. C’è la polizia federale, al ponte, e ora anche i soldati: qualche carico l’hanno trovato, hanno avuto fortuna o soffiate utili; però «il mare è grande», dicono quelli della droga, e si capisce che cosa intendano dire. Coca e marijuana passano sotto gli occhi dei soldati, e se ne vanno negli Usa; valgono venti miliardi di dollari; per prenderne il controllo merita bene di farci una guerra senza cannonate.
Son quasi due milioni di abitanti sotto il sole di fuoco e il vento che ti taglia la faccia a stilettate crude, ma il posto più affollato di questa città di confine tra Messico e Stati Uniti eccolo qui, in uno scatolone bianco di cemento e di vetri verdi: si chiama Laboratório de Ciencias Forenses, vi si entra muti e con i piedi in avanti.
Lo chiamano Laboratorio, ma è soltanto l’obitorio, il deposito dei morti ammazzati. Qui ce ne stanno impilati fino a 300, di cadaveri tenuti al gelo, dentro la puzza greve della formalina che ti chiude la gola. Ho dovuto vedere l’obitorio di Beirut, e quello di Baghdad, e quello di Kabul, e di Mogadiscio, e di San Salvador, di Teheran, fetidi rifugi angosciosi di guerre senza fine, sotto cannonate che facevano ballare i muri; qui però le cannonate non si sentono, il vento che monta dal deserto addossato alle case è anche lui muto, ma Ciudad Juárez è una città in guerra anche senza i muri che ballano.
«Fino all’anno scorso avevamo quindici morti al giorno, in media», mi dice il sindaco. «Qualche volta trenta, altre volte dieci». Non pare nemmeno rammaricato, dà i suoi numeri con la quieta pazienza di una statistica ragionieristica. Però poi s’illumina: «Ah, ma a gennaio e febbraio siamo scesi a cinque morti al giorno». E mi guarda soddisfatto, «Spero che alla fine il conto di marzo confermi, più o meno, questa riduzione». Ma intanto, ieri ne hanno ammazzati altri sette, uno era un agente della Policía Federal, e il Laboratorio è ora circondato, quasi, dai suoi compagni, un centinaio nelle loro uniformi nere, le camionette schierate, alcuni con la faccia coperta dal passamontagna e il mitra al braccio sotto il sole di fuoco. Sotto il sole qui si muore ammazzati.
La guerra di Ciudad Juárez è la guerra delle narcomafie, da qui passano tonnellate di marijuana e di cocaina, senza nemmeno troppi misteri. La droga porta nei suoi sacchi miliardi di dollari, ma nel fondo si trascina anche fiumi di sangue. I morti ammazzati di Ciudad Juárez furono 1800 due anni fa, 2600 lo scorso anno, quest’anno - e siamo nemmeno al terzo mese - sono già 600, senza contare questi sette disgraziati di ieri. Ogni tanto poi la mattanza si concentra su obiettivi precisi, come ricorda la fila di croci rosa al confine con El Paso, a memoria di centinaia e centinaia di donne uccise, spesso dopo essere state seviziate e violentate. Le organizzazioni internazionali hanno più volte gridato al «femminicidio», ma la mattanza non si è fermata, portata avanti con lucida freddezza da persone conosciute o sconosciute, violenti, violentatori, assassini individuali o di gruppo, occasionali o professionisti.
La quotidianità a Ciudad Juárez è difficile: se esci di casa è certo che ti va bene e che ci tornerai, ma può anche accadere che qualcuno - per la tua faccia che, a lui non piace proprio, o per quello che sei, o perché ti hanno confuso con un altro, o perché ti sei trovato dove qualche pallottola se ne andava perduta nell’aria, o comunque perché anche tu sei un delinquente e ammazzi facile - può essere che quel tizio lì con la sua pistola o il suo kalashnikov ti faccia entrare nel Laboratório con i piedi in avanti; le probabilità te le giochi con la sorte.
E quando cala il buio, è meglio starsene a casa. Il coprifuoco - quello delle guerre con le cannonate - qui non c’è; però, è come se ci fosse. E l’ultimo spettacolo del teatro Matrix, la multisala che durante il giorno è affollata di ragazzi con i capelli di gel, quello spettacolo delle 11 di notte e di una sola sala è un’eccezione strana, fatta solo per chi ama giocare duro. «Sono pochi» - mi dice la maschera, con il cravattino e il gilet - «tutte le altre proiezioni finiscono il turno delle 9, e neanche quello ha molti spettatori».
La rotta del narcotraffico un tempo passava per il Caribe; le avionetas cariche di sacchi di juta e di plastica partivano da una delle tante piste di terra perdute nella giungla verde e gialla della Colombia e, superato il mare, finivano per atterrare da qualche comoda parte nella Florida; Miami a quel tempo era una città di violenza che neanche al cinema, morti ammazzati e droga che si sniffava come il caffè cubano preso a colazione. Ci fecero su anche la serie «Miami Vice», con i colori brillanti del cielo blu e le palme sullo sfondo. Poi Washington decise che non si poteva continuare, e mandò nella giungla verde e gialla della Colombia i suoi rangers, gli elicotteri all’infrarosso, i commandos che possono ammazzare senza nemmeno chiedere chi sei. E la rotta si chiuse. E si trasferì quaggiù, dove il Messico combacia con il Texas e a dividere i due paesi c’è soltanto un fiume grigio chiaro, che gli americani chiamano Rio Grande e i messicani, invece, Rio Bravo. (E hanno ragione i messicani, naturalmente.)
Il sindaco di Ciudad Juárez si chiama José Reyes Ferríz, è un ometto basso e gentile, con gli occhiali senza montatura, e la camicia e la cravatta come fanno gli americani, che in ufficio non indossano la giacca. È bianco di pelle, potrebbe essere un americano anche lui; le città di frontiera combinano meticciati dove l’identità è una variabile fuori controllo. Si alza dalla poltrona di pelle scura e mi chiama al grande finestrone che dà luce al suo ufficio; con la mano mi invita a guardar fuori. A cento metri c'è un gran ponte che si inarca sul fiume; da questa parte stanno le case piccole e basse del Messico, dall’altra, i grattacieli alti e forti dell’America yankee. «Siamo come un unico territorio, noi Ciudad Juárez, e quello che vediamo accanto e che quasi tocchiamo con la mano è invece El Paso, che ha un nome spagnolo e però parla inglese e lo comanda Obama».
Di là dal ponte, davvero con la mano che quasi lo tocchi, sventola un gigantesco bandierone a strisce e stelle che il vento scuote alto nel cielo.
È questa combinazione di una terra che è la stessa identica e che però un fiume ha diviso in due, con due identità e due storie e due passaporti, è questa combinazione che ha fatto la guerra senza cannoni di Ciudad Juárez. «Vede, qua sotto la mia finestra passano due linee ferroviarie, eccole lì, una porta a Chicago e l’altra a Los Angeles, e poi c’è la Panamericana, che spalanca la porta degli Stati Uniti da ogni Sud che stia da questa parte del Rio Bravo. Non v’è nessun’altra città che dia tante opportunità di comunicazione e di trasporto». Lo dice con la consapevolezza di chi amministra un territorio che potrebbe essere il paradiso e invece è inferno puro. A lui, un giorno fecero trovare davanti al portone del municipio un grosso cane morto, sventrato, che aveva un cartello legato al collo: «Sindaco, o te ne vai entro quindici giorni o ti ammazziamo, prima la tua famiglia e poi tu». I quindici giorni sono passati, e anche le quindici settimane. Lui, José Reyes Ferríz, sorride quieto sulla sua grande poltrona di pelle scura e quel bandierone a stelle e strisce dentro l’orizzonte della finestra: «Ho imparato che queste cose fanno parte del lavoro. L’ho imparato, e non ci penso troppo». Ma della sua famiglia non vuole parlare, e nemmeno di se stesso. Però si sa che, quando chiude a chiave la porta del suo ufficio, poi anche lui prende la macchina, attraversa il ponte, e se ne va a dormire a El Paso, che è Stati Uniti d’America e parla inglese anche se ha un nome spagnolo. A vigilare l’ufficio resta soltanto quella vecchia guardia con l’abito marrone chiaro e un grande distintivo della polizia appeso al collo.
Su quel ponte del sindaco (però Ciudad Juárez ne ha addirittura tre, e puoi scegliere quello che vuoi) passa un fiume ininterrotto di auto ma anche di camion, con i loro carichi che ogni tanto controlli e ogni tanto lasci passare. C’è la polizia federale, al ponte, e ora anche i soldati: qualche carico l’hanno trovato, hanno avuto fortuna o soffiate utili; però «il mare è grande», dicono quelli della droga, e si capisce che cosa intendano dire. Coca e marijuana passano sotto gli occhi dei soldati, e se ne vanno negli Usa; valgono venti miliardi di dollari; per prenderne il controllo merita bene di farci una guerra senza cannonate.
© Copyright La Stampa 28 marzo 2010