DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Quel peso lungo vent’anni troppo grande da portare

MARINA CORRADI
P
otrebbe sembrare, se non fosse tragicamente vero, un giallo, di quelli del commissario Montalbano, il suicidio del portinaio del delitto di via Poma, alla vigilia di una nuova udienza in Assise. Tre giorni prima del confronto, ancora, con la storia che lo inseguiva da una vita, esattamente dal lontano 7 agosto 1990. Quando Pietrino Vanacore fu arrestato e scagionato e prosciolto dall’omicidio della giovane Simonetta Cesaroni.
Poi, la rete ampia dei sospetti, le indagini, la giustizia che si arena. Gli interrogatori, e giornali e tv alle calcagna di quell’inconsueto, feroce omicidio borghese. Molti anni dopo, una traccia di Dna sui vestiti della vittima indirizza i sospetti sul fidanzato. Si riapre il processo – come in una puntata di 'Cold case', i protagonisti hanno i capelli grigi. E fra tre giorni, ma ora semplicemente come testimone, era atteso in aula l’ex portinaio Vanacore – ancora una volta. Ancora una volta davanti ai giudici. Ancora una volta a ricordare quella sera d’estate, quella bella ragazza massacrata con 29 coltellate in un ufficio vuoto. Come una raffica assordante devono essere certi ricordi: la polizia, i flash dei fotografi, le domande. Centinaia di domande: insistenti, ripetute. Il carcere. 28 giorni, pochi ma tantissimi per uno che si proclama innocente.
Prosciolto definitivamente, Vanacore aveva lasciato Roma ed era tornato a casa, a Monacizzo, un paesino affacciato sul golfo di Taranto. Una frazione di poche case, dove vivere finalmente. In pace. Lontano dai ricordi, lontano da via Poma. Forse perché, anche se la legge ti proscioglie, le voci della gente non ti prosciolgono mai del tutto? Quando non c’è un colpevole, l’ombra rimane addosso a chi era là, quella sera, a chi dalla morte è stato
sfiorato. Come se quella morte non finisse mai. O forse perché quell’uomo, non colpevole, aveva però taciuto qualcosa? Due anni fa, riaprendo l’inchiesta, i giudici ordinano una perquisizione nella nuova casa di Vanacore. Non trovano niente, se ne vanno a mani vuote.
Ma l’ombra è arrivata anche lì, nell’eremo sul mare, così lontano da Roma. E adesso, bisognava tornare in tribunale: ancora giudici, avvocati, domande. L’ombra di nuovo addosso, incalzante. Gli sguardi da affrontare, muti ma dubbiosi: davvero tu non c’entri, davvero tu non sai? Ha lasciato nell’auto non uno, ma tre biglietti: «20 anni di martirio senza colpa e di sofferenza portano al suicidio».
Come volendo gridare un’ultima volta che non c’entrava, lui, con quel sangue. E questo la giustizia lo sapeva, lo aveva riconosciuto. Ma l’uomo con i capelli ormai bianchi, silenzioso, «triste» nel ricordo degli amici, sembrava essersi interiormente autocondannato, pure innocente, a ricordare e a tacere: giacché di via Poma non parlava mai. Censurava qualcosa, o semplicemente non sopportava più l’assedio delle domande, e i dubbi nelle facce degli estranei? E quale pace veramente cercava, nelle lunghe solitarie passeggiate sulla riva del mare descritte dai compaesani? No, non è un giallo di Montalbano, di quelli che guardiamo in tv, come stranamente avvinti da ciò che è oscuro. Qui è tutto vero: il delitto, il sangue, un colpevole ignoto. E l’ombra di un male che, non individuato, resta sospeso, e pende e incombe sulle vite degli uomini. Come chiedendo finalmente luce, e quindi fine, e pace. Troppi, vent’anni con quell’ombra addosso. Con i giornalisti, di nuovo, e i microfoni spinti alla bocca, a domandare.
Voraci e inconsapevoli: come vogliosi di vane parole, attorno alla mole opaca del male.


© Copyright Avvenire 10 marzo 2010