DISCERNERE

Uno sguardo profetico sugli eventi

Senza terra Saharawi profughi da 35 anni dietro muri e mine nel deserto

DAL SAHARA OCCIDENTALE
ANNA POZZI

L
ungo quello che chiamano il 'muro della vergogna' c’è ap­parentemente solo il nulla di un deserto che si perde a vista d’oc­chio. Sabbia e sassi. E poi quella fe­rita, incisa quattro, cinque, sei vol­te nella piana che sfuma all’oriz­zonte o sul crinale di rilievi levigati dal vento.
Ma il nulla del deserto è sempre in­gannevole.
Così co­me questi muri, che corrono paralleli per circa 2.700 chi­lometri, l’uno ac­canto all’altro, alti poche spanne, ep­pure invalicabili. Li hanno ' rafforzati' con cinque milioni di mine e sono sor­vegliati da oltre 160mila militari. Marocchini da una parte, saharawi dall’altra. I primi sono quelli che l’hanno costruito e vi hanno schie­rato gran parte del proprio esercito. I secondi sono coloro che hanno dovuto fuggire dalla loro terra, il Sahara Occidentale, e che ora vivo­no in gran parte ammassati nei campi profughi del sud dell’Algeria. Anche qui il nulla: mancanza d’ac­qua, cibo, strutture sanitarie. Di­pendenza totale dagli aiuti umani­tari, da oltre 34 anni. Per una popo­lazione di circa 200mila persone.
Lo scorso 27 febbraio i saharawi hanno celebrato l’anniversario del­la fondazione della Repubblica a­raba saharawi democratica. A mo­do loro. Ovvero da Stato in esilio e da popolo senza terra.
A di là della retorica, che nasconde solo in parte la fierezza di un popo­lo che crede davvero in una causa di giustizia e libertà, ci sono i dram­mi della persone. Del passato e del presente. Come Nuena, donna for­te e coraggiosa, militante sin dalla prima ora e, come molte donne, im­pegnata in ruoli di primo piano nel­le istituzioni saharawi. Ha perso due mariti in guerra; il terzo è stato fe­rito. Ricorda la fuga, nel 1976, sot­to le bombe marocchine: « Siamo arrivati qui senza niente. Abbiamo strappato i veli per coprire i nostri figli. Poi abbiamo accettato la sfida, specialmente noi donne, in tutte le strutture della nuova Repubblica, per dare un futuro ai nostri ragazzi e trasmettere loro l’orgoglio di ap­partenere a questo popolo».
Un’altra donna, mutilata da una mi­na, racconta la sua fuga nella co­siddetta zona 'liberata', una stri­scia di deserto tra Marocco e Mau­ritania. Vive da molti anni nella Scuola per vittime di guerra, insie­me ad altre 152 persone, tutte con
i segni indelebili di quel conflitto che dal 1976 al 1991 ha segnato per sempre un intero popolo. Ahmed Makathari, nella stanza accanto, è paralizzato dal 1980. Una scheggia si è conficcata nella sua colonna vertebrale. Lo spirito, però, resta battagliero: «Non chiediamo cose impossibili, ma normali e giuste. Stiamo aspettando da quasi 35 an­ni una soluzione trasparente ed e­qua. Ma c’è un limite anche alla pa­zienza. Ormai siamo esasperati. Ma speriamo che la co­munità internazio­nale faccia tutte le pressioni necessa­rie per arrivare a u­na soluzione. Il si­lenzio di molti ci fa male. Assomiglia molto a una com­plicità ». Bouamoud è un ra­gazzo magro ed emaciato. È ospite dell’associazione delle famiglie dei presunti spariti saharawi, che si oc­cupa ancora oggi di almeno 500 ca­si di persone di cui non si hanno più notizie. Bouamoud ha rischia­to di fare la stessa fine. Viene dai ter­ritori occupati e racconta una sto­ria agghiacciante. Quella di una re­tata della polizia marocchina, del­lo stupro, davanti ai suoi occhi, del­la madre della sorella, delle torture e – lo dice con gli occhi bassi che si riempiono di lacrime – della vio­lenza sessuale che lui stesso ha su­bito con un bastone. È riuscito a ve­nire in Algeria per farsi curare. A­spetta di stare un po’ meglio per tor­nare nel Sahara Occidentale, anche se rischia di finire ancora in prigio­ne. «Devo tornare – dice –, sono il figlio maggiore e ho responsabilità nei confronti della mia famiglia, ma temo per quello che po­trebbe capitarmi di nuovo».
Bouamoud è giova­ne e si sente che ha un fuoco dentro. Bachari Saleh, inve­ce,
è anziano e zoppicante, ma an­che lui parla con spirito indomito: « Non amiamo la guerra – dice –, non siamo terroristi, ma siamo stanchi e stiamo perdendo la fidu­cia nella comunità internazionale». Bachari Saleh si dedica da diversi anni all’attività diplomatica, come 'ambasciatore' in Messico, Siria e ora in Guinea Bissau. Prima, però, e per ben sedici anni, è stato un combattente. Oggi non partecipa più ad azioni di guerriglia, come ne­gli anni Settanta, ma prova a con­vincere il mondo che una soluzio­ne pacifica è possibile e che i saha­rawi sono pronti a fare tutti i passi necessari. Sempre che qualcuno li stia ad ascoltare.
Ma in fondo a questo deserto aspro e ostile l’impressione è che la loro voce si perda nel grande vuoto sahariano e faccia fatica ad arriva­re ai centri di potere di un mondo concentrato su altre crisi. Eppure, anche nella vicenda dei saharawi l’economia c’entra, eccome. Così come le alleanze e gli interessi re­gionali e internazionali.
Omar Mih, rappresentante della Rasd in Italia, tornato nei campi in occasione della Sahara Marathon, dello scorso 22 febbraio, prova a spiegare: «Fosfati e pesce: queste, in sintesi, le principali ragioni eco­nomiche dell’occupazione maroc­china. Il Sahara Occidentale è una delle regioni più ricche di fosfati al mondo. E il nostro mare è tra i più pescosi. Ma l’Europa non si è fatta scrupoli a sottoscrivere accordi di pesca con il Marocco. Solo la Sve­zia ha tentato di opporsi».
Grazie alle miniere di Bu Craa, il Marocco è il terzo produttore mon­diale di fosfati. Quanto alla pesca, lo scorso 14 febbraio, 26 organizza­zioni non governative saharawi hanno chiesto al commissario Ue Joe Borg, incaricato degli Affari ma­rittimi, di porre fine alle attività di pesca illegale di imbarcazioni eu­ropee nelle acque antistanti il Saha­ra Occidentale e di escludere ogni accordo con il Marocco, al fine di e­vitare «uno sfruttamento delle ri­sorse in violazione del diritto inter­nazionale
». «Anche da un punto di vista geo­politico – continua Omar Mih – do­vrebbe essere nell’interesse di tut­to il mondo il sostegno a un espe­rimento democra­tico come quello della Repubblica saharawi in una zo­na a rischio terrori­smo come quella sahariana. In tutti questi anni abbia­mo dimostrato non solo di essere un popolo che ama la pace, ma anche di essere un movi­mento fatto di attivisti 'laici' e di moltissime donne. Un’eccezione positiva in un’area dove si sta im­ponendo il fondamentalismo isla­mico ». Il ragionamento, di per sé, non fa una grinza, anche alla luce dei re­centi e ripetuti rapimenti di occi­dentali da parte di gruppi affiliati ad al-Qaeda, avvenuti nella vicina Mauritania, in Mali o in Niger. Sta di fatto, però, che le ragioni saha­rawi fanno fatica a superare non so­lo il muro della vergogna, ma ancor più quello dell’indifferenza del re­sto del mondo.
L’accusa: la nostra terra sottrattaci per mettere le mani sui ricchi giacimenti di fosfati e le costa dal mare pescoso
I racconti degli scampati alla repressione: violenze e torture, anche ai danni di donne e ragazzi

© Copyright Avvenire 10 marzo 2010